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Gianfranco Murtas

Fabio Maria Crivelli e quegli articoli dagli States. Anno 1958

di Gianfranco Murtas

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Come ogni anno dacché l’abbiamo perso, e sono ormai tredici anni, mi appresto anche in questo 2022 a ricordare la personalità cara di Fabio Maria Crivelli, storico direttore de L’Unione Sarda (1954-1976, 1986-1988) e per me amico prezioso e gratificante compagno d’avventure intellettuali ed associative. E’ proprio l’anniversario della morte – di quella sopraffattrice che egli aveva sempre giudicato con disincanto e per natura e per mestiere – a darmene l’occasione inducendomi, ogni volta, ad offrire alla condivisione di chi gradisse partecipare, per affezione o per positivo interesse, un episodio della sua lunga esperienza professionale e, insieme, della vita civile cagliaritana e sarda che lo ebbe fra i maggiori, e pur sempre riservati, protagonisti.

Fu due anni fa che rammentai il viaggio negli USA che, insieme con un’altra ventina di giornalisti europei, egli compì nella primavera 1958 su invito delle autorità americane interessate a mostrare loro, e attraverso loro all’opinione pubblica raggiunta dai giornali continentali, la complessa ed avanzata realtà del “nuovo mondo”, a partire dagli apparati della difesa militare volti a un teatro (chissà se per grazia o per disgrazia) autenticamente planetario. Ci penso: sono trascorsi, da quella missione informativa e dai reportage che l’hanno documentata, 63 anni e quell’armamentario rivelatore di genialità tecnologica e, ad un tempo, di follia assoluta è ancora al centro di tante convenienze (e altrettanti timori) mondiali, volto esso in primo luogo, oggi, a sostenere la sacrosanta causa degli ucraini aggrediti barbaramente dai russi di Vladimir Putin (e ciò sia detto al netto anche degli errori o delle eventuali colpe trascorse del governo di Kiev).

Rientrato in Italia ed a Cagliari – mi si consenta questo rapido accenno al privato –, Fabio ebbe la gioia di conoscere finalmente la sua Ornellina, la sua quintogenita, nata proprio (nel policlinico Lay) tre giorni prima. Quella famiglia Crivelli che ormai da un lustro aveva passato il Tirreno e preso casa in Sardegna per farne qui la residenza degli affetti oltreché del lavoro, radicava proprio con Ornellina e Massimo, di appena due anni più grandetto, e gli altri della nidiata, la sua conquistata cagliaritanità, sempre rispettata e anche ammirata nelle relazioni sorte, nell’ambiente cittadino, in logica sempre spontaneamente inclusiva. (Negli anni della quiescenza e più ancora in quelli del tramonto, ai piedi della pineta di Sinnai, Ornellina fu sempre e ancora, pur con tutte le delicate complessità della sua umanità, della partita familiare arricchita dalle sue espansioni artistiche e professionali sviluppate nel Dancestudio).

Fu un anno importante, invero come tutti, il 1958. Per Crivelli direttore de L’Unione Sarda e naturalmente per Cagliari. Fu, quello, l’anno delle celebrazioni del 70° di fondazione del giornale, l’anno delle visite “importanti” nella redazione, ancora umile e dimessa, accosta alla tipografia, nello stabilimento di Terrapieno – iniziava allora l’“era Efisio Corrias” (a conclusione di quella detta di “Giuseppe Brotzu” e delle sue giunte “sdraiate a destra” avversate da L’Unione) –; l’anno della scomparsa di Vitale Cao – don Vitale Cao di San Marco –, il corrispondente politico dalla capitale il quale, per larga parte degli anni ’30 del giornale era stato il condirettore – e l’anno della assemblea (dapprima a Terrapieno, poi nella sede degli Amici del libro) di circa duecento corrispondenti dai comuni isolani, evento di marcato rilievo nel momento nel quale la foliazione, grazie anche alla nuova rotativa arrivata pochi anni prima, si accresceva meglio articolando anche e soprattutto il notiziario delle province e dello sport; l’anno di diversi “speciali” tematici (meraviglioso, per la permanente pietas dei testimoni chiamati a riferirne, quello sui bombardamenti del 1943: “Cagliari morte e resurrezione”, 1° febbraio 1958; ottimo anche quello su Carbonia “la città dei minatori” nel suo ventennale). Lui, il direttore aveva rinunciato a stendere gli editoriali, che erano stati, e lo sarebbero stati ancora in futuro, una sua perfetta abitudine, lasciando l’incombenza – tanto più sulle questioni di politica estera – a Zingarelli, Sangiorgi, Forte, Trudu e altri, compresi alcuni collaboratori delle agenzie straniere, e da alcuni mesi s’era dato a corrispondere direttamente con i lettori in una rubrica (che avrebbe avuto un seguito verso la metà degli anni ’60) di “colloqui domenicali”.

Ad ottobre non avrebbe mancato di aprire, Crivelli, direi in singolare tandem con il suo amico (ma democristiano e dunque da lui politicamente piuttosto lontano) Antonio Maxia, illustre presidente e patron dell’Ente Flumendosa nonché iperattivo uomo di governo, lo speciale fascicolo de Il Convegno, mensile dell’associazione Amici del libro, dedicato appunto al Settantennio de L’Unione Sarda 1889-1958 (così il titolo della monografia curata da Nicola Valle). Intanto però aveva dovuto affrontare un altro processo per diffamazione, uscendone vincitore alla grande, un’altra volta alla grande, nello scontro con il commendator Usai, patron della subconcessione del Lido… un processone degno anch’esso (come gli altri che l’avevano visto imputato) d’una pagina di storia, non soltanto di cronaca.




