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Gianfranco Murtas

Dedicato a un Grande Dignitario del GOI

di Gianfranco Murtas

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Nota a futura memoria per la storia municipale di Cagliari

Sabato 18 luglio 2020, secondo diverse testimonianze orali e scritte, fui dichiarato non gradito a palazzo Sanjust – dove tante partecipazioni di lavoro, a tanto sempre invitato, avevo consumato negli ultimi vent’anni (e che da redattore / programmista… a latere avevo frequentato – sempre gratuitamente – giusto quarant’anni fa per le produzioni storico/giornalistiche di La Voce Sarda, una delle prime emittenti televisive dell’Isola). Chi si pronunciò in tal senso, con pedissequo allineamento del presidente del Collegio circoscrizionale, dell’Oratore e del Segretario, e il silenzio acquiescente di tutti i presenti, fu un a Grande Dignitario della Comunione giustinianea e successore, in linea storica, nientemeno che di Giovanni Bovio, il filosofo del diritto e parlamentare che nella debole democrazia postrisorgimentale costituì il maggiore interprete ed autorevole continuatore del magistero etico-civile di Giuseppe Mazzini. 

Sbeffeggiato, da uno scriteriato e poi da suoi sodali non più di lui centrati di cervello e di spirito patrio, lo storico busto in gesso pesante che avevo portato in quella sede nel novembre 2008 immaginandolo rispettato ed amato da tutti allora e sempre, contestai con molti scritti e per due anni i cattivi comportamenti e soprattutto la ignavia inqualificabile di quanti avrebbero dovuto vigilare e invece coprirono, evidentemente anch’essi senza alcun senso istituzionale né del più elementare decoro, arbitrio e insolenti malefatte che videro vittime anche le massime autorità della Repubblica oltre che, paradossalmente, la stessa ritualità massonica.

Quasi da subito avvertii le evidenze di un isolamento nel quale numerosi dei più intimi, non meno che verso me amici del Grande Dignitario, mi collocarono. Nel novero anche chi mi aveva esortato, nei primissimi giorni della polemica pubblica, a richiamare a responsabile intervento bonificatore quel successore di Giovanni Bovio… fortunatamente nostro, sardo e cagliaritano.

Raccolsi infatti quel suggerimento e detti quasi per scontato che una forte testimonianza sarebbe venuta da quel Grande Dignitario che in giunta, a Villa il Vascello, sedeva come a suo tempo aveva seduto, a Palazzo Giustiniani, un uomo del valore e del prestigio di Mario Giglio (e, prima di lui, altri ancora). L’attesa fu presto frustrata e anzi venne una presa di posizione, da dietro le quinte, incredibilmente opposta.

Me ne dolsi. Non poteva essere un pensiero corto a compromettere il ripristino di decoro non tanto di una statua ma di chi e quanto quella statua rappresentava per la memoria civile, democratica e latomistica dell’Italia e della Sardegna. E mai però avrei immaginato la veemenza con cui la causa sbagliata, contraria al giusto, sarebbe stata sostenuta con diktat padronali e di puro cartone. Tanto più che avevo fresco ricordo di quanto, settimane o mesi prima, dallo stesso Grande Dignitario venuto a trovarmi a casa due volte, mi era stato chiesto: di considerare l’idea, pro futuro, del conferimento del mio Archivio storico generale della Massoneria sarda a quello centrale del GOI; di donare alla Biblioteca centrale del GOI i miei libri di storia della Libera Muratoria sarda (il che feci tempestivamente, recapitando una ventina di volumi); di offrirgli un contributo scritto valido quanto meno come base di una Tavola tematica programmata come “piatto forte” di una sua prossima visita alla loggia Pitagora – XXIX Agosto n. 1168 all’Oriente di Palmi in Calabria, e cui avrebbero presenziato anche le rappresentanze delle altre officine, inclusa la… Giovanni Bovio n. 275 all’Oriente di Reggio Calabria.

Pur impegnato su altri fronti, con la disponibilità di sempre, impegnai qualche giorno a riflettere e prepararmi e, steso il lavoro – del quale non saprei io valutare la qualità –, lo trasmisi il 30 luglio 2019. Ci penso adesso: giusto un anno prima della notifica coram populo del mio “non gradimento”.

Ecco il testo del mio contributo al Grande Dignitario.

