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Gianfranco Murtas

Don Angelo Becciu, la sua persona e la sua vicenda nelle riflessioni di un irregolare sbagliato, fuori del recinto

di Gianfranco Murtas

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La faccio breve. Si è riparlato di recente della vicenda vaticana che ha al centro il cardinale sardo Giovanni Angelo Becciu. A quella vicenda, come ad infinite altre che hanno (o hanno avuto) risonanza larga anche per gli interessi che ne sono (o erano) coinvolti, si è fatto riferimento da varie parti (innocentiste o, al contrario, colpevoliste) senza averne, più spesso, effettiva cognizione di causa, conoscenza delle carte. Anche io sono stordito da quanto si legge per il vero e per il supposto, e dunque non possedendo elementi certi o convincenti di giudizio non posso prendere posizione nel merito. Lo faccio invece sul piano personale. 

Ho evidente simpatia per il cardinale, nostro prete sardo, amico stretto e da una vita di tanti amici miei stretti che me lo hanno sempre rappresentato come un credente, tale rimasto nonostante l’ufficio vaticano che comporta di per sé innumerevoli rischi di perdimento morale. Ma mettendomi al seguito dell’indimenticato padre Ernesto Balducci mi viene spontaneo separare l’ufficio dall’uomo: l’uomo può restare buono, tanto più se consacra l’ostia tutti i giorni, ed è costretto dalla coscienza alla onestà, nonostante che l’ufficio sia tentatore e rischioso di per sé. Dunque non ho perso la stima tante volte mostrata al cardinale, e propendo convintamente a riportare la vicenda dello “scandalo” londinese nelle logiche profane ed antievangeliche che hanno per lunghi decenni guidato lo IOR e le altre strutture amministrative della Santa Sede anche nelle loro evoluzioni moderniste o riforme sanificatrici. E il torto degli uomini ad esse preposte mi viene di riportarlo a un improprio senso istituzionale da loro avvertito, un senso istituzionale praticone, che tiene conto più dell’ambiente, cioè dei traffici possibili e convenzionali per un fine ultimo comunque buono, che non del vangelo che, a leggerlo bene, suggerisce come modello strumenti diversi, etici, per raggiungere lo stesso risultato: la distribuzione. La distribuzione per la giustizia materiale nella fraternità dell’umano.

Né la questione della identità e della presenza della Chiesa nella nostra società e nel nostro tempo può limitarsi alle questioni di finanza. Accanto ad esse si pongono infatti quelle del potere curialmente arrogante, indicate anche di recente dal pontefice come permanente lusinga seduttiva e cause di distanza dalla fonte legittimante, che resta il vangelo. Pare di ricordare la discussione del tribunale della “sacra” Consulta che comminò nel 1868 – come rimbalzatoci dal film “In nome del papa re” con Manfredi – la sentenza per decapitazione di Monti e Tognetti, ratificata dal futuro beato Pio IX. Quei giudici preti vestiti di porpora, dopo aver deciso per la ghigliottina e il boia all’azione, se ne sarebbero tornati in parrocchia a dire messa e consacrare l’ostia, senza patemi d’animo. (E fortunatamente un altro prete ma di diverso lignaggio – il nostro Giorgio Asproni mazziniano – pensò, con una colletta nazionale, di sovvenire le famiglie rimaste orfane).

Rovesciare le logiche. Si può, e se si può bisognerebbe concluderne che si deve.

Immaginai, cinque anni fa, e due prima che gli fosse conferita la porpora, di incontrare don Angelo Becciu là dove riportava il suo titolo episcopale conferitogli al tempo della nunziatura africana. E ne scrissi, associandolo implicitamente al range dei conciliari, avanzati e anche irregolari, che mi sono maestri. Fu nel blog di Enrico Lobina il 5 gennaio 2016. Ecco quel testo che vale qui come testimonianza e ancora conferma di stima per il cardinale, quali che possano essere le conclusioni giudiziarie.