E la città? Ancora sotto la sindacatura di Mario Palomba, Cagliari proseguiva la sua ricostruzione postbellica illuminando finalmente cento e più strade e piazze lasciate perennemente al buio e vedeva approvato il piano regolatore del suo porto. A Castello godeva della liberazione della scalinata del Bastione, dopo tre lustri di palizzate e sovrastrutture che l’avevano quasi totalmente foderata e godeva della sua torretta finalmente – l’avverbio è quello giusto – ripristinata dal maciullo bellico con nuovi conci calcarei…

Ai piedi di Monte Urpinu monsignor Botto benediceva la prima pietra della nuova chiesa di Santa Caterina dei genovesi, sostitutiva di quella demolita dai bombardamenti nella via Manno ed in municipio il Consiglio iniziava a dibattere della nuova Area industriale di Macchiareddu, mentre il CONI premiava il progetto del nuovo stadio… Novità e retrocessioni: nonostante la protesta di Francesco Alziator, nella via Sonnino veniva abbattuto il “grazioso palazzo” dove la Deledda chiamata Cosima aveva vissuto negli ultimi mesi del 1899, alla vigilia delle sue nozze e del definitivo trasferimento in continente.

Al Centro Tumori diretto dal professor Ottavio Businco entrava in funzione l’avanzatissimo “betatrone”, nel largo Carlo Felice – ai cantieri delle nuove banche d’Italia e del Lavoro, là dove s’ergeva il vecchio Partenone – si rinvenivano emergenze archeologiche di incredibile importanza, mentre l’arena dell’Anfiteatro romano prendeva le forme d’un enorme palcoscenico per gli spettacoli lirici organizzati dalla cooperativa De Candia ed applauditi da diecimila appassionati (e intenditori) assiepati nella bimillenaria cavea: esordiva trionfale la “Carmen”… Salvatore Cambosu, lo scrittore di Miele amaro, si candidava alle elezioni politiche con i radicali-e-repubblicani, mentre Mike Bongiorno, al Poetto, presentava la selezione delle nostre miss e Piero Rollo vinceva, all’Amsicora, il titolo europeo dei gallo. I fanti (reduci) d’Italia tenevano festosi e pensosi il loro raduno annuale proprio a Cagliari, nel 1958, onorati da un bozzetto di Filippo Figari… mentre al Gabinetto delle stampe, di fronte all’ex seminario tridentino di recente venduto dalla diocesi al governo, una mostra di rarità bibliografiche offriva in visione, fra il molto altro, un ritratto di Dante miniato coi suoi versi…

Centomila cagliaritani piangevano fra Nicola da Gesturi involatosi santo come santo era vissuto…

Il panorama giornalistico regionale s’era semplificato o ristrutturato in quel 1958, tanto più per la cessazione delle pubblicazioni – come già nel ’57 era stato per il democristianissimo sassarese Il Corriere dell’Isola – de Il Quotidiano Sardo, che monsignor Giuseppe Lepori aveva diretto con prua polemica avversa a L’Unione, fin dal 1950. Così per personalissima fiducia vescovile (in primis dell’arcivescovo Paolo Botto), mentre il professor Brotzu era stato, della società editrice, il presidente del Consiglio d’Amministrazione. Passato formalmente alla DC e alla direzione di Italo Montini, il giornale che aveva esordito con la guida di Mariano Pintus (passato poi al parlamento) e fatto fare esperienza di praticantato a uomini come (per citarne due soltanto dei dieci o quindici possibili) Lorenzo Del Piano a Lucio Artizzu aveva definitivamente abbassato le serrande semmai trovando un successore nel nuovo settimanale Orientamenti affidato alla direzione di don Tarcisio Pillolla. Giusto nei giorni della elezione di Angelo Giuseppe Roncalli al pontificato.

Era stato a febbraio, Crivelli, a salutare il presidente Gronchi, in visita in Sardegna – Cagliari, Sassari e Nuoro – ed a… gestire le proteste di Emilio Lussu circa una precedenza non protocollare riconosciuta all’arcivescovo Paolo Botto, e ad aprile, giusto alla vigilia dei comizi elettorali convocati per il rinnovo parlamentare, non s’era ritratto dal testimoniare la sua simpatia politica, invero notoria, per il liberalismo di Cocco Ortu e il sardismo repubblicano dei Melis e dei Mastino… Eccolo poi partire per gli Stati Uniti (e Francia e Azzorre portoghesi, sempre in zone altamente militarizzate), e riferirne ai suoi lettori quindi, nel durante e nel dopo, appunto con una serie di interessantissimi articoli.



Su Giornalia ho dato conto di quell’esperienza di viaggio in un articolo postato il 9 novembre 2020 (“Giro volante degli Stati Uniti”, maggio-giugno 1958. Firmato Fabio Maria Crivelli per L’Informatore del lunedì e L’Unione Sarda) comprensivo anche del testo integrale della sua relazione al Rotary club di Cagliari, successivamente pubblicato – il 9 luglio – da L’Informatore del lunedì (“Il giro dell’America in ottanta ore di volo”). Ci ritorno oggi, secondo promessa, per dettagliare anche la tempistica di quell’avventura professionale oltreché umana e civile che tanto significativamente rimase nella sua memoria se, ancora a distanza di decenni, ne raccontava, certamente sempre sollecitato dagli eventi della cronaca politica internazionale che era chiamato a registrare e commentare quotidianamente sul suo giornale.

Perché va detto questo, ed è cosa che entra nel profondo della personalità di Crivelli: il suo appassionato interesse per la politica estera fu cosa permanente. Sarà stato per il suo vissuto: nato a Capodistria che era Italia nel suo natale 1921 e non lo sarebbe più stata, divenuta Kopar, dal 1954; portatore di ascendenze paterne che rimandavano, per generazioni, all’Ungheria addirittura e alla Croazia, e materne che si fissavano in quella Trieste – la Trieste dell’irredentista mazziniano Guglielmo Oberdan – che era stata terra italiana prigioniera dell’impero asburgico fino al 1918. Di più: sarà stato che, ancora bambino di otto anni, s’era trasferito con papà Joseph Crivicich, mamma Maria Plascan e Maria la piccola ultima nata, a Roma dove, nonostante le pesantezze scioviniste del regime di dittatura (che avrebbe addirittura imposto la “italianizzazione” del cognome!), non poteva non sentirsi – foss’anche soltanto (e che soltanto!) per l’incombenza delle istituzioni e delle relazioni ecclesiastiche e vaticane – il respiro del mondo… Sarà stato per il richiamo che sullo studente liceale e matricola di giurisprudenza esercitava la letteratura americana, la falange di autori come John Steinbeck, Thorton Wilder, Erskine Caldwell, perfino Edgar Lee Masters di quell’Antologia di Spoon River che, forse ancora in lingua inglese, aveva anticipato lo sbarco nell’Italia del duumvirato monarchico-fascista… Gusti esterofili, si sarebbe detto e s’era detto, e lo stesso Crivelli, quasi cinquant’anni dopo, l’avrebbe ammesso nel suo magnifico anni rubati… Perché alla letteratura straniera d’oltre oceano, dovevi aggiungere anche altro, data l’età: il gusto per i balli in voga in America, quelli ritmati da un grammofono quasi clandestino…



