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Gianfranco Murtas

Cocco Ortu il ministro liberale ed antifascista in ideale compagnia di Lussu, Gramsci e Mannironi. A proposito di una polemica aperta da Paolo Maninchedda

di Gianfranco Murtas

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Da un amico repubblicano molto caro sono stato indirizzato alla interessantissima lettura di alcuni scritti a firma di Paolo Maninchedda e di Paolo Fadda che m’erano sfuggiti, apparsi in questi giorni nel sito di Sardegna-e-Libertà. Oggetto degli interventi la… legittimità dell’assimilazione di una personalità come quella di Francesco Cocco Ortu sr. a quella di altri fra i maggiori antifascisti sardi che avevano assaggiato il duro carcere politico, e segnatamente il comunista Antonio Gramsci, il sardista Emilio Lussu, il cattolico Salvatore Mannironi. Ai tre, e all’on. Cocco Ortu, sarebbero state intitolate alcune sale dell’ex museo archeologico di Cagliari, sito in piazza Indipendenza, fra il palazzo delle Seziate con la collegata antica e terribile torre di San Pancrazio e i palazzi Amat di San Filippo e Sanjust, quest’ultimo divenuto ormai da trentacinque anni sede della Massoneria giustinianea.

La contestazione da parte di Maninchedda degli asseriti meriti progressisti ed antifascisti di Cocco Ortu si è anche allargata a valutazioni negative sul ruolo di Cagliari parassitaria in faccia (anzi di spalle) alla Sardegna interna e intera. A sostenere l’opposta tesi della limpida coscienza e delle prove di democrazia di Cocco Ortu è intervenuto Antonello Mascia, presidente della Mazziniana cagliaritana, mentre a cogliere una salutare provocazione in certi giudizi tranchant di Maninchedda circa l’esclusivo fare “di (propria) convenienza” del capoluogo d’oggi, a differenza della imprenditorialità sociale dei Pernis o dei Capra della Vinalcool ecc., è intervenuto Paolo Fadda.

Nelle argomentazioni ora dell’uno ora dell’altro sono entrate evocazioni di episodi e di comprimari di scena meritevoli di speciali considerazioni: ha citato in negativo, Maninchedda, la sofferenza fatta patire al padre di Gramsci da un sistema di potere riconducibile a “sua eccellenza gialla” (come Sebastiano Satta definì l’ex guardasigilli di Zanardelli), ha citato in positivo, ancora Maninchedda, la figura di Ottone Bacaredda che s’oppose nella gara amministrativa del 1889 ai cocchiani (e rappresentò, o avrebbe rappresentato, un’anima più dinamica del liberalismo notabilare sardo); ha avvertito all’incontrario, Mascia, che Bacaredda fu ascrivibile al partito pessimo del gen. Pelloux – colui che accompagnò il re per la posa della prima pietra del municipio cagliaritano nel 1899 –, mentre Cocco Ortu fu un avanzato riformatore di ordinamenti civili e di certa legislazione sociale; ha osservato Fadda che l’attuale debolezza di leadership morale di Cagliari – se di tanto può imputarsi il ceto politico cittadino in proiezione regionale – nasce forse dalla fragilità del mondo imprenditoriale privato che non ha saputo offrire stature progettuali, professionalmente d’avanguardia quali furono quelle di chi segnò con la propria creatività i tempi sia bacareddiani che di Crespellani sindaco e primo presidente della Regione sarda.
So bene che la mia analisi o la mia opinione non contano nulla, ma poiché mi è stato chiesto dall’amico repubblicano di Nuoro cosa pensassi di tale interessantissimo dibattito meritevole di dotti contributi, non mi sottraggo e qualcosa (però non particolarmente dotto) mi sento di aggiungerla, senza smentire il giudizio di alcuno, ma semmai cercando, e spero trovando, elementi che possano certificare la parzialità – non l’errore – del ripasso delle biografie e delle vicende.

Premesso che ho molta stima di Paolo Maninchedda – pur nella distanza ideologica e politica dal suo indipendentismo e dal suo trascorso popolare e sardista – e che ammiro i suoi lavori scientifici felicemente andati in stampa, così come amicizia anche personale ho per Mascia e Fadda, osservo questo: che il confronto fra Cocco Ortu ed i tre dell’antifascismo militante non possa prescindere dalla considerazione di base che il primo fu classe 1842 e che dunque consumò gran parte della sua vicenda pubblica nell’Ottocento postrisorgimentale concludendola nell’età giolittiana, mentre gli altri erano tutti e tre più giovani di lui press’a poco di mezzo secolo, per cui il giudizio sulla loro presenza e missione sulla scena pubblica deve tener conto di uno scenario che è tutto novecentista: Lussu era del 1890, Gramsci del 1891, Mannironi del 1901. Di quel 1901 – mio permetto di aggiungere – che lo apparentò al cagliaritano Cesare Pintus, che avrebbe meritato, per la sua anima (e militanza) strettamente repubblicana e mazziniana, una quinta stanza nell’ex museo archeologico. Ché una distinta anima (e militanza, ancorché con generosi scambi in particolare con Lussu attraverso poi Giustizia e Libertà) i repubblicani sardi – minoranza erede di Efisio Tola fucilato a Chambery, di Giorgio Asproni e di Giovanni Battista Tuveri, e compagni anche di carcere di un Michele Saba (tre volte galeotto) e perfino di eroismo di un Silvio Mastio (caduto in una azione alla Pisacane in quel di Venezuela) – l’ebbero nell’Isola e nel maggior capoluogo bollato dal Costa come spagnolesco e clericale. Pintus e il suo gemello Mastio, entrambi dettorini come dettorini per molto o per poco furono anche – a farli tutti cagliaritani nella loro adolescenza – Lussu e Gramsci e Mannironi.