Orgoglio e pregiudizio. Una libera riflessione

Alcune suggestioni che mi sono venute dalla rilettura di “Orgoglio e pregiudizio” (“Pride and Prejudice”), il romanzo che Jane Austen pubblicò in Inghilterra nel 1813 – poco prima della definitiva sconfitta di Napoleone e anche poco prima, dunque, che l’Europa ripigliasse, partendo dal congresso di Vienna, gli assetti dell’ancien régime con al centro l’alleanza fra il trono e l’altare – mi hanno a riflettere su come orgoglio e pregiudizio possano aver giocato anche nelle vicende massoniche, tanto più italiane, lungo i secoli e fino ad oggi.

Orgoglio e pregiudizio sono sentimenti che rispondono a schemi mentali derivanti da modelli educativi o formativi che strutturano la personalità di ciascuno di noi, inducendoci ad una percezione del sé e degli altri, inducendoci quindi a classificare per valore ogni accadimento della vita comune.

Nel romanzo della Austen questi elementi si rivelano immediatamente nell’orgoglio del proprio status sociale che mostra il maggior protagonista maschile (Darcy) e nel pregiudizio circa l’altrui identità – che da “apparente” viene fatta “reale” – quale è manifestato dalla maggior protagonista femminile (Elisabeth). 

Nella Sardegna dell’interno, quella barbaricina, si usa una espressione per definire questo atteggiamento mentale: “dar corpo alle ombre”, scambiare l’apparente per il vero: un gioco della mente, un gioco imbroglione che fa soltanto vittime, chi lo aziona e chi ne è colpito.

Sarà l’abbandono dell’uno – l’orgoglio – che provocherà, virtuosamente, un ripensamento critico e dunque l’abbandono dell’altro – il pregiudizio.

Insomma, virtù provoca virtù.

Ma né l’una cosa né l’altra – dico il superamento da una parte dell’orgoglio, dall’altra del pregiudizio – avverranno senza passaggi conflittuali e contraddizioni, senza una dialettica fra loro dura e sfiancante: dialettica fra motivazioni entrambe irreali, perché sia l’orgoglio che il pregiudizio sono ingessature artificiose, prigioni della intelligenza, della vita morale e, alla fin fine, della vita sociale (conseguente alla vita morale).

Sarà la coraggiosa conoscenza reciproca che abbatterà le barriere e trasformerà l’avversione o l’inimicizia in alleanza ed amore.  

Sulla grande scena mondiale – di quell’Europa che tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento costituiva il centro del mondo per la produzione industriale e i traffici economici, per la pratica scientifica, per i costumi delle masse così come delle élite, ecc. – potremmo dire che proprio nell’Inghilterra della Austensi realizzò, appunto pur con infinite contraddizioni nella dialettica delle classi (in specie fra aristocrazia fondiaria e borghesia industriale), quanto avvenne in Fitzwilliam Darcy e nella famiglia di Elisabeth Bennet: il superamento dell’orgoglio ingessato e conservatore di uno status sociale, o di una convenzione sociale, e il superamento del pregiudizio circa le altrui intenzioni.

In altre parole, dal sofferto e graduale incontro fra le classi in campo, possibile soltanto dal superamento delle rigidezze mentali di ognuna delle parti in campo, si ottenne nuovo futuro e nuovo progresso.

Fu l’incontrario sul continente: in Francia l’orgoglio cieco del gaudente e parassitario patriziato e la furia sovvertitrice delle nuove classi produttive che non riuscirono a trovare interlocuzioni positive portarono al muro contro muro, alla rivoluzione sanguinosa (e sanguinaria), avvelenando per anni e anni dopo il fatidico 1789, la vita sociale e politica della nazione. Da lì poi il fenomeno napoleonico con le sue luci e le sue ombre. 

Ecco il quadro, ecco le suggestioni che la rilettura di “Orgoglio e pregiudizio” mi hanno portato a riflettere sulle vicende del campo nostro, quello della Libera Muratoria italiana, oggetto combattuto nella società, o in molte parti della società, da pulsioni d’orgoglio e pulsioni di pregiudizio.

La prima domanda che mi sorge spontanea è se orgoglio e pregiudizio costituiscano clave mentali o ideologiche entrambe estranee alla nostra istituzione, che di esse sarebbe vittima, oppure se il pregiudizio sia degli altri e l’orgoglio sia nostro, che non riusciamo a scorgere in esso – vizio all’apparenza – un elemento profondamente virtuoso che lo giustifichi, ma che soprattutto ce lo riveli nel suo senso più intimo e umanamente coinvolgente.