«… semplicemente vivevo una mia vita nella quale non entravano particolari entusiasmi per il regime che era al potere e mi sentivo piuttosto freddo davanti alla dilagante retorica con la quale ogni giorno esaltavano Mussolini e il fascismo. Seguivo invece con attenzione le notizie della guerra che stava incendiando l'Europa, e in cuor mio provavo assai più ammirazione per quei folli polacchi che andavano alla carica a cavallo piuttosto che per quelle soverchianti corazzate naziste che in quindici giorni schiacciarono un popolo eroico ma inerme…». Così in anni rubati, pp. 12/13. Il che, va soggiunto con doveroso ed abbondante spirito di obiettività, e direi anche con la… rassicurante leggerezza della prova provata circa la matura e piena scelta democratica che fu conquista di quegli anni e che tanto rischio personale comportò nella prolungata prigionia dei campi nazisti cui egli s’era liberamente consegnato dopo l’8 settembre 1943, non toglie che nella mente e nella centrale delle emozioni di un ragazzo di 18-19 anni entrassero anche pulsioni e giudizi di segno opposto, condizionamenti di varia natura e provenienza, suggestioni di matrice ora familiare ora propagandista, pressanti riversamenti dallo spirito pubblico coltivato dal regime ormai anch’esso sceso in guerra a fianco dell’alleato hitleriano…

Ne fa fede un articolo, uno dei tanti predisposti per La Tribuna e altre testate provinciali, che nel 1940 fulminava la perfida Albione e sorprendentemente inaugurava il rapporto con L’Unione Sarda… Mi riprometto di trattarne presto, naturalmente con adeguata presentazione del contesto.

Sarebbero forse bastati quei dodici campi di prigionia tedeschi, fra Polonia e Germania, a capriccioso rischio di morte ed a quotidiana consuetudine con la fame, il freddo ed ogni umiliazione, ad inoltrare o meglio ad irrobustire ogni riflessione circa la dimensione continentale, e direi mondiale, delle peggiori relazioni umane, fra governi e popoli, fra eserciti in armi e civili allo sbaraglio…

Ma poi la fine della guerra, la libertà riconquistata, l’avvio professionale e, dopo il praticantato a L’Epoca di Leonida Repaci, l’esperienza, di lui 26-27enne, alla redazione de Il Momento, incaricato proprio di seguire, come già a L’Epoca, la pagina degli esteri: gli esteri del dopoguerra! gli esteri dei trattati internazionali, gli esteri dei nuovi equilibri fra l’occidente a dominio anglo-americano – la questione degli armamenti tedeschi, quella della Francia alla quarta repubblica, quell’altra degli aggiustamenti provvisori del nord-est italiano in faccia al titismo… , e l’oriente comunista a minaccia stalinista anche a Praga… ed, oltre, ancora la rivoluzione in lenta marcia in Cina, le decisioni dell’ONU circa Israele e la sorte dei palestinesi, l’indipendenza etiopica dall’Italia già imperiale, l’esordio del Fondo Monetario Internazionale… e davvero altre cento, mille vicende segnate dalla croce della storia.

Quasi un lustro, poi, dal 1951, a Il Giornale d’Italia con le funzioni di capo-redattore (le stesse acquisite, e dunque in una sorta di personalissimo passaggio di staffetta, a Il Momento). Qui perciò ancora con le vesti del “sarto” combinatore dei vari settori, dalla cronaca romana e nazionale allo sport, dalla cultura consegnata alla “terza” fino alla politica interna e, appunto, estera…

Arrivato a Cagliari e nell’ufficio direttoriale dal 1° gennaio 1954, lo sguardo particolare fisso alla realtà sarda, che diventava per lui una scoperta in progress ma su cui molto bene lo assistevano i cronisti che si chiamavano Antonio Cardia e Peppino e Vittorino Fiori, Franco Porru suo vice, e pochi altri – in posizione d’eccellenza naturalmente Antonio Ballero Pes il decano – egli doveva di necessità non smettere il maggior inquadramento. E mischiando così politica interna e politica estera, e mischiando ad esse un patrimonio morale e sentimentale non misurabile che era suo proprio, eccolo chiamato a cogliere e giudicare le deliberazioni di autorità internazionali circa la questione triestina ed istriana. Proprio nel 1954, nel suo primo anno di vita sarda, mente e cuore tornavano alla sua Capodistria e non potevano non confliggere con l’autorità anglo-americana (quella del memorandum di Londra) amata e odiata…



Da buon liberale, o chiamalo liberaldemocratico, allora e sempre, Fabio Maria Crivelli sentiva il valore della civiltà occidentale, la virtù dell’alleanza atlantica in esordio nel 1949, la non meno virtuosa prospettiva dell’unione, e allora comunità economica, europea i cui primi atti, dopo i patti della CeCa del 1951, erano stati firmati, unitamente a quelli dell’Euratom, a Roma nel 1957… ancora politica estera. Era stato Ugo La Malfa, repubblicano, a liberalizzare gli scambi con l’estero, nel 1951, era stato Gaetano Martino, liberale, a concludere per i trattati di Roma. I partiti di democrazia liberale figli del risorgimento patrio – quelli stessi che ebbero, per lunghi anni, la fiducia del direttore de L’Unione Sarda –, rivelavano, con i migliori democristiani, la vista lunga, quella della storia. 

