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Gianfranco Murtas

Giovanni Lay il sardo-comunista e Cesare Pintus il sardo-repubblicano: insieme contro la dittatura, per la democrazia, per la Repubblica

di Gianfranco Murtas

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La recente iniziativa pubblica in onore di Giovanni Lay e la vivida, efficace rappresentazione della sua vita resaci da Antonello Angioni mi hanno suggerito di riproporre il testo che trentuno anni fa pubblicai nel libro Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano in cui riportavo, con la formula della simulazione, l’intervista raccolta, alla fine del 1989, dall’esponente comunista (titolo «Ricordo la sua confidenza con gli umili»).




Non sono solamente i duemila e dieci giorni passati di filato nelle galere fasciste a dare a Giovanni Lay quel fascino che appartiene agli "esempi viventi" di quel che può una fede; ma c'è anche l'equilibrio, la tolleranza e perfino la bonomia che non si saprebbe facilmente pretendere da un combattente e, diciamolo pure, da un perseguitato per la sua causa.

A parlare di Cesare Pintus il comunista Giovanni Lay, cagliaritano di Pirri, non ha bisogno di essere pregato: ma quello che colpisce di più in questo vecchio ed onorato militante che è un figlio del popolo, cresciuto - dall'età di 12 anni - fra cantieri ed officine, giovane muratore prima ed apprendista meccanico poi, quindi aiuto pasticcere nella celebrata ditta "Clavot e Rizzi", eccetera, è la capacità straordinaria di essere storico e testimone insieme, parte interessata e giudice obiettivo, il riuscire a collocare con precisione eventi e protagonisti in una cornice di riferimento più generale. Così, appunto, per Pintus. Verso il quale sembra non mancare - almeno per il settore dell'antifascismo non comunista - un suo riguardo particolare: per la sorte parallela vissuta, forse, per la comune esperienza di oppositori e di combattenti in patria, di ospiti delle regie galere per un lustro entrambi, pressoché nello stesso periodo fra 1927 e 1935. (Ma lui tornerà a visitare le prigioni anche successivamente, rapsodicamente, si direbbe, aggiungendo molti altri giorni ai duemila e dieci della prima tranche).

Riconosce subito - l'antico compagno di detenzione di Gramsci e di Pertini - l'ingiusto destino capitato a Pintus, beffa suprema di un mondo senza memoria: il silenzio, cioè, della dimenticanza caduto sul suo nome. «Perché manca una forza politica che ne ravvivi e onori la memoria», osserva Lay: e vuol dire - azzardo io, interpretandolo - che finora né i repubblicani né i sardisti hanno voluto riscoprirlo e riproporlo, perché, in fondo, nel PRI e nel PSd'A è rimasto più il ricordo di colui che se ne è andato che non quello di chi, nella progressione della sua esperienza politica, ha voluto e saputo raccordare filoni ideologici e politici diversi ma fra loro "parenti": repubblicanesimo, azionismo e sardismo, unificati dallo spirito mazziniano. Gli azionisti e i lussiani, poi - i sardo-socialisti cioè - non esistono più sulla scena politica, sono scomparsi già all'indomani della confluenza nel PSI, or sono giusto quarant'anni.

Negli anni «di ferro e di fuoco», come li chiama il mio interlocutore, l'apprendista pasticcere, autodidatta ed avido di conoscenze, interessato allo scambio con chi muove da premesse diverse dalle sue, s'incontra con lo studente universitario, colto e riservato. Nel 1921-22, quando si vedono per la prima volta, nell'ambiente del Fronte unico antifascista, hanno rispettivamente diciassette e vent'anni. «Con altri pure, ma con Cesarino ci si incontrava spesso a parlare di politica: il che voleva dire pigliar colpi o comunque essere soggetti alla prepotenza dell'avversario...».

Il coraggio fisico è il primo dato del carattere di Cesarino al quale Giovanni Lay vuol fare riferimento. Diffondere un volantino, per esempio - che oggi potrebbe sembrare cosa non particolarmente pericolosa - allora, in realtà, richiedeva più cuore di leone che non l'esercizio virtuoso della prudenza. C'era da considerare, infatti, l'incognita del destinatario: poteva trattarsi di un nemico, qualcuno che, credendoti un provocatore, non avrebbe tardato, per paura, a denunciarti. E quella sera del 29 aprile 1924, alla Camera del lavoro, in via Sardegna, ci si era dati convegno, come comunisti, proprio per organizzare un volantinaggio in grande stile. In vista del primo maggio, della festa dei lavoratori, occorreva lanciare un messaggio chiaro al fascismo ed alla stessa popolazione impaurita: l'opposizione c'è, l'opposizione è attiva, l'opposizione non molla.

Bisognava individuare i più idonei alla missione, senza obbligate qualifiche di partito: «L'antifascismo impegnava in modo unitario, altrettanto quanto la difesa del proprio partito, perché si capiva che questa era condizionata al proprio non essere isolati», commenta Lay.