La metto con altre parole: la Massoneria è una società fraternale che congloba in sé idealità umanistiche di rango spirituale, intellettuale, civile, anche politico in un certo senso, idealità certamente solidaristiche ad intra e ad extra; essa è, per questa sua propria natura, minoranza estrema in campo sociale. Lo sarebbe forse in ogni contesto, lo è tanto più in Italia dove alcune sue connotazioni sono considerate, e certamente lo sono state in passato, estranee alle prevalenti sensibilità pubbliche ed alle prevalenti credenze e pratiche delle masse.

Nell’antirisorgimento di matrice cattolica, nella riserva antiborghese del socialismo di fine Ottocento/primo Novecento, nella avversione ideale e di natura nazionalista del fascismo delle origini e poi anche di quello fattosi regime, possono trovarsi alcune delle cause di un antimassonismo presente nel sentire diffuso prima ancora che in certe posizioni politiche assunte ufficialmente dai partiti o dai soggetti sociali di maggior importanza come la Chiesa. Fino ai deliranti sospetti di contiguità mafiosa.

L’argomento sarebbe troppo vasto per poterlo sviscerare portando ad esso anche un contributo specifico che potrei recuperare dalla stessa storia moderna della mia Sardegna. Da cui traggo soltanto questo flash: nel 1865, a pochi anni dall’unità d’Italia e mentre lo svolgimento risorgimentale e postrisorgimentale vedeva l’avanzata della borghesia liberale in superamento delle posizioni reazionarie della aristocrazia, un clericale aristocratico – dunque antiliberale per ragioni ideali e antiborghese per ragioni sociali – lanciò i suoi “goccius” circa gli appartenenti alla loggia cagliaritana disegnandone i profili soltanto in chiave di dileggio.  

A far più generale il discorso, si pensi a un’Italia che ancora al tempo della unità politica (1861) e dunque anche del rilancio massonico con la loggia Ausonia (1859) riportava i 4/quinti della sua popolazione nella statistica dell’analfabetismo; si pensi a un’Italia in cui, a cinquant’anni dalla unità (censimento del 1911), gli analfabeti ancora sfioravano la metà della popolazione; ad un’Italia in cui, a cento anni dalla unità (passato cioè tutto il risorgimento e il post-risorgimento, passato il giolittismo, passato il fascismo, passato anche il trambusto della prima ripresa postbellica), gli analfabeti assoluti erano ancora un sesto della popolazione, ma con quelli relativi, cioè quelli appena alfabetizzati, assommavano a un quarto addirittura… In una Italia così, rurale in larga prevalenza, con differenziali territoriali importantissimi fra nord e sud, la Chiesa cattolica, insieme con la semina dei valori evangelici e con la edificante testimonianza di vita di innumerevoli suoi chierici, predicava la propria dottrina tutta in chiave dogmatica, e così formava le masse fedeli.

Di più: se all’inizio essa persisteva nella difesa dei suoi interessi d’ordine temporale – lo stato pontificio, la “questione romana” in opposizione allo Stato liberale “usurpatore” –, nel ventennio della dittatura essa condusse un vero e proprio “duumvirato” con le gerarchie politiche, entrando, grazie ai patti del Laterano del 1929, nella legislazione matrimoniale, nella docenza scolastica, nell’amministrazione pubblica (con la ripulsa dei funzionari – insegnanti compresi – “irretiti” dalle sanzioni canoniche, come fu per gli ex sacerdoti, fra i quali si ricorderà il Buonaiuti, uno dei pochissimi docenti universitari che non avevano giurato fedeltà al regime), nell’assistenza non soltanto negli ospedali ma nelle forze armate (dopo il ripristino del ruolo negli anni straordinari della grande guerra), ecc. 

In quell’Italia del “consenso” popolare alla dittatura, val bene ricordarlo, gli uomini della Chiesa trovarono nelle stesse guerre coloniali ed imperialiste in Africa nuove occasioni di proselitismo missionario e dunque nuove ragioni di consonanza d’interessi con il regime totalitario.

All’avversione fascista alla Massoneria, che aveva comportato la chiusura di tutte le logge nel 1925, la Chiesa cattolica aggiungeva le sue ragioni insieme d’interesse e ideologiche, le quali ultime rimontavano addirittura i secoli da cui erano venute le scomuniche: una Chiesa che interpretava se stessa come “società perfetta” detentrice dell’intera verità sull’uomo, la storia e l’universo, non poteva immaginare che un battezzato sedesse su un piano di parità assoluta con un ebreo o un protestante, come invece accadeva già nel Settecento e a Roma stessa, la Roma dei papi e dei tribunali dei papi, inducendo i massoni ancor più a nascondersi per sventare maggiori pericoli.