C’era stato, prima, il tentativo di metter su un’istituzione di difesa continentale – la famosa CED –, disegno infine frustrato dalla Francia gollista. Anche quelle vicende Crivelli, da direttore de L’Unione Sarda, aveva seguito attentamente e commentato con spirito da vero europeista liberale. 

Missione USA

Non conosco il “dietro le quinte” di quell’invito del governo americano ai giornalisti europei e perché, fra gli italiani, la scelta ricadde proprio su Crivelli (ed un altro solo connazionale). Posso ben immaginare che le esperienze e competenze di analista maturate tanto più negli anni passati a Il Giornale d’Italia, nella capitale dunque, e i contatti inevitabilmente avuti con l’ambasciata USA possano aver avuto un ruolo non da poco. Ed ecco perciò Crivelli, uomo caratterialmente pacifico e propenso più alle buone letture dei classici e dei moderni che non agli aggiornamenti circa gli sviluppi tecnologici, tanto più di quelli a finalità bellica, andare in missione professionale e trattenersi per un mese fra missili e apparati di attacco e di difesa i più sofisticati e costosi.

Avrebbe mandato dagli USA (da Washington e da Eglin in Florida) due servizi speciali pubblicati in prima pagina da L’Unione il 29 aprile ed il 13 maggio. Avrebbe infine, come detto, riesposto la cronaca del suo viaggio, ma volgendola piuttosto al costume sociale che non a quello militare (“A Washington si respira aria di provincia – Ventimila case nuove per i poveri di Filadelfia – Fiori senza profumo nell’impero del Du Pont – «In questo paese potete comprare una bomba atomica, se avete denaro, ma se perdete un bottone siete un uomo fallito» – All’avanguardia del progresso tecnico, l’America riceve dall’Europa ogni soffio di vita spirituale”), in una conversazione tenuta al Rotary club di Cagliari e il cui testo fu pubblicato, come detto, a tutta pagina da L’Informatore del lunedì.

Va precisato (l’ho già accennato) che per domenica 25 maggio era stato fissato il turno elettorale per il rinnovo delle Camere. Cessata con il 1953 la lunga e proficua stagione degasperiana con la salda base quadripartita DC-PLI-PSDI-PRI e fallita l’operazione del maggioritario (la famosa legge “truffa”, che truffa non era per nulla ma proposta intempestiva sì!) alle elezioni di quel 1953, l’intera seconda legislatura repubblicana s’era consumata nella più assoluta precarietà, pur se l’autonomismo nenniano – il distacco del PSI dal PCI cioè – sembrava aver creato le premesse per l’unificazione con il PSDI di Saragat (realizzatasi poi nel 1965) e la partecipazione del Partito Socialista Italiano al governo del paese.

Questo processo appena avviato negli anni fra il 1953 ed il 1958 sarebbe effettivamente andato a compimento, pur in un infinito stop-and-go, nella terza legislatura (1958-1963) particolarmente segnata dalle leadership democristiane di uomini come Fanfani e Moro fautori, con gli alleati laici riformatori, della svolta di centro-sinistra.

Partendo per l’America, Crivelli non poteva non considerare quel quadro in movimento, certamente contraddittorio ma comunque orientato, e forse dando per scontato che poco si sarebbe registrato nei progressi o nei regressi dei numeri, puntò su una riflessione soltanto all’apparenza minimalista: invitando i lettori-elettori a non rinunciare alle preferenze da segnare sulla scheda, alle preferenze nominative che avrebbero potuto e dovuto portare o riportare a ruoli importanti, sulla scena nazionale, esponenti della politica regionale di altissimo spessore: e citò precisamente, con franchezza, Raffaele Sanna Randaccio e Pietro Mastino, che erano stati membri di Palazzo Madama nella prima legislatura. Lamentò quindi che le forze di democrazia laica non avessero saputo coalizzarsi superando così gli sbarramenti di quorum per il Senato della Repubblica, negando ai migliori un meritato successo.

La cosa – riferendola alla biografia del direttore de L’Unione Sarda – è importante perché, confermando la sua simpatia per le forze di minoranza di tanta nobile storia (quella liberale e quella repubblicano-sardista), confermava la linea del giornale ancora in quella fase storica che nell’Isola coincideva con le fasi preparatorie della legge di Rinascita e in Italia con un nuovo protagonismo di spessore continentale, s’intende europeo. E chi poteva essere più federalista del liberalismo e del sardismo repubblicano? (Peraltro bastava scorrere gli elenchi degli aderenti sardi al Movimento Federalista Europeo di Cagliari e Sassari per trovare, in quella fine degli anni ’50, quasi soltanto liberali, radicali e sardisti repubblicani!).

Dunque un box di prima pagina, domenica 13 aprile 1958, presentò queste riflessioni del direttore Crivelli associandole alla nota informativa circa il viaggio americano:

«Invitato dal Governo degli Stati Uniti, il nostro Direttore è partito ieri per Washington, da dove fra qualche giorno inizierà una serie di visite alle più importanti città americane e a numerose basi aeree ed installazioni missilistiche in Florida e in Virginia.

«Il viaggio – al quale prende parte un ristretto gruppo di giornalisti europei, fra i quali, in rappresentanza della stampa italiana, un collega di Roma e il dottor Crivelli – si protrarrà fino al 12 maggio.

«Prima di partire il nostro Direttore ha dettato il seguente articolo nel quale puntualizza il pensiero del Giornale sull’argomento che assumerà carattere di prevalente interesse nel prossimo periodo e che già da oggi costituisce il tema fondamentale dei commenti e delle polemiche politiche».

