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Gianfranco Murtas

Dedicato a Salapuzio delle spelonche nostre

di Gianfranco Murtas

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Due o tre mesi fa ho appreso esser stata inoltrata una querela per diffamazione che m’indicava, press’a poco, come irriguardoso verso la dottrina sostenuta da alcuni, e fra essi, particolarmente noto, Efisio Impellizzieri , caffettiere fenicio e biografo di Minnie.

Avevo contestato che si fosse irriso al presidente della Repubblica e all’allora presidente emerito, al presidente della Camera nella scorsa legislatura (l’on. Fico cui si consigliava, con fine eleganza e sapienza certa, il cambio della vocale finale), alla sacralità del 25 aprile fondamento storico e morale della nostra costituzione, ed a tanto altro, dal popolo dei migranti maomettani alla santa donna da sciogliere nell’acido, e a tutto questo moltiplicato per cinquanta.

Quando sono stato interrogato, fra i documenti dei quali mi si chiedeva conto indicandomeli come possibile corpo di reato, facevano bella mostra sul tavolo dell’autorità tanti fogli colorati pieni pienissimi, tratti dall’web e ricchi ciascuno di corposi freghi “redazionali”. Tali e quali – ma chiari e puliti – essi erano stati a suo tempo depositati alla casella del competente ufficio giudiziario e costituivano la trascorsa denuncia interna di larghi ed insuperati, e dannosi, mal d’intelligenza. Tanta produzione era stata poi trasmessa fiduciariamente, e non per mia iniziativa, alla piattaforma di “giornalismo partecipativo” Giornalia.com che correttamente l’aveva accolta. S’era dunque trattato, così reso in data 29 settembre 2020, di un interessante ed aggiornato dossier pubblico (ancora oggi facilmente consultabile da un pc domestico o da uno smart tascabile, nel sito appunto di Giornalia.com, e già visionato – ho saputo – da circa 4600 utenti).

Tutto era nato dalle spericolate (ed applaudite) acrobazie mentali di alcuni cantinieri che avevano rovesciato per gioco Sergio Mattarella e Giovanni Bovio, Giuseppe Mazzini e Giorgio Napolitano, perfino la repubblica costituzionale nostra, e cioè il maggior patrimonio civile di noi altri che crediamo nella democrazia, e che la democrazia mazzinianamente associata all’umanitarismo abbiamo servito – ed ho servito –, lungo una vita intera, nei sodalizi civili, culturali e politici come nel volontariato d’ospedale o di comunità o di carcere, nelle logge e nella domus vescovile, nell’amministrazione e nella letteratura, nella ricerca storica e nella promozione territoriale fra i pastori e i contadini della nostra regione.

M’era capitato giusto trent’anni fa di ricevere una analoga querela, io primo imputato con i colleghi e/o amici de L’Unione Sarda. Dopo otto convocazioni a palazzo di Giustizia, i querelanti desistettero, lasciandomi integro quale ero prima della sequenza delle udienze, e dandomi modo a che per altrettanti anni quanti erano stati quelli della quotidiana militanza ancora mi impegnassi, con quello spirito di pratica fraternità che è il miglior dono educativo offertomi dai miei genitori, a rendere meno faticosa la malattia degli infettati dall’aids, chi in cella chi in corsia. Ero giovane o quasi ancora giovane allora, ora sono a fine corsa. Ma la querela di Salapuzio, risvegliando le memorie, mi ha ringiovanito l’anima.

E però io, felice o infelice, non conto nulla. Quello che mi ferisce, ed è ferita che sanguina maledetta per l’amore che ho alla buona storia, è che il GOI cagliaritano sia affidato, per tanta sua parte, a Salapuzio, Impellizzieri e combriccola loro, a una destra parafascista e cialtrona che non sa neppure dove ha i piedi e meno che meno la testa, incapace come è di pensare il bello e il giusto.

Mi congedo dalla breve pagina riportando qui di seguito la parte finale di uno dei tanti articoli (sul cosiddetto “caso Bovio-Mattarella” sono stati una quarantina in tutto, per circa 400 cartelle) che ho pubblicato nei tempi non così lontani, ed insinuatisi, già sconfitti ma testimoniali, nel silente buio dei tutti. Questo apparso, in Giornalia.com, il 2 settembre 2021. Pensavo allora e penso oggi, di ritorno dalla visionaria missione nella cattedrale inglese di Exeter (A.D. 1050) col suo formidabile colonnato e i preziosi capitelli colorati di settecento anni fa, a quanta virtù abbia circolato nei Templi della Libera Muratoria anche sarda ed a quale tremenda deriva la follia di pochi e l’omertà dei tutti abbia portato, a tanta pochezza riducendo una meraviglia plurisecolare.