A Roselle 181°

Ho scritto altre volte, in articoli o in qualche libro, della generosità educata della famiglia Melis, la famiglia sarda e sardista di Titino e Mario, di Pietro ed Elena, di Tonina (suor Michelina) e Pasquale, di Cicita ed Ottavia. Ho anche creduto giusto riferire, almeno una volta, dopo la dolorosa scomparsa del presidente, di un episodio personale che mi coinvolse con lui, per volontà esplicita di Ottavia, che ne richiamava, nello spirito, un’altra: quella di Elena – della professoressa Elena Melis, preside della scuola “Piero Borrotzu” martire della resistenza – che era stata amica e corrispondente mia per molti anni. Ottavia, che per tutta una vita era stata anche lei docente di lettere a Nuoro, e che della scuola aveva fatto la sua vocazione naturale, mi aveva dato parte nel suo testamento: perché comunicassi a Mario a chi destinare, nel nome della umana solidarietà, una certa somma in disponibilità che il presidente, con il quale ero pure in frequenti fraterni rapporti, avrebbe quantificato. E il presidente così operò, integrando quel tanto con una sua offerta personale. Mi chiamò, informandomi della circostanza, e gli suggerii quanto toccava a me di proporre. Pensai: qui si tratta di risparmi di una vita intera di due sorelle insegnanti, mi parrebbe giusto che potessero essere risorse adesso volte a sostenere agli studi qualche ragazzo in difficoltà. Pensai poi: si tratta di insegnanti barbaricine, mi parrebbe bello che da un territorio povero della Sardegna un soccorso raggiungesse adesso un altro territorio ancora più povero del mondo. Pensai di nuovo (e mi fu consigliere l’amico Paolo Matta che già nel 1984 mi aveva fatto conoscere la realtà delle trappiste di Valserena) che una suora proprio sarda e barbaricina, di Orgosolo e di radicato comunismo giusto a Valserena, suor Geltrude Filindeu, lavorava ormai da anni – dal 1980 per l’esattezza – in Angola, nazione dell’Africa equatoriale grande quattro volte l’Italia e cinquanta volte la Sardegna, cento e più e più volte la Barbagia, con una popolazione pari a dieci volte quella della nostra isola. Già colonia portoghese, l’Angola aveva conquistato l’indipendenza soltanto nel 1975 e per vent’anni, con diversi cambi di scena, fu attraversata dall’atroce micidia della guerra civile, e ancora per molti anni un numero impressionante di angolani – fra essi drammaticamente i bambini – erano rimasti vittime di gravi mutilazioni saltando in aria sui campi minati già teatro del conflitto. Le suore italiane affidate a suor Geltrude avevano creato una missione d’avanguardia, insieme accoglienza e scuola, ospedale e casa, per molti. Come non pensare a loro, o non riversare a pro della loro santa causa umanitaria le risorse affidatemi da Elena e Ottavia e Mario Melis?




Non fu allora necessario neppure procedere ad un bonifico bancario; operai attraverso la Caritas di Nuoro che inviò la somma, per canali diplomatici, al nunzio apostolico in Angola (e anche in Sao Tomè e Principe, isole repubblicane al largo di Guinea e Gabon): il giovane (allora 53enne) arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, sardo di Pattada. Il quale provvide sollecitamente a completare i passaggi.

Grande, grande suor Geltrude Filindeu, grandi le sue sorelle. Bravo l’arcivescovo, che ora da qualche anno lavora in Vaticano in ruoli apicali e merita, perché è rimasto (eroicamente) credente nonostante tutto, l’onore del cardinalato che volentieri, non essendone impedito da alcuna legge, gli ho da tempo rilasciato. Conosce infatti i cardini della fede e conosce i cardini della carne viva degli uomini.