Il PCd'I non aveva una sua sede fissa perché ancora si sentiva un partito semilegale e infatti l'occhio del Governo Mussolini si poggiava con sospetto sui partiti e le associazioni, costretti ad aggiornare mensilmente le prefetture circa i rispettivi iscritti (naturalmente ciascuno segnalava i nomi già noti coprendo gli altri, i neofiti soprattutto). Per questo è nella sede della Camera del lavoro che i comunisti tengono il loro microconclave, ed è in quell'ambiente che echeggia il nome di Cesarino Pintus come di uno che potrebbe partecipare all'azione dimostrativa.

C'è chi notifica subito il suo "no": «E’ un aristocratico, sì antifascista ma aristocratico, è un repubblicano», esterno cioè alla grande famiglia del socialismo marxista. «Che vuoi che gl'importi a Cesare Pintus del nostro primo maggio?», obietta qualche altro. Ma gli sfiduciati si lasciano poi convincere: Pintus andrà benissimo. Lay stesso crede fermamente nella giustezza della scelta.

Così il giovane repubblicano viene invitato a fare la sua parte nella distribuzione del manifestino. Si costituiscono tre squadre, ciascuna formata da tre elementi: Cesarino partecipa all'impresa coi comunisti Sannìa e Tonino detto "bandito". E’ il gruppo stampacino: Sannìa è di via Santa Restituita, Tonino di via San Giorgio, Pintus - si sa - del Corso. E corri allora per le scale dei palazzi, a cercare le fessure delle porte di casa, le cassette della corrispondenza… a seminare antifascismo.

Il 1924 è l'anno anche del delitto Matteotti, l'anno in cui l'opposizione democratica si fa più dura e rabbiosa. Il giorno consacrato ai festeggiamenti, più o meno retorici, della vittoria nella prima guerra mondiale - il 4 novembre - un gruppo di giovani socialisti, comunisti, sardisti, repubblicani, anarchici, coi loro fazzoletti rossi o verdi, con le loro camicie grigie, irrompe, sconvolgendolo, nel corteo di guardie regie, di militari, di civili decorati, che sfila nel largo Carlo Felice... E’ un altro ricordo che evoca sensazioni, umori, ideali di un tempo che segna come uno spartiacque tra il "prima" e il "poi", tra fascismo eversivo e fascismo regime, tra antifascismo al contrattacco ed antifascismo, tutto sommato, alle corde.

Ma la frequentazione di Lay con Cesarino Pintus si fa assidua soprattutto negli anni dell'immediato secondo dopoguerra, fra 1943 e 1946, gli anni della comune presenza nel Comitato provinciale di concentrazione antifascista e poi nella Giunta municipale presieduta dall'esponente azionista («Fu una scelta unanime del CLN»), gli anni anche dell'impiego di Pintus come capo-redattore dell'Unione Sarda diretta da Jago Siotto. «Avevo la famiglia sfollata a Solarussa - racconta Giovanni Lay - ma tornavo tutti i giorni a Cagliari, in una Cagliari distrutta e deserta. Era mio compito riattivare il Partito comunista: per questo venivo, ogni giorno, in città. E passavo spesso all'Unione Sarda a trovare gli amici. Finché un certo giorno - era il novembre del ’43 - Cesarino mi fece press'a poco questo discorso: "Tu che sei stato in carcere con lui, perché non scrivi un articolo su Gramsci?". Lo scrissi e lui ne apprezzò pienamente il testo. Lo portò poi, per la "ratifica", a Siotto, e l'articolo uscì sulla prima pagina dell'Unione. Era il 24 novembre».




Ecco Cesarino: coraggioso, nell'azzardo del volantinaggio giovanile come nelle traversie dell'arresto, del processo e della detenzione, della malattia e dell'emarginazione civile e professionale impostagli dal regime; e tollerante, e aperto verso gli altri protagonisti e le altre esperienze. Ancora: la sobrietà, lo stile, l'aplomb come riflesso di una personalità ricca quant' altre mai di valori spirituali e morali, esemplarmente tradotti nell'impegno politico. Lay sembra voler dire di una solidarietà che, oltre il tempo, ancora lo unisce a chi ha amato profondamente come compagno di lotta per i più alti ideali.

Pintus sindaco: «Fece bene, perché era uno che sapeva legarsi alla gente. Era uno che riceveva tutti. Si attivò fino all'esaurimento delle sue energie. I problemi allora erano giganteschi, infiniti. Una pena, una pena, una pena... sembra impossibile che uomini, donne e bambini possano aver sopportato tante difficoltà. C'erano le difficoltà materiali di ogni genere, le distruzioni e la fame, e nell'Amministrazione c'era da ripristinare l'archivio municipale, da ricreare i ruoli delle imposte, da riordinare gli strumenti tecnico-politici necessari all'avvio della vita democratica cittadina, per la convocazione delle prime elezioni comunali. Mi pare che, in quegli anni, Cesarino vivesse da solo, nella sua casa al Corso. La madre - morta dopo la fine della sua esperienza sindacale - era rimasta a Dolianova, dov'era sfollata. Il padre era scomparso già da diversi anni. Tutto il suo tempo, nell'anno o mezzo di guida dell'Amministrazione civica, era dedicato alla sua città», conclude Lay.


Fonte: Gianfranco Murtas
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