Ancora: in un’Italia in cui i ritardi della classe dirigente liberale alimentarono, per opposizione, un socialismo proletario molto ideologizzato in senso anti-borghese, avemmo nel 1914 il Partito Socialista Italiano che sancì al suo congresso di Ancona la regola della incompatibilità fra la militanza politica e quella associativa massonica.

Con il fascismo avemmo non soltanto una avversione che era proprio nelle cose, nella inconciliabilità – invero non subito compresa e interiorizzata nelle logge (fu anche l’errore del Gran Maestro Torrigiani) – fra la pratica tollerante della Fratellanza e quella prepotente e violenta dei mussoliniani, ma che era anche nell’addebito che si rivolgeva alla Massoneria in quanto società “universalista”, in rapporti di comunione ideale con altre Obbedienze estere, di essere una sorta di cavallo di Troia degli interessi stranieri in Italia, un traditore in potenza e in fatto. 

Tutto naturalmente era enfatizzato dalle più strette convenienze della dittatura che abolendo il libero associazionismo, al pari della libera stampa, del libero sindacato, della libera politica, non poteva che demonizzare la Libera Muratoria.

Il pregiudizio antiliberale ed antiborghese si è strutturato, nel tempo, nel succedersi delle generazioni, per cui continua ad assumere connotazioni attuali in una certa percezione della Massoneria, da una parte come associazione antidogmatica e libertaria, rigorosamente laica anche nella militanza civile e politica dei suoi membri, e dunque confliggente con una visione religiosa tradizionale nelle forme del cattolicesimo latino, dall’altra come lobby d’interessi economici a pro di ristretti gruppi industriali o professionali distanti dal bene comune.

Secondo taluno il pregiudizio degli ostili verrebbe da una istintiva avversione ad una Fratellanza che ha tecniche tutte sue per favorire la produzione di un pensiero critico applicabile ad ogni campo della vita sociale, nella professione come nella politica, nella relazione interpersonale e nella stessa militanza, se esistente, religiosa o di fede. Ne dirò poi.

A fronte di questo pregiudizio noi potremmo, con spirito anche autocritico, ipotizzare un orgoglio da parte nostro: nel senso almeno che la sensazione di essere assediati da una generale incomprensione – incomprensione pur di diversa origine e diverso sviluppo – ci abbia limitato nello sforzo di piena apertura alla società civile e alle sue componenti più vitali e valide.

Intendiamoci, moltissimo il Grande Oriente d’Italia ha fatto ormai da svariati decenni – direi dagli anni ’60, dalla gran maestranza Gamberini in qua, per interloquire con soggetti sociali, culturali e religiosi di alto profilo e offrire su molte materie la lettura propria della Libera Muratoria, riferita sempre a valori fondamentali di natura etico-civile, o di interpretazione storica dei grandi fenomeni d’interesse generale.

Il rimando problematico, mai assertivo, di chi non si dichiara portatore di alcuna verità assoluta e definitiva ma si presenta piuttosto come cultore del dubbio e della ricerca, individuando in questa fatica la strada comune da percorrere con altri – ecco l’ecumenismo massonico – colloca la Massoneria in un ambito che è obiettivamente “controcorrente” ed “anticonformista”, perché non può mai andare per semplificazioni esasperate, per frasi fatte, per conclusioni definitive.

Lo stesso termine della libertà – il primo del celebre trinomio che campeggia nei nostri templi – viene connotato dalla Massoneria, combinandolo con il concetto di responsabilità, in ogni campo del vivere sociale: riferendolo alle libertà e diritti dell’uomo e del cittadino, riferendolo agli ordinamenti costituzionali, giuridici e politici, riferendolo ai campi di attività e progresso della scienza, ecc. Ma prima di tutto riferendolo proprio alla necessità della emancipazione da ogni risucchio del pregiudizio che potrebbe incombere anche sui massoni stessi: e dunque libertà da se stesso, da ogni tentazione semplificatoria soltanto per averne il compenso dell’apprezzamento o soltanto per gustare l’ebbrezza della sfida; libertà da se stesso quando monta la tentazione del rifiuto del dialogo e del confronto, della ricerca comune con condivisa buona volontà.

E’ orgoglio, un orgoglio che può essere virtuoso ma può essere anche vizioso questo massonico. Orgoglio virtuoso quando esso è accompagnato dal sentimento di dover onorare una tradizione nobile con comportamenti, nell’attualità, altrettanto nobili; vizioso quando la tradizione è colta come dono soltanto nominale e quasi accidentale e non è invece compresa nella fatica della sua costruzione da parte di migliaia e migliaia di Fratelli che hanno vissuto il loro tempo onorando il grembiule.