In questi appena trascorsi giorni di inquietudine sovrana, fra gli attentati jaidisti e l’apertura della prima porta santa a Bangui, e alla vigilia di questo nuovo 2016 ho chiesto a don Angelo un incontro giusto in quel di Roselle, patria sua elettiva e anche mia, patria di altri irregolari – ché veniamo tutti da Partenia ed abbiamo per vescovo quel pezzo di vangelo che si chiama Jean Gaillot, inviso al sinedrio vaticano un tempo corte del papa Wojtyla. Luogo di conversazione il viale antico, etrusco addirittura, con le sue ombreggianti tettoie di pianta piana chiamate del 181° parallelo: un mondo surreale, conosciuto per la magia delle sue atmosfere capaci di suscitare, fra i dialoganti che lì s’avventurano, l’irrefrenabile gusto della parresia. Senza rispetto convenzionale e sempre ipocritamente clericale, con tutto rispetto invece per la verità che spesso è l’opposto di quel che sembra…

Ricostruisco, a memoria, la conversazione. Tutto abbiamo messo dentro allora, come il programma di scuola, ma in disordine, locale e universale, storia e religione, letteratura e geografia, arte e filosofia, ecclesiologia e diritto pubblico, perfino creatività musicale.

Ho detto Partenia. Gliene parlo subito, al cardinale che conosce tropici ed equatore, di monsignor Soave protagonista del primo capitolo del mio “Lo specchio del vescovo” che volevano ridurre a film, ormai quasi tre lustri fa. Un libro scritto per rilanciare nell’opinione pubblica dimentica lo scandalo soffocato dell’assassinio di don Tonio Pittau, il parroco della nostra cattedrale di Santa Maria tradito la sera del 22 dicembre 1988, colpito alla nuca per spappolargli il cervello seppellito a pezzi, poi, al margine della strada, all’arco dell’Angelo verso Campuomu. Giù del burrone, e ricollocato in macabra messa in scena, supino, sotto un telone verde, di lato alla sua macchina precipitata in un burrone, il suo corpo. Era venuto a Caregli, monsignore, nei giorni di quell’assassinio per ripetere anche qui, in tutta umiltà, come papa Bergoglio va sciorinando simile ad un mantra: che gli uomini di Chiesa e noi perbenisti (anche noi irregolari supponenti) dovevamo farci correggere dai poveri che, benché peccatori, ci erano e ci sono comunque maestri.


Ricordo al cardinale Becciu che quando don Dino Pittau presentò al nuovo arcivescovo di Cagliari succeduto ad Ottorino Alberti, un piccolo dossier riguardante la vicenda del fratello assassinato, n’ebbe come risposta che… bisognava guardare avanti, non indietro. Le aspirate toscane, normalmente gentili, non addolcirono la sentenza. D’altra parte il nuovo arcivescovo aveva già cancellato il Concilio Plenario Sardo, fatica passata anch’essa e non riconosciuta. Misconosciuta anche dagli altri della Conferenza episcopale, in primis da don Ignazio Sanna il censore dell’Arborense, subentrato paradossalmente proprio al segretario generale – don Tiddia – di un concilio che c’era stato davvero ed era durato un decennio addirittura, coinvolgendo qualche migliaio di persone… A me sarebbe piaciuto – confido a don Angelo – che l’arcivescovo Mani, ma adesso anche il suo successore Miglio, avessero detto: prendo in mano la questione Pittau, vado oggi stesso dai magistrati, chiederò conto di queste indagini girate attorno al nulla da quindici, o venti anni, mi sento il sindacalista di Abele fatto fuori da suo fratello, e invece…