Titolo dell’editoriale: “Uomini e simboli”. Pare utile riproporne il testo e ad esso far seguire i due reportage dagli USA. In un mondo sempre più segnato dagli intrecci fra le nazioni, la politica interna e quella estera non potevano restare campi artificiosamente separati. Ma a metterli in sana relazione poteva e doveva essere la qualità della classe dirigente. Ecco l’assillo del direttore de L’Unione Sarda

“Uomini e simboli” (13 aprile 1958)

Conclusa tre giorni fa, con la presentazione delle ultime liste, la prima fase della lunga vicenda elettorale, i partiti si preparano ora alla fase più impegnativa e faticosa: da oggi comincia sulle piazze di tutta Italia l’assalto agli elettori, il bombardamento dei manifesti e dei comizi, la caccia frenetica al voto. E’ una battaglia ardua, oggi, forse, più ardua che mai, perché è indubbio che nel paese esiste un diffuso, accentuato senso di apatia, una marcata indifferenza, un palese assenteismo da un avvenimento che pure costituisce il principale evento politico dell’anno.


Chiari segni di disattenzione da parte della grande massa elettorale sono stati dati dall’indifferenza se non dal fastidio con il quale i cittadini hanno seguito la complicata e talvolta arroventata vicenda attraverso la quale i partiti – tutti i partiti – sono passati nel periodo di preparazione delle liste e di scelta delle candidature. Ancora una volta abbiamo avuto evidente riprova dei difetti di un sistema per il quale organi non costituzionali, quali sono le segreterie dei partiti, gli apparati provinciali ed altri ancora più anonimi, sono in definitiva i veri preparatori di quel fondamentale istituto che è il Parlamento. Abbiamo avuto anche, in questa fase, esempi non edificanti in fatto di serietà e di correttezza, e tutti o quasi i partiti hanno tagliato il traguardo del 10 aprile con qualche ferita che tarderà a rimarginarsi e con qualche macchia che si poteva evitare. 

Tuttavia, poiché il sistema proporzionale adottato in Italia è quello che è, sarebbe ormai inutile recriminare e non resta, agli elettori, se non ricordarsi che esiste tuttavia un possibile correttivo, ed è quello del voto preferenziale.

E’ questo un discorso che sarà opportuno riprendere quando più vicino sarà il momento del voto; ma pensiamo che sia dovere anche dei partiti non dimenticare, nel grande torneo oratorio che sta per aprirsi, questa onesta ed evidente necessità. Quella cioè di rendere ben chiara nella mente degli elettori la seconda ed importante scelta che ognuno dovrà operare dopo ver deciso sulla lista alla quale affidare il proprio suffragio. E quale possa essere l’importanza di questa seconda scelta risulta evidente quando si pensi come a volte in uno stesso partito esistano sostanziali differenze non solo di valore ma addirittura di significato politico; la differenza, ad esempio, che può esserci nell’ambito della DC fra un Pella e un Pastore.

L’esemplificazione potrebbe allargarsi dal campo nazionale a quello che possiamo, in ambito regionale, più da vicino osservare, ma qui il ragionamento, più che sulla base delle tendenze, merita a nostro avviso un ulteriore e forse ancora più importante sviluppo. Basterà, per ora, sommariamente ricordare le necessità e il problemi della Sardegna per rendersi conto di quale importanza assuma la scelta degli elettori nei confronti degli uomini da inviare al Parlamento, e di come, sotto un profilo di onestà e di convenienza, si debba, nell’ambito della lista prescelta, operare un vaglio severo, e ricordare al momento del voto i deputati che effettivamente, concretamente, hanno lavorato per la Sardegna e quelli che invece hanno scambiato il mandato parlamentare per una comoda e ben retribuita sinecura, ammantata di non aureo silenzio.

Nei prossimi giorni gli elettori in Sardegna, come in tutta Italia, si sentiranno sommergere da torrenti di retorica, riudranno i vecchi motivi della polemica di partito, risentiranno echeggiare i fondamentali motivi della lotta politica, si vedranno sciorinare davanti agli occhi roventi atti d’accusa, brillanti enunciazioni programmatiche, e multicolori e mirabolanti promesse. Ma noi vorremmo che qualcuno parlasse loro anche degli uomini, e che nessuno dimenticasse che sotto ogni simbolo, in ogni lista, esistono i candidati, non numeretti, ma persone, degne, meritevoli, o meno degne e non meritevoli. E vorremmo – ci sia consentito – che l’elettore che voterà per la DC ricordi i problemi affrontati per la Sardegna negli ultimi anni e i nomi di chi alla soluzione di tali problemi ha contribuito; e a chi voterà per il PSI ricordare le sostanziali, profonde differenze che obiettivamente esistono fra un fusionista ad oltranza ed un sincero autonomista; e agli elettori liberali, e non solo liberali, la profonda, assurda ingiustizia di una votazione che escludesse per la seconda volta dal Parlamento un uomo politico sardo di statura nazionale.

E poiché il discorso è sugli uomini esso dovrebbe essere più accentuato, naturalmente, per quanto riguarda il Senato per il quale vige il sistema del collegio uninominale. Ma il caso ha voluto, almeno qui in Sardegna, che proprio nella scelta delle candidature per Palazzo Madama gli interessi dei partiti o certe loro inguaribili deformazioni abbiano portato a quello che ha costituito il più grave e più doloroso episodio preelettorale. Alludiamo al mancato accordo fra sardisti, liberali e socialdemocratici, un accordo che sembrava nascere dalla logica stessa delle cose e che avrebbe – secondo l’opinione dei più – portato all’elezione certa di un candidato dei partiti di democrazia laica ai quali si rivolge l’attenzione di una vasta e ben qualificata parte dell’opinione pubblica. Un insanabile contrasto – ancorato a troppo rigide concezioni astratte e non rispondenti alla immediata realtà – ha fatto invece naufragare un’intesa che avrebbe oltre tutto riparato alle magagne di una legge elettorale non troppo corretta e ha portato alla esclusione dalle liste di due figure di primissimo piano della vita politica sarda.  

Scompaiono così dalla ribalta elettorale due uomini come Sanna Randaccio e Pietro Mastino, due figure politiche che hanno dato lustro alla classe politica sarda e la cui assenza dall’attuale battaglia non potrà non essere segnalata che con vivo rammarico da tutti i commentatori politici italiani.