Per la formazione di cui godette in famiglia, e nel filone goceanino Cocco e in quello campidanese Ortu, per la sensibilità che mostrò non senza qualche rischio quando ventenne pubblicava sul periodico La Bussola… rapsodicamente sequestrato dalla magistratura e dove già s’affacciò – era il 1862 – la sua avversione alla pena di morte contemplata allora dall’ordinamento del regno (il giornale denunciava, facendone la cronaca, le impiccagioni alla Polveriera!), credo che Francesco Cocco Ortu mantenne inalterato quel sentimento della coscienza che mai avrebbe barattato l’utile passeggero con il dogma superiore della democrazia. Così quando, divenuto parlamentare all’età di 34 anni, pur avrebbe indossato l’abito del notabile non privo del senso del potere – inevitabilmente (purtroppo) compromissorio – da spendere nel territorio che lo eleggeva (con altri del suo stesso “partito”) al parlamento e dove contava una prolungata certa primazia amministrativa, così nel Consiglio e nella deputazione provinciale come negli enti locali.

Andrebbe detto che alcuni studiosi fra i più qualificati – qui cito soltanto il Sagrestani – si sono impegnati negli ultimi vent’anni, dacché si è ripreso a rivalutarne il ruolo pubblico e la leadership politica isolana (derivata anche dai vari ruoli governativi) nei tempi in cui il socialismo era ancora nascente e il clericalismo ostile allo stato liberale ancora troppo lentamente andava smarcandosi dal non expedit politico, a scorgere in Cocco Ortu una complessità che la prolungata ribalta giustificava: punta avanzata nel liberalismo di Montecitorio (dunque legislativo), notabilato nella realtà sociale-amministrativa della sua regione (favorita con la legislazione in testo unico del 1907, ma promossa già, con redazioni più leggere, dagli anni ’90).

Ma diciamo la verità, e riferiamola anche a personalità di altissima levatura culturale ed etico-civile del sardismo che pur nacque – si pensi anche all’esperienza elettorale dell’elmetto (1919) e a quella post 1921 – in chiave anticlientelare ed in avversione al notabilato liberale e dunque anche cocchiano: non erano forse accompagnate anche personalità come Pietro Mastino e Luigi Oggiano, come Gonario Pinna (lui negli anni ’40 e ’50 perfino nella nuova militanza socialista), o come Anselmo Contu (che il carcere aveva conosciuto trentenne), ecc. da clientele? Non era stata questa una delle colpe gravi che il Lussu del 1948 e 1949 scaricava sui suoi compagni dei Quattro Mori includendo anche Titino Melis e i Melis tout court?

Non possiamo prescindere, anche se volessimo, dalla natura della nostra società rurale di cento anni fa, di centocinquanta nel caso di Cocco Ortu! che esigeva forse, in quelle stagioni che ancora non conoscevano i partiti politici nell’accezione a noi (di due o tre generazioni più giovani) note, i trionfi della libera opinione, anche per la ristrettezza dell’elettorato (maschile, censitario, alfabeta). Cocco Ortu, ad andar per le brevi – questa è la mia modesta opinione –, mosso da una forte sensibilità liberale e orientato a cogliere i nuovi indirizzi della storia che andava verso il superamento della stagione liberale per approdare alla democrazia – e vide poi tutto cedere e rincularsi per l’intervenuta emergenza bellica, le tempeste del dopoguerra e la dittatura – riservò a se un ruolo, se si vuol dire così, “paternatistico” nel processo di ammodernamento sociale dell’Isola. Fu per lui come uno sdoppiamento: sul fronte nazionale ormai liberaldemocratico, non più soltanto liberale, e addirittura con Giovanni Amendola nel 1924, dopo lo strappo coraggioso dell’ottobre 1922 in casa del re (di cui fu inascoltato e umiliato consigliere), un accompagnatore moderato e riformista degli interessi locali per quaranta e più anni, dai tempi della battaglia per le ferrovie (quelli della cosiddetta “unione sarda”), appena tre lustri dopo l’unità d’Italia.