Ritorno a don Gaillot. Giusto vent’anni dopo la punizione che fu però il suo orgoglio – la rimozione dalla diocesi di Evreux ed il suo confino in Mauritania quasi Algeria, in pieno Sahara, a Partenia diocesi virtuale appunto –, monsignor Soave è stato invitato dal papa in Vaticano, lo scorso 1° settembre, e lui ne ha parlato poi in una sobria eppur intensa intervista a “Temoignagechretien”. Ci vogliono vent’anni – dico al cardinale Becciu – per restituire gli onori ai profeti? Un tempo ci volevano secoli, risponde lui, pronto e spiritoso, ma con ragione. A monsignor Soave gli onori sono stati resi in vita, ad altri soltanto post mortem come a don Mazzolari, a don Milani, forse anche a padre Balducci teorico dell’uomo planetario e a padre Turoldo… L’istituzione funziona così, chissà che il giubileo non converta anche l’istituzione! Ed è una bella locuzione in bocca al numero tre delle gerarchie…




Anche Hans Kung, ora preso dal Parkinson come già il cardinale Martini, meriterebbe di ricevere qualche scusa, non pensi? Kung e la sua teologia ecumenica affascinano il papa, risponde don Angelo e fa capire che altre novità sono alle viste. D’altra parte è recente anche l’abbraccio vaticano con Gustavo Gutierrez, pure lui un anticipatore. E altri ancora, della teologia della liberazione che prima e dopo san Romero d’America hanno segnato la strada, come il vescovo Enrique Angel Angelelli (figlio anch’egli di emigranti italiani e martirizzato quattro anni prima del suo collega di San Salvador), sono stati onorati da don Bergoglio.

E a proposito di riabilitazioni, non necessariamente tutte clamorose… c’è anche la tua, don Angelo! Ricordi quando con gli altri colleghi del seminario regionale andasti anche tu in giro per le chiese di Cagliari a distribuire i volantini che sollecitavano un impegno diretto della diocesi al fianco del movimento che nei quartieri di Sant’Elia e del CEP, di San Michele e di Is Mirrionis o Sant’Avendrace invocavano l’applicazione delle leggi 167 e 865 o di quelle regionali per urbanizzare le aree e dare un’abitazione a chi viveva ancora nel cartone? Sì, ricordo perfettamente – risponde lui –, tempi d’impegno religioso-politico, come avevamo scritto nel volantino, ma non eravamo catto-comunisti, eravamo giovani, eravamo idealisti ma non illusi, credevamo, come crediamo oggi, che il vangelo non fosse soltanto un libro. Il nostro documento uscì dopo la pasqua 1972, era datato 23 aprile, lo titolammo “Per una Chiesa al centro dei conflitti del nostro tempo. Lettera aperta al Vescovo e a tutti i fratelli nella fede della Chiesa di Cagliari” ed era firmato da uomini come don Efisio Spettu e don Pasqualino Ricciu, don Follesa, don Atzei allora giovanissimo, professor Salvatore Loi il cristologo, giovanissimo anche lui e geniale, fra i miei compagni c’erano Tonino Cabizzosu e Franco Matta, Franco Crabu e Franco Loi, Pietro Borrotzu di Nuoro, c’erano altri preti alti come montagne spirituali come don Nino Onnis e don Giovanni Cara, che è ormai da una vita intera Piccolo Fratello in Brasile, firmò anche un padre gesuita, il professor Luigi Oitana, indimenticabile… Eravamo 47 studenti, con noi erano 8 preti, compreso il rettore del seminario… Ci fu una tempesta in diocesi, i monsignori nostri fecero scudo al cardinale Baggio, allora arcivescovo, intervenne anche l’ex sindaco Paolo De Magistris, ci bollò di brutto il giornale della diocesi appena passato alla direzione di don Piero Monni, fummo accusati di demagogia… Perché non ne scrivi tu, forse non c’è nessuno studio su quella esperienza?! Prometto, e se non riuscirò io, lo chiederò a Vito Biolchini.

Aggiungo: ti si riconosce di essere rimasto credente nonostante risieda in Vaticano. Ma conservi il gusto della verità come quando volantinavi a Cagliari? Se sì, perché non cerchi per noi le risposte cui abbiamo diritto e che ancora non ci sono arrivate? Ti chiedo: che senso ha il giubileo se chi passa la porta santa continua ad infischiarsi dei suoi doveri? Se vuoi ti mando un dossier a Roma…

 

 


Dimmi, dice soltanto. E attacco.