E’ per evitare il ripetersi di simili errori che bisognerebbe puntare nei prossimi giorni l’attenzione anche sulla seconda scelta, preparare l’elettore al significato e alla necessità del voto preferenziale. Anche per non correre il pericolo, di fronte ad una giostra oratoria in cui mancano drammatici motivi e perentorie scelte, che si accentui quell’indifferenza e quell’assenteismo che irreparabilmente danneggerebbe i partiti democratici.

La democrazia, è vero, si fonda soprattutto nel libero dibattito delle idee egli uomini devono essere i fedeli servitori di un ideale politico. Ma questo non significa che le elezioni debbono tramutarsi in meccaniche operazioni in cui irreggimentati elettori tracciano ad occhi bendati un segno sotto un simbolo prefissato. Votare deve essenzialmente significare – a dispetto del sistema proporzionale – scegliere gli uomini che dovranno rappresentarci nel Parlamento.

Così alla partenza da Cagliari. Ma poi ogni attenzione era stata assorbita dalla missione: dal nazionale si passava all’internazionale. E dalla capitale statunitense e poi dalla Florida ecco il direttore farsi scrupoloso cronista delle “meraviglie” tecnologiche dell’industria di guerra americana. Per autoprotezione e per protezione degli alleati, si diceva e si sarebbe detto… E dunque da Cagliari a Roma ad Orly, alle Azzorre, al Pentagono nella contea di Arlington in Virginia: al Pentagono che si presentò come una città grande come la metà di Cagliari e popolata da trentamila persone, con un numero considerevole di donne a capo di qualcosa di importante, prova di una conquistata parità dei sessi, pur se ancora negli States i neri non godevano della parità con i bianchi... E poi quasi al confine con il Messico, dentro un poligono di lancio dei razzi, un poligono di 160 chilometri e 16mila abitanti tutti al servizio di lanci mirabolanti ognuno dei quali dal costo di 800mila dollari… Nell’America che era ancora l’America del generale texano Eisenhower, tre anni prima dell’avvento alla presidenza di John F. Kennedy.

Una fantascienza che era invece realtà tangibile, storia presente, e sconcertò il direttore-cronista giovane ancora di 37 anni, che ben conservava nella sua memoria le forme e i mezzi della guerra che aveva dovuto combattere, lui stesso, con i tedeschi, in Italia: «E noi, che neanche quindici anni fa facemmo ancora la nostra guerra, con le batterie ippotrainate, noi che imparammo alla scuola di tiro difficili calcoli con i goniometri e le tavolette…». Duecento gli aeronauti italiani convocati a El Paso e ad Fort Bliss per addestramento, nostri ufficiali e sottufficiali riconosciuti tutti di altissima abilità, primo gruppo di una serie di missionari bellici tanti da coprire i corsi di qualche anno… Per una guerra possibile fra boati e fumate a fungo. Pessime fumate, tanto più a confronto con il naturale fiammeggiare del sole al tramonto che si mostrò senza paura di perdere il confronto…

Ecco di seguito i due articoli del 29 aprile e del 13 maggio.

 

Il prezzo della libertà (29 aprile 1958)

da Washington

Nessun popolo al mondo odia la guerra, e ardentemente spera che essa non ci sia, più di quello americano; ma nessun popolo al mondo, più di quello americano è deciso a difendere la sua libertà, e quella dei suoi alleati, per quanto alto sia il prezzo che si debba pagare.

Questo il concetto base dei discorsi che da quattro giorni i più autorevoli rappresentanti politici e militari americani hanno tenuto a Parigi e nella capitale degli Stati Uniti al gruppo di venti giornalisti europei che il Dipartimento della Difesa ha invitato a compiere un viaggio attraverso gli Stati della confederazione americana.

Da Norstad, che al Quartier Generale della NATO a Parigi ha illustrato per due ore la complessa organizzazione della difesa alleata dell’Europa, ad alti esponenti del Pentagono e del Congresso qui a Washington, il motivo fondamentale è rimasto questo, insistente, preciso, senza retorica: una incessante vigilanza è il prezzo della libertà. Un prezzo che gli Stati Uniti stanno pagando senza esitazione, sul suolo americano, su quello europeo, su quello asiatico, un prezzo che si traduce in miliardi di dollari, in fatiche, in organizzazione, perfino talvolta in amare rinuncie.

La difesa americana del mondo libero ha meticolosamente steso i suoi avamposti lungo quella enorme frontiera che ormai divide il mondo in due giganteschi blocchi; Norstad a Parigi ha illustrato dettagliatamente su una serie di carte, settore per settore, l’immensa macchina che sparge i suoi ingranaggi dal Mare del Nord al Mediterraneo, dall’Oceano Pacifico all’Atlantico. Ma già la prima di queste basi noi l’abbiamo vista a Parigi, dove un’immensa fetta dell’aeroporto di Orly è ormai terra americana e da dove un quadrimotore del MATS (Military Air Transports Service) presi a bordo i venti rappresentanti della stampa europea ha iniziato il lungo viaggio verso la costa americana. Alle Azzorre, nello scalo notturno, abbiamo visto poi la seconda base americana: una striscia di terra portoghese dove l’aviazione degli Stati Uniti ha stabilito il suo meccanismo in cui tutto è militare, il che vuol dire ordine, perfezione, pignoleria.

Nessun esercito del mondo ha un aspetto meno marziale di quello americano, nessun più di questo è così poco attaccato alle forme, alle divise, alle tradizioni. Ma nessun esercito certamente ha una così colossale organizzazione burocratica, in nessuna armata mai come in questa, in pace e in guerra, c’è stato un così chiaro concetto che combattere non è un fatto eroico ed avventuroso, ma solo una deprecabile necessità alla quale bisogna far fronte, un ingrato e colossale lavoro dove l’obiettivo è quello di accumulare il maggior numero di mezzi per schiacciare l’avversario che volesse la guerra, col minor sacrificio di vite possibile.

