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Gianfranco Murtas

In difesa della diocesi di Ales-Terralba

di Gianfranco Murtas

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Sul numero in uscita domenica 23 giugno 2019, il giornale diocesano di Ales-Terralba pubblica un mio articolo dal titolo “Un miracolo storico che deve proseguire”, che il direttore don Petronio Floris ha accompagnato con questo occhiello: “Nella vita della nostra Chiesa locale una conduzione articolata e unitaria della pastorale pedagogica e utile per i minatori, i braccianti agricoli e i nuovi operai”. Una notazione, quest’ultima, che chiaramente allude al collaudato e generoso impegno ecclesiale a favore delle categorie sociali che, nei decenni (o perfino nei secoli), hanno caratterizzato la popolazione della Marmilla, del Terralbese e del medioCampidano, dei territori cioè che storicamente compongono la diocesi.

La recente promozione del vescovo diocesano, il francescano conventuale padre Roberto Carboni, ad arcivescovo metropolita di Oristano è infatti la premessa, non ancora ufficializzata, dell’assorbimento della diocesi alerese in quella maggiore arborense. Uno schema che dovrebbe ripetersi a breve, assegnando a don Antonello Mura, attuale vescovo di Lanusei, la responsabilità canonica della Chiesa di Nuoro (oggi retta dal vescovo Mosè Marcia prossimo al pensionamento): circostanza alla quale appunto dovrebbe far rapido seguito l’assorbimento (in toto o parziale) della diocesi ogliastrina da parte di quella nuorese. Fra un anno, infine, dovrebbe accadere la stessa cosa fra Goceano e Monteacuto: il vescovo di Ozieri don Corrado Melis è in predicato di succedere al collega Sebastiano Sanguinetti nella presidenza della Chiesa di Tempio-Ampurias, e la sua diocesi d’origine dovrebbe seguito aggregandosi, probabilmente con vicarie forti di larga autonomia pastorale, alla diocesi viciniora (o forse in parte scorporandosi a favore di Sassari).

Gli indirizzi pontifici per la semplificazione della rete delle circoscrizioni ecclesiastiche italiane paiono piuttosto cogenti, dopo che da più mezzo secolo di essa si parla (Paolo VI dette questo invito alla CEI fin dal 1964, in piena epoca conciliare). Nell’Isola, fino a questo momento, il solo accorpamento effettuato è quello della metà degli anni ’80 fra le diocesi di Bosa ed Alghero, oggi unificate sotto il bacolo del salesiano don Mauro Maria Morfino. Sarà questione di poco, ma non da poco, considerando le tradizioni e gli orgogli di territorio. Ma anche i meriti storici che le diocesi minori destinate al sacrificio ben potrebbero rivendicare, pur in tutta umiltà. Ed è in questo senso che si muovono le riflessioni contenute nell’articolo di Nuovo Cammino.

Pilo, Emanuelli, Tedde, ma non solo loro: la Caritas intercontinentale…

Quante volte ci siamo lanciati a dire di chiesa-comunione e chiesa-istituzione, declinandone autonomie e distanze e poi anche ricercandone, speranzosi, migliori sintonie nel presente e, grazie all’impegno di tutti, nel divenire. Ogni chiesa particolare, radicata in un territorio e alimentata da buon volere, creatività e spirito organizzatore di un popolo, tende a realizzarsi, nell’amalgama di sentimento, dottrina e sante opere, come tessera di un mosaico largo e policromo, conferendosi ai maggiori spazi della universalità. Tende cioè a distinguersi ma non per il podio, invece per il miglior pregio di quella fraternità che nella pasta sociale sa generare l’intelligenza testimoniale del lievito di poco prezzo. Ché, alla fin fine, la chiesa non è altro che un pugno di lievito.

Nel momento nel quale si pone anche in Sardegna la grande e sofferta questione della ridefinizione dei confini diocesani e s’ipotizzano aggregazioni o confluenze (o annessioni?), la nostra chiesa territoriale che gli annuari vaticani denominano di Ales-Terralba (così dal 1986, con rimaneggiamenti di più remote denominazioni) è chiamata anch’essa ad interrogarsi sull’adeguatezza delle sue risposte ai doveri della missione, prima ancora di mettersi dietro l’ideale balaustra dei giudicandi. Perché non bastano forse i coefficienti tabellari pretesi per la conferma delle pur collaudate autonomie, bisogna andare oltre. Neppure, comunque, si possono tralasciare i numeri che raccontano le dimensioni e da lì muovono anche a segnalare specificità degne o no di preservare quelle soggettività.