Il processo – chiamalo come vuoi – cui sono state sottoposte le carte inviate alle congregazioni vaticane da don Mario Cugusi, dopo il suo allontanamento dalla presidenza di Sant’Eulalia, a Cagliari, non è stato regolare. Gli stessi canonisti che si erano espressi in un certo modo, hanno rovesciato le loro posizioni, come per ordine superiore, all’improvviso. Sono uomini del sinedrio o della Chiesa cattolica? Avrei il diritto di saperlo, e anche don Cugusi.

Tu sai che riguardo a quella pratica che interessò il diacono Piras condannato per diffamazione in un processo presso il Vicariato, c’è stato, all’inizio del 2015, l’intervento d’autorità e inappellabile del papa, che ha sostenuto apertamente, sulla scorta dei risultati dell’inchiesta compiuta dai maggiori giuristi incaricati personalmente da Bergoglio, esser stato tutto una farsa. Nero su bianco. Quella dichiarazione è stata riportata anche nel “Notiziario diocesano” di Cagliari. E don Piras infatti è stato ordinato. Ma chi aveva mandato avanti le carte bugiarde, intendo il tuo collega cardinale Vallini, è ancora lì, vicario generale del papa nella diocesi di Roma. Ha senso questo?

Il nome di don Piras – con il quale mi sono schierato a suo tempo contro le prepotenze che lo danneggiavano – mi riporta però a un certo lefebvrismo strisciante, a questi pretini giovani che esistono un po’ in tutte le diocesi sarde, e che paiono sostenuti dalla maschera, non dalla fede: portano la sottana, il mantello e il saturno come il clero dell’Ottocento. E’ grave questo, è segno di una debolezza identitaria che nasconde talvolta problemi psicologici gravi. E stanno lì a confessare e a dirigere le anime, a farsi educatori di minori. I professori della facoltà di Teologia me ne hanno parlato spaventati – essi se li trovano lì alle lezioni bardati come nel risorgimento – , ma non individuano il modo di imporre un altro modello, quello della normalità contro l’alterità artificiosa. I vescovi? Non vedono, e ordinano giovani a rischio per sé e per le comunità in cui sono mandati. Pensiamo ai turbamenti ancora vivi in quei paesi della Trexenta per i guasti parrocchiali… E Miglio va lì e dice: se avete da denunciare ferite venite da me a Cagliari. Incredibile: uno che è arrivato da noi con il pastorale operaio! Invece di viverci lui, due o tre mesi, mattina e sera e notte a Villamar e Mandas e Gesico, ed entrare in confidenza di fraternità con quelle famiglie turbate, raccogliere lui le notizie, no, lui fa il burocrate d’ufficio… e neppure risponde a don Cannavera che da due anni gli ha chiesto, tramite don Puddu, perché non ha ammesso tutti i ragazzi del Minorile all’incontro con il papa in cattedrale, nel 2013, ed ha trovato il posto invece per Cellino in prima fila e per cento dipendenti e pensionati dell’amministrazione giudiziaria… Don Cannavera ancora aspetta una risposta. Che senso ha il giubileo di don Miglio se prima non risponde a don Cannavera?