Il Pentagono è l’esempio più chiaro di quello che è il sistema militare americano: qui, in questo che è il cervello della gigantesca macchina alla quale è affidata la difesa di metà del mondo, su trentamila persone che vi lavorano il sessanta per cento è fatto di civili e il sessanta per cento di questi sono donne. In questo immenso edificio (ricopre un’area che è all’incirca la metà di Cagliari) la burocrazia raggiunge i suoi vertici; tutto è progressione di numeri e di sigle, migliaia di uffici sono accuratamente allineati e collegati, tutto si articola attraverso la più sistematica, impersonale, perfetta suddivisione di compiti; e le donne vi imperano (ma c’è ancora qualche settore nella vita americana dove non siano le donne a dominare?) e si ha netta l’impressione che siano esse, in divisa o no, senza magari troppo apparire, a far funzionare questa che è la più delicata e più complessa organizzazione militare del mondo.

Oggi attorno al Pentagono si discute accanitamente perché meno di un mese fa il Presidente Eisenhower ne ha proposto una riorganizzazione con un messaggio al Congresso; in che cosa consiste la riorganizzazione e da quali motivi sostanziali essa sia determinata è difficile dirlo perché le discussioni, per ordine dei capi stessi del Pentagono, sono avvolte nel segreto. Ma non è difficile intuire che si tratta di portare l’organizzazione verso un maggiore accentramento del problema ormai dominante, ossia della corsa per la conquista dello spazio nella quale gli Stati Uniti ancora tallonano i russi senza averli raggiunti. Tuttavia, quale che sia il metodo attraverso il quale si attuerà questa riorganizzazione, per quanto profondi siano i mutamenti, si può essere certi che l’aspetto fondamentale del Pentagono rimarrà quello che noi abbiamo visto oggi, in un interminabile giro lungo corridoi che misurano chilometri, sezionati da centinaia di porte contraddistinte da sigle e numeri, un labirinto ultra moderno, dove al pianterreno decine e decine di negozi vendono di tutto, dalle sigarette alle automobili, e dove nei quattro piani sovrastanti trentamila persone fra uomini e donne, infinite rotelle di un unico gigantesco ingranaggio, decidono le sorti del mondo.

Marina, esercito, aviazione: tutto dipende da qui, tutto fa capo qui. Dai più sperduti avamposti del mondo giunge fin qui il filo che si congiunge in un’unica enorme matassa; ogni nave che naviga, ogni aereo che decolla, ogni reparto che si muove, dipende da qui. In una delle diecimila stanze di questo fabbricato c’è un cartellino che registra quel movimento, che segue quell’unità, che ne decide la sorte. Tutto questo, nel silenzio più assoluto, in una atmosfera ultraborghese, con generali di divisione seduti nella stessa stanza con una giovane bionda molto elegante o con una negra occhialuta ed austera.

In una di queste stanze un generale con tre stelle ha parlato a lungo ai venti giornalisti europei; aiutato dalla proiezione di lastre colorate egli ha illustrato lo sforzo militare americano per fronteggiare negli ultimi anni la continua minaccia sovietica. Ha prospettato anche la situazione attuale fra i due blocchi, valutando la forza sovietica mobilitata in otto milioni di soldati, quattrocento divisioni, cinquecento sottomarini, venticinquemila aerei. Della forza americana mobilitata ha dato solo la cifra di due milioni e mezzo di uomini. Per pareggiare la minaccia gli Stati Uniti devono assolutamente contare sugli alleati che hanno raccolto in tutto il mondo attraverso i vari patti difensivi. Fino a qual punto l’America, che mette in gioco ogni anno miliardi per l’armamento complessivo, può contare sui vari paesi che in Europa e in Asia sono schierati al suo fianco? E’ una domanda che né il generale né altri ha posto esplicitamente. Ma essa è sottintesa in ogni discorso, nasce dalla sempre maggiore conoscenza dei problemi altrui, si fonda sulla preoccupata cognizione di certi nazionalismi non vinti, di certe tendenze neutraliste ancora diffuse, di riluttanze create dall’incomprensione o dalla differenza di mentalità. Gli americani cominciano oggi a capire che per molti popoli è duro accettare l’assoluto predominio americano nell’organizzazione della comune difesa; ma a questi popoli essi obiettano che anche questo è il prezzo della libertà.

E la libertà – ha detto Norstad abbandonando per un momento il tono disinvolto e distaccato del giovane professore che spiega, bacchetta alla mano, cose complesse in termini semplici, - la libertà vale più della vita.



La guerra di domani (13 maggio 1958)

da Eglin (Florida)

Nell’infuocato deserto del Nuovo Messico e, a pochi giorni di distanza, qui, in una verde e ancora selvaggia plaga della Florida, abbiamo visto in azione le armi della guerra di domani.

A Red Cannion, nel centro del deserto di Tulorosa, alla frontiera fra il Texas e il Messico, per due giorni, in uno sterminato poligono che copre oltre 160 chilometri di terra arsa e pur macchiata dalla tipica vegetazione del deserto, abbiamo visto missili e razzi di ogni tipo. Là dove indiani messicani, spagnoli, cow-boys, pionieri, si sono avvicendati e combattuti nei secoli, là dove tutto parla ancora di geste solitarie ed eroiche, in una terra che forse ancora di notte vede vagare le ombre inquiete degli apaches mescaleros e il fantasma di Geronimo, a due passi da nomi cari alla storiografia e al cinema americano (Fort Bliss, Almagordo, Los Alamos), oggi sorgono radar, modernissimi laboratori, macchine elettroniche le più perfette e centinaia di batterie di missili in postazione.

Questo enorme poligono continua ogni giorno ad estendersi; dal 1945, anno in cui vi giunse una prima pattuglia di scienziati tedeschi, con 200 V 2, residuo dell’infranto sogno di Hitler, settimana per settimana, il deserto si è andato trasformando: e sul deserto, per costruire ed esperimentare le armi della distruzione e della morte, è sorta la vita. In pochi anni, tanto per fare delle cifre, sono state stese in questa zona 115 migliaia di linee di alta tensione, si sono scavati gli impianti per avere 85 milioni di galloni di acqua, un’interminabile rete telefonica collega i singoli punti del poligono, strade perfette tagliano in ogni direzione l’arso terreno, 16 mila persone, fra militari e civili, vi lavorano, vi hanno case, mense, chiese, scuole, locali di divertimento.

