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Gianfranco Murtas

Il giovane don Ottorino Alberti e la festa nuorese del Redentore. Un articolo del 1970

di Gianfranco Murtas

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Siamo arrivati al tredicesimo anniversario della morte di Ottorino Pietro Alberti, che fu arcivescovo di Cagliari dal 1987 (ma con ingresso in diocesi nel gennaio 1988) al 2003. E ancora una volta avverto il dovere di onorarne la memoria – io che lo ebbi amico prima, poi avversario con scudisciate dolorose, poi ancora, dal giubileo 2000 e sino alla fine, amico e perfino intimo – presentando di lui qualche scritto o inedito o dimenticato ma pur meritevole di recupero e condivisione. E vado così al 1970, l’anno meraviglioso dello scudetto del Cagliari di Scopigno e Gigi Riva e degli altri campioni rossoblù, l’anno meraviglioso della storica e commossa visita di papa Paolo VI nel capoluogo della Sardegna.

Era ancora impegnato nella docenza piena alla Lateranense monsignor Ottorino P. Alberti nel 1970. L’anno successivo egli sarebbe stato chiamato dal cardinale Sebastiano Baggio (e dalla Conferenza Episcopale Sarda) ad un incarico diverso dall’insegnamento (ma ad esso non del tutto alternativo, tant’è che le lezioni continuarono, infittendo i passaggi ad Elmas e i voli per Roma). Un incarico nuovo – quello di rettore del seminario regionale che, dismessa la direzione gesuitica, i vescovi diocesani avevano dovuto prendersi in carico, portando anche la sede da Cuglieri a Cagliari – e forse neppure congeniale alle propensioni del giovane professore, ma certamente occasione di svolta della sua vita e dunque anche della sua “carriera” ecclesiastica, perché gli sarebbe presto venuta, in riconoscimento della generosità del servizio, la chiamata all’episcopato: e sarebbe stato un ministero di tre lustri in Umbria (arcivescovo di Spoleto e vescovo di Norcia), ed in continuazione un servizio di altrettanti lustri nell’Isola sua (appunto arcivescovo di Cagliari).

Nel 1970 era davvero ancora giovane il Nostro fattosi prete, a Nuoro, ma con solidi studi anch’essi romani, nel 1956 dopo la laurea pisana in agraria: 43enne all’anagrafe, aveva fissato la sua firma già in diversi libri di storia ecclesiastica (si pensi soltanto a I vescovi sardi al Concilio Vaticano I, oppure a La Sardegna nella storia dei Concili, o ancora a Il Cristo di Galtellì), in saggi brevi e in una gran quantità di articoli usciti in una moltitudine di testate di varia missione, soprattutto continentali.

Nel suo tanto daffare, tanto all’università (in cattedra ma anche in segreteria generale) quanto nelle ricerche storiche con inimmaginabili faticosissime immersioni negli archivi documentari di due millenni, ad un appuntamento di calendario – appuntamento di impegno e insieme di ristoro – non aveva però mai voluto mancare il monsignore nuorese, per questo ingabbiando le sue ferie agostane (con breve coda settembrina) nella miglior agenda popolare, o devozionale-popolare sarda e della sua città: per onorare la festa del Redentore, e a seguire quella della Vergine di Valverde.

Presente da prete alle liturgie e, dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, anche come concelebrante con i confratelli del presbiterio barbaricino e il vescovo dottissimo ed amatissimo monsignor Giuseppe Melas. (Il quale, ancora in quell’estate del 1970, si portava addosso il peso di una complicata responsabilità diocesana, ma che di lì a qualche giorno – il 10 settembre 1970 – dovette purtroppo cedere lasciando alla società locale soltanto il grato ricordo di un prodigo servizio durato ben 23 anni).

Ho anche memoria che il presule che di Melas raccolse l’eredità, monsignor Giovanni Melis Fois, avendo da subito e per anni proseguito con animo perfetto nelle cure della migliore tradizione cristiana radicata sul monte Ortobene, una volta che Alberti fu assegnato alla metropolia cagliaritana e alla presidenza della CES, a lui passò, con magnifica fraternità, il bacolo e la possibilità di esprimersi in sapienti omelie destinate anche a numerose riprese da parte della stampa scritta e radio-televisiva. Un’era fa.

Ritorno al 1970, non mancando però di richiamare prima un mio pur modesto articolo postato su Giornalia il 14 luglio 2021: “Monsignor Ottorino Pietro Alberti, la sua Nuoro e la festa del Redentore. A nove anni dalla morte dell’arcivescovo e storico della Chiesa sarda”. Quando anche riportai un articolo che l’allora esordiente vescovo (da un anno appena a Spoleto e Norcia) aveva scritto per L’Unione Sarda del 29 agosto 1974: “Una festa genuina che diventa storia: un ‘documento’ da salvare”.