Perché se s’oppose – votando no – ai governi Crispi, del Crispi che era stato con lui, vent’anni prima, nella cosiddetta pentarchia, fu perché la politica colonialista e guerrafondaia di Crispi in Africa significò anche nuovi gravami fiscali sulla piccola proprietà meridionale e isolana e non fu facile allora subire quella certa politica prefettizia, di cui forse si era servito anch’egli in altre circostanze (ecco il caso Gramsci), che Crispi gli scatenò addosso, ad esempio, per dire soltanto della provincia di Cagliari – che copriva mezza Sardegna e anche Isili suo collegio elettorale – il prefetto Sciacca.

Quella era l’Italia monarchica e savoiarda, liberale di lenta (troppo lenta, e contraddittoria)evoluzione verso la democrazia e nessuno aveva potenza tale per rovesciarne d’improvviso il segno.

Dunque occorre tener conto dei tempi e delle rigidezze di ordinamenti che rimontavano e trovavano legittimazione non in una costituzione democratica e perciò laica ma nello statuto albertino che s’apriva con l’invocazione alla Santissima Trinità.

Resta il problema della “compatibilità” antifascista di Cocco Ortu con quella di Lussu, Gramsci e Mannironi. Io la scorgo, tenendo conto che, nonostante certe ruvidezze del passaggio di testimone, si trattò per il più di generazioni diverse e che, per certi aspetti – oso dire questo che forse sembrerà paradossale – fu ancora più coraggioso l’antifascismo, pur tutto morale, di un ottuagenario “campione del sistema” di quello dei trenta e quarantenni Lussu e Gramsci e Mannironi, personalità diversissime fra di loro eppure certo di pari e ammirevole nobiltà politica.



Non voglio allungare ulteriormente e sul confronto fra il liberalismo di Cocco Ortu e quello di Ottone Bacaredda, che pur si nutrirono entrambi – negli anni della adolescenza e prima giovinezza – di Mazzini e del mazzinianesimo (latte valoriale di formazioni destinate ad approdi diversi ma non distanti da quelli che pur avrebbero potuto essere se i protagonisti avessero voluto farsi oppositori, invece che riformatori, del sistema). Ricorderò che i due leader si incontrarono, assorbendo la loro reciproca avversione, dopo i famosi moti del 1906, e che la stessa Unione Sarda - intendo la testata giornalistica – propostasi antibacareddiana per ben 17 anni convertì allora la sua linea politica; ricorderò anche che Cocco Ortu e Bacaredda votarono entrambi la fiducia ai governi d’inizio Novecento, quando Bacaredda volle tentare l’esperienza parlamentare: Bacaredda già nel 1901 (e per due anni, il tempo del suo intero mandato) per il governo Zanardelli del quale Cocco Ortu era ministro guardasigilli! e ricorderò ancora il bellissimo discorso di Bacaredda alla ripresa della sua sindacatura nel novembre 1911, che fu tutto un inno alla democrazia: allora egli aveva in giunta e in maggioranza anche i repubblicani che pur gli erano stati ostili nel 1906, e dette corso ancora a quel “liberismo organizzatore” quale fu definito il suo liberalismo progressista nel quale per tanti versi lo stesso Cocco Ortu si riconosceva: entrambi avevano capito, da buoni lettori della storia, che passata la stagione generosa del mutualismo (e delle fratellanze operaie mazziniane conosciute e ammirate in gioventù) si andava verso lo stato sociale e che il mondo del lavoro, con i suoi diritti – e di contrattazione e di sciopero – , andava assumendo un ruolo pubblico rilevantissimo attraverso sia i partiti di matrice socialista che i sindacati ed anche la stampa d’area. Così anche in Sardegna.

Quanto a Cagliari e alla sua classe dirigente la quale in vario modo – in modi opposti dice Maninchedda – ebbe in Cocco Ortu e in Bacaredda una sua immagine-specchio, e alla caduta del ruolo che l’imprenditoria ispiratrice, produttrice di ricchezza e di valore aggiunto, ha avuto nel tempo – come sostiene Paolo Fadda – varrebbe anche qui insistere molto nelle contestualizzazioni sol che si pensi a cosa scriveva di Cagliari e dei suoi ceti parassitari e anche ingordi, certamente ingenerosi verso la provincia, il Baudi di Vesme quando guardava al tempo preunitario. Ma l’argomento meriterà una ripresa e uno svolgimento meno affrettato.



Credo in ultimo vada dato atto a Paolo Maninchedda e alla sua sapida polemica provocatrice di aver smosso le nostre riflessioni. Perché anche quando non si condivide una opinione che pur sia argomentata, non può non riconoscersi la preziosità del contributo.

 ***

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).


Fonte: Gianfranco Murtas
RIPRODUZIONE RISERVATA ©

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Roberto Saba

02 Mag 2022

Grazie per il ricordo di mio nonno, Michele Saba


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