Dal 1945 ad oggi la teoria delle nuove armi si è andata sviluppando, di tappa in tappa, un progresso dopo l’altro: dalle V 2 sono nati i Corporal, i Sergeant, gli Honest John, i Redston, i Nike, i Jupiter; nomi pittoreschi di congegni terrificanti che ogni giorno esplodono in aria o contro bersagli terrestri, a chilometri di distanza, guidati dai cervelli elettronici delle varie postazioni.

Sono le nuove artiglierie, per una guerra in cui i più recenti e perfetti cannoni sono ormai roba da museo, romantico ricordo di altre battaglie che pur sembrarono, e furono, sanguinose e terribili. E noi, che neanche quindici anni fa facemmo ancora la nostra guerra, con le batterie ippotrainate, noi che imparammo alla scuola di tiro difficili calcoli con i goniometri e le tavolette, abbiamo ora visto in azione gli artiglieri della nuova epoca, uomini che azionano macchine dai cervelli perfetti, proiettili micidiali che inseguono lo area nemico a venti, trenta chilometri di distanza.
Esteriormente le nuove batterie di missili hanno tuttavia ancora un aspetto quasi tradizionale. Il comando è a una distanza che si aggira sui mille metri e comprende tre radar, telemetri, macchine per il calcolo, complicate a vedersi ma semplicissime a far funzionare. E sono queste macchine e questi occhi superumani a fare tutto; più in là, al posto dei tradizionali quattro cannoni, sono le rampe e su queste le svelte, argentate sagome dei missili.

Una voce nell’altoparlante scandisce lentamente gli ordini, poi il conto dei secondi: allo zero una spessa nube di fumo e per una frazione di secondo il lampo accecante del proietto che è partito. Qualche secondo più tardi l’aereo radiocomandato che fa da bersaglio è raggiunto e percepita, appena perfettibile nei potenti cannocchiali.

Per quattro volte, nel deserto di Tulorosa e ad Red Cannion, attraversando in aereo l’enorme poligono da un punto all’altro abbiamo visto dei Corporal e dei Nike-Hecules raggiungere infallibilmente l’obiettivo. Ogni lancio rappresentava 800 mila dollari di spesa.

E’ questo del costo uno degli aspetti più interessanti nel quadro di questa preparazione delle armi nuove e terribili. In questo deserto cosparso di missili, di apparecchiature elettroniche, di lavoratori in cui lavorano centinaia e centinaia di scienziati, ogni giorno vengono spesi milioni, milioni di dollari. Fare un calcolo di quanto possa costare un giorno, una settimana, un mese di guerra fatta con queste armi, sarebbe di estremo interesse ma non è nelle nostre possibilità. E’ tuttavia chiaro che una sola Nazione al mondo può oggi permettersi una preparazione di questo genere; o forse due. Ma l’altra, il potenziale nemico, il paese contro la cui minaccia è diretta questa che gli americani fermamente ritengono la unica possibile garanzia di pace, fino a qual punto potrebbe reggere in una gara che dalla base puramente sperimentale passasse sul piano dell’uso e cioè della produzione industriale su larga scala? E, in altre parole, quanto potrebbe durare una guerra in cui i soli primi cinque minuti richiederebbero la distruzione di materiali per miliardi e miliardi di dollari?

Non c’è risposta per ora a queste domande, naturalmente. Ma gli americani ogni giorno aumentano il ritmo nella produzione dei missili e dei razzi, ogni giorno ne aumentano la potenza e la perfezione, ogni ora aggiungono un grammo di terrificante valore al peso distruttivo di queste armi.

Lo sforzo americano si estende, si va sempre più estendendo, anche nell’armamento delle Nazioni alleati. A Fort Bliss e nell’enorme poligono del Nuovo Messico, ufficiali e soldati di tutti i paesi della NATO sono presenti. Da tutte le parti dell'Europa giungono continuamene uomini che vengono qui ad imparare l’uso di nuove armi. Duecento italiani sono a El Paso e ad Fort Bliss da qualche mese, ufficiali e sottufficiali dell’aeronautica; e  sono solo un primo gruppo di quelli che nei mesi successivi giungeranno per i lunghi corsi di addestramento e perfezionamento nell’impiego dei missili più recenti. Vale la pena di sottolineare che la classe italiana è considerata fra le migliori e che nelle ultime votazioni, a chiusura di un ciclo di addestramento, ha riportato una media di punti sensibilmente superiore alla stessa classe americana.


Dagli aspri contrafforti del deserto messicano alle verdi e lussureggianti foreste della Florida, Eglin è una grande base di Comando Strategico Aereo; migliaia di apparecchi del tipo più recente hanno preso qui terra nel giro di poche ore per prendere parte ad una grandiosa manifestazione.

Per due ore abbiamo visto un altro aspetto della guerra di domani. Aerei che più nulla hanno del tradizionale velivolo, bombardieri supersonici, caccia senza ali, apparecchi che avevamo immaginato così solo sui libri avventurosi di fantascienza, in un terrificante carosello si sono avvicinati su una ristretta striscia di cielo per scaraventare su minuscoli bersagli razzi di ogni tipo, bombe al napal, ordigni atomici in un susseguirsi frenetico di boati, di incendi, di fumate a fungo. Per qualche minuto pochi ettari di terra sono diventati un vulcano incandescente in cui tutto scompariva distrutto da un fuoco implacabile e ossessionante. Era facile chiudere gli occhi e immaginare sotto quel fuoco città, case, stabilimenti, era fin troppo facile immaginare che cosa sarebbe questa guerra di domani.

Mentre l’ultima formazione di F. 105 si allontanava dalla zona in fiamme, sul vicino Atlantico si accendeva, appena velato dalle nubi di fumo, un altro incendio. Ma era il fiammeggiare del sole al tramonto, uno spettacolare tramonto in cui la terrificante visione si andava spegnendo.

Il vecchio giornalista spagnolo che ci era accanto mormorava sottovoce una frase che era quasi una preghiera: “che questa resti per sempre la guerra di domani”.

 

***


Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).

Fonte: Gianfranco Murtas
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