Potremmo vivere un orgoglio vizioso ogni volta che cediamo a un certo disinteresse all’incontro con chiunque, da qualsiasi area culturale o religiosa o civile provenga, ci si mostri desideroso di capire il nostro mondo e di camminare con noi. Potremmo definire virtuoso l’orgoglio di quei massoni che sanno di essere portatori responsabile di un patrimonio ideale secolare e di esserne, o doverne essere, oltreché custodi, anche attualizzatori e testimoni con la propria vita, non soltanto con la parola, e vogliano allargare il giro dei coinvolgimenti per il bene dell’umanità. 

A questo punto, avviandomi alla conclusione, recupero il riferimento accennato prima circa la dimensione della Massoneria come fucina di pensiero libero o di ricerca – giusto il contrario della lobby d’affari o di convenienze pagane – che, per il fatto in sé, scatena avversioni da parte di chi, imprigionato in schemi mentali rigidi, dogmatici ed assertivi, teme il confronto, ogni confronto che possa porre dubbi sulle proprie convinzioni, fino a poterle addirittura rovesciare.

Non è che sia mancata, nella esperienza storica della Massoneria, qualche stagione in cui le contingenze magari della politica o della religione propagandata nelle piazze e nelle famiglie abbiano condizionato i massoni, portando anch’essi a un processo semplificatorio delle altrui convinzioni o posizioni pubbliche.

Così certamente è stato, per dirne una, al tempo in cui il “libero pensiero” è diventato, o ha rischiato di essere esso stesso dogmatico, una religione altra, o una contro-religione

Certo è che la revisione critica della nostra storia, che poi è un portato della nostra stessa impostazione concettuale, non può giungere a scambiare i limiti o i difetti umani per la prova di una debolezza “di natura” della nostra Fratellanza.

Allo stesso modo che noi non possiamo confondere, per fare un paragone alto, il cristianesimo o la Chiesa cattolica con l’inquisizione o la ghigliottina della teocrazia di Pio IX (e contro cui tanto combatté il nostro Giorgio Asproni!), perché lì c’è stato, dopo il Fondatore, anche un San Francesco o una Madre Teresa, così non possono essere gli inciampi degli uomini a compromettere la validità di un impianto ideale fraternale quale abbiamo strutturato in un così ampio arco temporale: un impianto ideale fraternale che è stato storicamente profetico sol che pensiamo alla tolleranza delle idee, all’incontro fra diversi convergenti nel “centro d’unione” di cui parlano, già dal Settecento, gli Antichi Doveri: se la Chiesa cattolica è passata a considerare “fratelli maggiori” gli ebrei che ancora nella metà del Novecento essa definiva “deicidi” (così nella liturgia del Venerdì santo), non potremmo noi ricordare la compresenza nel tempio simbolico, su un piano di assoluta parità, e già dal Settecento, di fratelli cattolici e fratelli ebrei?

E non è nella tolleranza e nell’incontro fra diversi che noi pratichiamo da sempre nel tempio e fuori dal tempio la radice di quella democrazia entrata negli ordinamenti costituzionali? dando vitalità alla unità nella diversità?

E se oggi, in occasione dei dolorosi lutti che incombono su tutte le famiglie, sempre più frequente è il ricorso alla cremazione, dopo una condanna confermata dalla Chiesa fino a pochi anni fa, non potremmo noi ricordare che le prime società per la cremazione, nell’Ottocento, sono state tutte massoniche?

Una radice massonica è presente nella Croce Rossa come nell’Avis, come nelle grandi istituzioni internazionali, dalla Società delle Nazioni all’ONU, ecc.

Tutto questo legittima un orgoglio virtuoso che però non deve separarci da chi ha compreso più lentamente di noi, con maggiori contraddizioni ma non con minore buona volontà… Anzi, il nostro orgoglio tanto più sarà legittimo e virtuoso quanto più sarà mischiato alla generosità della comprensione per le altrui difficoltà: direi per gli altrui pregiudizi suscettibili di liquidarsi davanti alla forza degli argomenti.

Quanto più noi saremo capaci di presentare al mondo profano la nostra realtà, la genuinità del nostro sforzo di miglioramento personale per il miglioramento sociale, tanto più saremo intimamente coerenti con i nostri fondamentali.  




Fonte: Gianfranco Murtas
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