Conosco diverse di queste situazioni, risponde il cardinale Becciu. Anch’io tremo davanti ai pretini con mantello indosso e saturno in testa, sono d’accordo con il professor Melloni che a proposito di queste fisse parla di anticaglie controriformistiche, non certo di recupero della tradizione, anche della tradizione liturgica, che ha fatto invece il Concilio tornando alle fonti di duemila anni fa e disincrostando un po’ l’ambiente e anche le preghiere… Sulla questione pedofilia, l’impegno è ormai massimo a livello centrale, le conferenze episcopali sono coinvolte e penso anche allineate nella difesa prioritaria dei minori, anche se mi pare giusto non abbandonare a se stessi i preti che mostrano tante difficoltà del loro profondo… Su Miglio lì a fare il parroco per tre mesi a Gesico o a Villamar e Mandas, sono d’accordo anche io. L’odore delle pecore gli farebbe bene, lo dice anche il papa. Come si fa a capire se non si conosce, soprattutto se non si conosce la vita intima, personale, dei fratelli che ci sono affidati? Un vescovo non può essere mai un impiegato d’ufficio, neppure un nunzio apostolico lo può essere. Per me – dico della mia esperienza africana, ma anche dopo a Cuba, e prima invece qua e là, immaginati, sballottato dalla Repubblica centroafricana a Londra o Washington o Parigi… quella di nunzio o di addetto a una nunziatura è stata una missione religiosa anch’essa, la nostra diplomazia è atipica, il nostro resta un apostolato vero…

Ma come può capitare che da noi cinquecento fedeli convenuti da dieci paesi – Siurgus Donigala, Monserrato, Guasila, Sant’Eulalia, Quartu… – , come è capitato a Serdiana all’insediamento di don Cugusi, siano salutati in fretta da don Miglio, che poi se ne è corso a vedere la partita in uno stadio peraltro interdetto da magistratura e prefettura? Un vescovo può essere un Vip?

Se mi poni così la domanda ovviamente rispondo di no. Ma glielo hai chiesto tu perché si è comportato in questo modo?

Certo, nessuna risposta. E quando ne ho scritto al giornale della diocesi, due anni fa, hanno censurato. Ho riscritto al vescovo per dirgli della censura, e naturalmente lui ha continuato a infischiarsene. Non ha battuto ciglio neppure quando il giornale della diocesi ha scambiato una pratica scaramantica per una devozione, mi riferisco all’Ave Maria che Cellino voleva far cantare a Is Arenas. Hai visto google?

Aggiungo. Tu sai che in diocesi, a Cagliari, c’è un prete pistolero che raccoglie per culto miracolistico migliaia e migliaia di persone come in uno stadio, e compare in televisione coperto di rosari? E’ mai spiritualità questa? è pedagogia cristiana? il vescovo non batte ciglio, e non dice nulla neppure riguardo a quell’altro parroco che, presenti i bambini, ha invitato i genitori a mettersi la corda al collo e buttarsi via per la colpa grave di aver preferito, d’estate, il Poetto alla messa…

Mi fa strano quello che dici. Monsignor Bettazzi so che ha cresciuto fior di preti competenti e con cuore di carne…

Parliamo d’altro. Sei stato interessato dal papa a prendere contatto personale con Walter Piludu che dalla sua condizione estrema di malattia gli ha posto il problema drammatico del fine vita. Non pensi che in tempo di giubileo da parte della diocesi del papa debba venire una richiesta di perdono alla vedova e alla madre di Piergiorgio Welby per quel funerale religioso scandalosamente negato da Ruini, che non chiamo cardinale perché credo che in lui i fondamentali della fede siano confusi, se ha osato mettersi al posto di Dio giudice.

Questa materia del fine vita la sento dentro di me come una pressione morale e spirituale che cerca uno sfogo ed io ancora non so come poter indirizzare questo sfogo… Un tempo, ti ricordi?, negavamo, noi uomini di Chiesa, i funerali religiosi ai suicidi e addirittura li seppellivamo fuori dalla terra consacrata.

Si, avveniva anche a Cagliari, ne ho scritto molte volte citando i casi della nostra storia.

Ecco, anche quella era una bestemmia. Ma voi in Sardegna avreste dovuto avere un don Cannavera o un padre Morittu, o un don Angelo Pittau a fare il contrario di quel che ha fatto il collega Ruini: celebrare cioè una grande grandissima messa per Welby. E invece, perché anche voi non avete testimoniato la libertà del vangelo pietoso?