Ecco qui. Nel gran giorno della festa – il 29 agosto 1970 – il giornale al tempo diretto da Fabio Maria Crivelli destinò una pagina speciale, curata da Gianni Pititu e Tonino Piredda, a Nuoro e alla sua festa tanto più evidenziata dalla partecipazione del cardinale Baggio, dalle voci del Coro Barbagia e dalla ripresa televisiva. E nell’impaginato l’articolo di don Ottorino – “Una storia di fede scolpita nel bronzo” – diede il buon giorno ai nuoresi lettori del quotidiano. Eccolo il contributo di Ottorino Alberti che della statua che domina l’Ortobene rifaceva l’interessante storia.




Il capolavoro di Vincenzo Jerace

La Sagra del Redentore, giunta ormai alla sua 7.a edizione, pur con le limitazioni che le vengono dalla monotona ripetizione di vecchi schemi e vecchi programmi, non manca, come altre simili celebrazioni, di un suo contenuto e di una sua importanza ai fini di una rivalutazione e di un rilancio delle più antiche e nobili tradizioni isolane. Tuttavia, le varie manifestazioni che costituiscono un richiamo turistico di indubbio valore, restano pur sempre marginali di fronte alla splendida ricchezza di fede che anima e dà corpo a questa festa, la cui storia non è tanto una somma di eventi, quanto una testimonianza di vita, di speranze e di nostalgie, di sentimenti e di fede.

La proposta di erigere anche in Sardegna un monumento a Gesù Redentore era partita dal Comitato promotore dei festeggiamenti in onore di Leone XIII che nel 1887 celebrava il suo Giubileo sacerdotale. Tale Comitato, infatti, presieduto dal Conte Giovanni Acquaderni, pioniere dell’Azione Cattolica Italiana, aveva deliberato di erigere in Italia 19 monumenti a ricordo dei XIX secoli della Redenzione e di aggiungerne un ventesimo a celebrare i fausti del pontificato di Leone XIII e il suo Giubileo. In risposta ad una lettera inviatagli in data 10 luglio 1887, Mons. Salvator Angelo Maria Demartis, vescovo di Galtellì-Nuoro, manifestò a quel Comitato la sua gioia e la sua riconoscenza per la scelta di Nuoro come sede più indicata per l’erezione del monumento in Sardegna, e in pari tempo diede disposizioni per la costituzione di un Comitato apposito per studiare il necessario progetto e per reperire i fondi necessari a quest’opera, per la cui realizzazione si chiese il contributo di tutti i cattolici sardi.

Postosi il problema della scelta del luogo ove dovesse sorgere il monumento, in un primo momento si pensò al Colle di S. Onofrio, ma poiché il Comitato Centrale era dell’avviso che si dovessero preferire le più alte cime di montagne vicine ai centri abitati, la scelta cadde sul Monte Ortobene, dalle cui vette l’occhio spaziava fino al Gennargentu.

Una volta stabilita la località, si discusse su quale dovesse essere il monumento celebrativo e tutti si trovarono d’accordo nel voler un’opera d’arte e non una statua qualsiasi o una semplice croce. L’incarico di tale opera fu dato allo scultore Vincenzo Jerace, il quale con passione d’artista e con fede di vero credente, in pochi anni portò avanti il lavoro, tanto che nel marzo del 1901 poté scrivere: «… il bello ed antico sogno (per molti irrealizzabile) è divenuto una realtà nella vita secolare del bronzo». La statua del Redentore, fusa nella Fonderia Braccali in Napoli, del peso di 18 quintali, divisa in tre pezzi (dorso, basso e croce), giunse per via mare a Cagliari e di qui a Nuoro, ove arrivò il 19 agosto 1901. Per il suo trasporto all’Ortobene si dovettero superare non poche difficoltà per la mancanza di un’adeguata strada carreggiabile.

La mattina del 29 agosto, giorno scelto per la inaugurazione del monumento, sul far dell’alba, dalla Cattedrale di Nuoro partì un’interminabile processione che vedeva raccolte migliaia di persone giunte da ogni parte dell’Isola. Sul mezzogiorno, alla presenza di circa diecimila persone e del vecchio vescovo Demartis che, pur alla vigilia della sua morte, non aveva voluto mancare al tanto sospirato appuntamento e vi si era fatto portare su un carro, venne benedetto il simulacro e il canonico Lutzu celebrò la Messa e pronunziò un ispirato discorso. A conclusione del sacro rito, per tutti i cattolici sardi, parlò l’avv. Enrico Sanjust, le cui parole furono un inno di riconoscenza al Signore e un monito ai sardi di mantenersi fedeli all’antica fede dei padri. Si diede così inizio a quell’interminabile pellegrinaggio che nell’arco di settant’anni mai ha conosciuto soste e che ha portato ai piedi del Redentore quanti, chiusi nel pudore della sofferenza, sapevano di poter trarre dalla fede la speranza e la forza per riprendere il cammino della vita.


Fonte: Gianfranco Murtas
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