L’esempio di Virginio Condello e quel suo dono prezioso

Riprenderò i vari filoni qui soltanto affacciati per sviluppare in particolare l’aggressione fumettistica alle autorità apicali della Repubblica e meglio illustrare la deresponsabilizzazione di chi non regge il passo, né soprattutto ha mostrato il buon gusto di ritrarsi per la prova drammaticamente fallita.

Ancora, stavolta, voglio invece soffermarmi sulla virtù di un passato tanto prossimo da considerarlo piuttosto tempo presente: un presente che pur avrebbe potuto, e potrebbe, innalzare e menti e cuori di tutti, e nella esemplarità della sua offerta farsi guida di un impegno civico e solidaristico di tutti, di tutti, di tutti davvero… per il bene e il progresso della umanità. E vado a Virginio Condello, al Fratello Virginio Condello.

Era come derivato, Virginio Condello, dal miglior filone dei Luigi Cocco Serreli e degli Armando Businco – medico l’uno e, in quel 1909 del terremoto di Messina, ancora studente di Medicina l’altro, destinato poi alla più alta cattedra universitaria a Bologna e alla testimonianza antifascista, fino ai limiti di un lager burgundo, e intanto rinchiuso nei campi di prigionia della Repubblica Sociale Italiana, lui sempre – dai suoi generosi quindici anni – mazziniano nelle militanze repubblicana, sardista e azionista, nelle arrischiate intese catacombali di Giustizia e Libertà contro la dittatura, perfetto cittadino e perfetto democratico, perfetto massone e perfetto medico cui giustamente sarebbe stato intitolato, un giorno, l’Ospedale Oncologico della Sardegna. Sì, dal grande filone umanitario e democratico di Luigi Cocco Serreli ed Armando Businco e degli altri allora giovani barellieri attivi al porto di Palermo (e prossimi anch’essi all’iniziazione massonica) era giunto al Grande Oriente d’Italia e alla Fratellanza cagliaritana Virginio Condello. 

Fu lui a donare una Torah alla sua loggia, quella Torah che campeggiava sull’ara rituale accanto alla Bibbia concordata (interconfessionale) ed al Corano, e che un giorno venne sottratta da mani furtive, così ferendo sentimenti, memorie e valori fuori mercato, la religione e l’arte stessa dei costruttori, la Tradizione rituale dei liberi muratori. Un delitto di cui tutti hanno saputo, di cui tutti sanno – un delitto gemellato a quell’altro degli insulti pasticciati (e qui irripetibili) nel labaro del Capitolo Knight of Heredom, ma che come nelle perdizioni della mafia è restato e resta ancora coperto da neghittosità omertose non classificabili dai codici di una onesta e dinamica, vitale compresenza mirata integralmente e non ad altro che ad «edificare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio». Per la maturazione individuale e comunitaria, nella prospettiva comunionale.

Debbo dire di Virginio Condello, apostolo della cooperazione produttiva e distributiva isolana, protagonista dei migliori servizi della Caritas diocesana di Cagliari, giustinianeo di altissima dignità morale, oltre che intellettuale e professionale: Cappellano e poi Secondo Sorvegliante della loggia Heredom. Dei tesori della cultura ebraica era stato sempre appassionato e competentissimo studioso. Come Sabino Iusco, anche lui passò all’Oriente Eterno, alla Valle dei Giusti, figlio buono di Domineddio, nel 2013 del nostro umano calendario.