Bravo don Becciu: hai colto nel segno. Ma io so che anche noi che ci lamentiamo, anche noi capiamo in ritardo….

 




Zitto! mi dice, ascolta: … Lascia che sia fiorito / Signore, il suo sentiero / quando a te la sua anima / e al mondo la sua pelle / dovrà riconsegnare / quando verrà al tuo cielo / là dove in pieno giorno / risplendono le stelle.

Quando attraverserà / l’ultimo vecchio ponte / ai suicidi dirà / baciandoli alla fronte / venite in Paradiso / là dove vado anch’io / perché non c’è l’inferno / nel mondo del buon Dio.

Fate che giunga a voi / con le sue ossa stanche / seguito da migliaia / di quelle facce bianche / fate che a voi ritorni / fra i morti per oltraggio / che al cielo ed alla terra / mostrarono il coraggio.

Signori benpensanti / spero non vi dispiaccia / se in cielo, in mezzo ai Santi / Dio, fra le sue braccia / soffocherà il singhiozzo / di quelle labbra smorte / che all’odio e all’ignoranza / preferirono la morte.

Sento il cardinale Becciu pregare cantando, pregare ad occhi chiusi. Ma le parole non sono di Sant’Alfonso e neppure di San Francesco…

Dio di misericordia / il tuo bel Paradiso / lo hai fatto soprattutto / per chi non ha sorriso /
per quelli che han vissuto / con la coscienza pura / l’inferno esiste solo / per chi ne ha paura.

Meglio di lui nessuno / mai ti potrà indicare / gli errori di noi tutti / che puoi e vuoi salvare.

Ascolta la sua voce / che ormai canta nel vento / Dio di misericordia / vedrai, sarai contento. / Dio di misericordia / vedrai, sarai contento…

Bravo don Angelo! indovinata mossa d’apostolo. Non ti facevo così libero dentro. Mi rincuori. Credo che se avrai presto la responsabilità delle cause dei santi, potrai far bene. Però volevo dirti di più su questa materia… Credo, in verità, si tratti di un problema non solo nostro: i preti di nessuna sensibilità pedagogica che si lanciano in dissertazioni teologiche (in verità per il più banali) invece di sostare sui dati di umanità degli scomparsi quando si celebrano i funerali… Sai che al trigesimo della morte di Franco Oliverio, quando erano presenti eccezionalmente trecento persone, il parroco dell’Annunziata si è riferito, all’omelia, soltanto al fatto che un suo confratello festeggiava i cinquant’anni di messa? Ma ti pare una cosa che possa stare in piedi? Chiaramente questi fedeli “occasionali” scappano. Idem ai matrimoni, alta – si fa per dire – teologia dell’indissolubilità, invece di mostrare il modello cristiano, non il dogma…

Conosco anche questa questione, fra l’altro ne ha detto anche il papa una volta, è questione di formazione, ma dubito che con i preti della nuova leva le cose miglioreranno… Questi sono libreschi. C’è molto da fare, ma la Chiesa è fatta da uomini, è in riforma continua, fra avanzamenti e contraddizioni, e retrocessioni, e ripartenze.

Certamente sono materie complesse, ma si deve intervenire anche con urgenza e intanto bisogna sostituire, nel clero alto e basso, l’onestà del relativo all’assoluto autoreferenziale. Sai che a Cagliari va a messa il dieci per cento dei cosiddetti credenti? Conosci i dati dei matrimoni civili? E’ possibile che per tanti decenni e secoli non abbiate capito che la gran parte dei matrimoni andati in crisi erano inconsistenti fin dall’inizio, dico sotto il profilo strettamente religioso o sacramentale? E per risolvere questi casi imponevate procedure complicate e costose, fra diocesi e Sacra Rota?

… stanotte Michè / s’è impiccato a un chiodo perché / non voleva restare vent’anni in prigione / lontano da te / nel buio Michè se n’è andato sapendo che a te / non poteva mai dire che aveva ammazzato / soltanto per te…

Scusa, ho seguito quel che dicevi, ma la suggestione è rimasta ancora a Fabrizio De Andrè, io l’ho sempre amato, fin dai tempi de “La buona novella”…

Sorprendente. Il mio cardinale riprende così, mi fa capire che forse lui è più avanti di me, che ha chiarissimo il quadro… E dunque? A quando i funerali solenni per Welby, nella chiesa romana di San Giovanni Bosco? Celebrerai tu con porpora allora ben giustificata?

Credo che senza questo passaggio liturgico il nostro giubileo – dico di noi preti che viviamo a Roma – sarebbe parziale, quasi ipocrita. Questo tema del fine vita è materia cui noi dobbiamo accostarci con l’umiltà di Marta e Maria di Betania, di tutt’e due loro, il giorno il cui Lazzaro recuperò la luce del giorno, il suono della voce degli amici.

Questo è tempo in cui usciamo tutti dalle nostre ingessature, io per primo lo debbo fare. Confido a don Angelo che la sorte mi ha dato, nei lunghi anni intermedi fra i miei grandi lutti, il modo di accompagnare a morte ben quattrocento ragazzi falcidiati dall’aids. Quattrocento sui millecinquecento quanti sono stati, in Sardegna, le vittime del fiore nero. So cosa vuol dire morire disperati a vent’anni, a trenta, senza più identità, sopraffatti dalla malattia.

So bene che quelle figure erano persone, tutte tutte, anche quelle in sospensione da Buoncammino, che mi dettavano il testamento perché il figlietto fosse affidato a una famiglia piuttosto che a un’altra, o chiedevano di premere la mano sul loro stomaco in cui un chiodo arrugginito espandeva come onde il suo danno.

Per questo, ripensando ai tanti Francolino il cui affetto condividevo con don Efisio e don Marco, guardo al volontariato ed alla Caritas come a un polmone di salvezza per una Chiesa – anche quella locale cagliaritana – senza guida autorevole da molti molti anni ormai.

Oso suggerire una nomina vescovile che possa dare il segno di una nuova sensibilità, in questa direzione. Ad Ales, dove si è avviato adesso un bel progetto di compartecipazione fra laici e religiosi e preti dentro le cosiddette “unità pastorali”, è atteso il nuovo vescovo. E se venisse dritto dritto dalla Caritas?

Non è competenza mia, risponde il cardinale. Ma certo la diocesi che è stata di monsignor Tedde, e più di recente di don Antonino Orrù e don Giovanni Dettori, merita una guida all’altezza. Chiederò…

Basta. Riprenderemo la conversazione. Accenno infine, ma poi decidiamo di trattarne prossimamente, in quanto a parresia, la questione della stampa e della circolarità del dibattito libero interno alla Chiesa cattolica anche in Sardegna, dove il clericalismo censore è ancora pervasivo in coppia con tanto paralizzante conformismo. Le lettere di don Efisio Spettu del 2005 e del 2010 sul dissanguamento del seminario regionale e le deportazioni a Roma sono rimaste senza risposta dal Vaticano e date come non ricevute dai vescovi sardi. E io stesso, quando ho dovuto o voluto pubblicarle in ossequio alla missione ricevuta dal mio caro don Efisio, ho dovuto fare lo slalom. Mi pare triste.

Coraggio, coraggio… Così ti avremmo detto qualche tempo fa, noi chierici ancora un po’ clericali e odiosamente paternalisti. Oggi io, don Angelo, che non mi dimentico di aver volantinato in quella primavera 1972 alle porte delle chiese per sensibilizzare tutti alla socialità, ti dico invece: combatti, fai tutto quello che puoi. Male non ne verrà certamente. E cercati alleati.




Fonte: Gianfranco Murtas
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