Aveva lavorato nella rete Conad, aveva diretto l’ufficio studi dell’Enaip, poi quello delle Acli e la sede sarda dell’Eurispes (realizzando il primo rapporto sulla qualità della vita in Sardegna), era stato collaboratore diretto del presidente della Regione Palomba e dell’arcivescovo Ottorino Pietro Alberti fondando, in ambito Caritas, il primo fondo antiusura attraverso il consorzio fra la diocesi di Cagliari ed un certo numero di banche, e poi anche dedicandosi al progetto Policoro teso all’inserimento professionalizzato dei giovani nel mondo aziendale. Aveva accompagnato il progetto sociale Marinando (appunto nel quartiere cittadino della Marina) e proiettato anche all’estero la sua ingegnosità dando vita a un’azienda agricola (avicola) a Salvador de Bahia, in Brasile, per dar lavoro a quei “ragazzi di strada” altrimenti a rischio crescente. Direttore provinciale di Confcooperative, aveva partecipato con contributi di studio di altissimo spessore a manifestazioni che nel volontariato e nella solidarietà sociale avevano le loro luci ispirative e la prova dell’efficacia realizzativa. Fortunatamente internet conserva alcuni di questi contributi, come quelli ripetutamente offerti a Radio Radicale oppure, da noi, al Centro Giovanile Domenicano di Selargius. Ne cito uno: su “I diritti umani: luci e ombre nel mondo attuale”.

Personalità nobile e preziosa di cui il Grande Oriente d’Italia nelle sue maturazioni cagliaritane avrebbe ben potuto vantarsi, oltre che giovarsi. Per il bene dell’Uomo, nella migliore visione ecumenica tante volte illustrata dai Gran Maestri, operò in campi diversi e complementari, civili e religiosi. Alla Caritas cagliaritana era giunto negli anni della guerra della ex Jugoslavia, ed anche con il suo aiuto progettuale e organizzativo l’Isola accolse circa 300 profughi, in specie piccoli con le loro madri, e tutti inserì gradualmente nelle nostre strutture sociali e lavorative


«Una persona preparata – così nel ricordo di don Marco Lai, direttore della Caritas cagliaritana, che i bosniaci in fuga accolse anche in casa, cedendo perfino il proprio letto –, di cultura non solo accademica ma anche ecclesiale e biblico-teologica, radicata nel sociale. Fu lui a sensibilizzare la Regione sull’importanza dell’accoglienza dei bosniaci permettendo la creazione di un gemellaggio tra Chiese sorelle». Poi, sempre in Caritas, la preziosa collaborazione con il Centro Studi, «grazie alla sua capacità di approfondire e comunicare la Dottrina sociale della Chiesa». Uomo di spiritualità, preghiera e visione sociale, sì visionario e pragmatico ad un tempo, positivo sempre. Sempre nuovo e sempre uguale a se stesso anche nei duri mesi della malattia, che «dopo un primo momento di sconcerto e turbamento – così sempre nella testimonianza di don Lai – ha vissuto con speranza cristiana, con una spiritualità che ci ha lasciato in eredità».    

Lo stesso idealismo, la stessa spinta morale nello stretto campo professionale. Molti hanno voluto rendergli testimonianza all’indomani della morte. I suoi collaboratori ed i dirigenti di Confcooperative: «Ha portato un po’della Caritas in Confcooperative, creando un rapporto di dialogo costante. Una persona generosa, disponibile, attenta al prossimo. Quando veniva al lavoro ci faceva sentire importanti. Un grande lavoratore: fino all’ultimo ha frequentato l’ufficio, gli dicevamo di riposarsi, di tenersi riguardato. Il suo impegno è stato fondamentale nel rilancio strategico di Confcooperative e della cooperazione regionale». E ancora: «Una persona brillante, con grandi caratteristiche anche di umiltà, senso civico oltre che senso cristiano. Era un “cultore della cultura”, amava approfondire le cose, come lo studio della Bibbia, anche sul campo. Il suo stesso ultimo lavoro, realizzato per il Dossier annuale della Caritas, evidenzia, soprattutto nella parte bibliografica, una ricerca costante, con disponibilità a mettere in discussione le proprie convinzioni»…

Questo l’uomo, il Fratello che donò alla sua loggia la Torah – il libro sacro, “luce” simbolica così intimamente associata, appunto nella simbologia muratoria, alla squadra (della rettitudine) e al compasso (della ingegnosità) che una certa ombra, ignara di sé e degli altri, un brutto giorno, profanando luogo e umanità, sottrasse all’utile di tutti, in una casa che mai avrebbe immaginato – ripenso al mio Vincenzo Racugno che quel solenne compendio aveva donato con infinita generosità – potesse diventare teatro di sconfortante oltraggio. 

 


Fonte: Gianfranco Murtas
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