Diocesi piuttosto mediana se non in quanto al territorio interprovinciale – 1.500 kmq. – certo per popolazione – oltre 90mila unità – e ancor più per numero di parrocchie (57, più di Lanusei, o di Nuoro, o di Ozieri, o di Tempio-Ampurias, quasi quante a Sassari o a Alghero-Tempio) – Ales-Terralba parla con il policentrismo dei suoi assetti zonali, fra aree gravitanti sull’Iglesiente e altre piuttosto orientate – come la Marmilla o il Terralbese – verso Oristano, e altre ancora, nel medio Campidano, riconducibili invece, anche per storia vissuta, al Cagliaritano. 

Perché poi il “miracolo” storico della diocesi alerese e dei suoi vescovi – certamente con progettualità e ricadute diverse, per la diversa personalità e il diverso carisma dei singoli presuli – è stato quello, invero non poco faticato, di una conduzione articolata/unitaria della pastorale pedagogica ed utile, per i minatori in “spegnimento” ormai di pozzi e gallerie così come per i braccianti dell’agricoltura tradizionale, per gli operai della nuova e illusoria industria così come per quel tanto di ceto di mezzo artigianale e commerciale dei centri più cospicui, insomma per l’intero e variegato arco sociale che, tessendo con il proprio lavoro la storia della vasta comunità, nella chiesa comunione-ed-istituzione hanno colto il più significativo riferimento. Così per secoli e anche al di là di una immediata consentaneità (talvolta perfino inesistente) di dottrina e fini, certamente per la pratica sociale.

Potrebbe mai pensarsi la diocesi di Ales-Terralba senza la promozione dei Monti di soccorso, senza l’opera attiva di un mons. Giuseppe Maria Pilo? Potrebbe mai pensarsi la diocesi di Ales-Terralba senza il protagonismo insieme educativo e interventista di un mons. Antonio Tedde, anticipatore di una vera e propria pastorale del lavoro e fondatore di un sistema di scuole medie e superiori in una area che, ancora dieci e vent’anni dopo la seconda guerra mondiale, mancava di una rete d’istruzione pubblica degna dei tempi? 

Certo non valgono nella chiesa i concorsi guerreggiati per la rivendicazione dei meriti, anche perché contribuiscono ai risultati non soltanto le valide impostazioni, ma anche i fattori d’ambiente e le circostanze favorevoli che possono suscitarsi spontanee nel tempo, ma pure è indubbio che, come non è la sua superficie d’area a legittimare l’esistenza della Città del Vaticano sulla scena diplomatica internazionale, così non possono essere algide evidenze statistiche a determinare, in un contesto storico da conoscere e attraversare nel profondo, un diritto ad “esserci” ancora, per nuove progettualità e applicazioni non per fiacche ripetitività, nel sistema diocesano nazionale. E s’intenda: ad esserci per l’originalità propositiva interna ad una più vasta catena capace di accogliere e raccogliere dalla sorella minore. 

Perché oggi potrebbe parlare la multipolarità operativa della Caritas alerese – in patria e fuori, fino nei continenti più lontani – per dimostrare che la profezia non è stata soltanto quella del vescovo Pilo o del vescovo Tedde, e che la profezia – la profezia! – legittima ancora lo status di cattedrale d’una chiesa che pur era nata, come storicamente è provato, lontano dal villaggio, per poi chiamarlo a sé il villaggio, il villaggio attorno al tabernacolo, il villaggio servito nella sue necessità umane e spirituali da un bastone pastorale fattosi appassionato strumento di guida e protezione. Anticipazioni e profezie come quelle della lettera “In paupertate” del 1949, come oggi sono le sperimentazioni sinodali delle unità pastorali, modello destinato ad imporsi a più vaste platee oltre la Marmilla, il Terralbese o il medio Campidano, rivelandosi per le intime virtù comunitarie certo assai in sovrappiù che per l’adeguatezza di risposta ad un bisogno d’accompagnamento. 

Contro l’usura vampiresca i monti frumentari e di pietà, contro le diseguaglianze insopportabili perfino nell’amministrazione dei sacramenti e contro la diserzione delle pubbliche istituzioni dai bisogni popolari e delle giovani generazioni… per il soccorso delle sementi nelle campagne, per le scuole ad Ales (il comprensivo San Giovanni Bosco: media, ginnasio, magistrale, poi anche il corso professionale) e San Gavino (giusto il bis della Beata Vergine della Speranza), a Guspini (la media Contardo Ferrini)… Il collegio vescovile San Domenico Savio per l’accoglienza di marmillesi e non solo, la santa fantasia al servizio di tutti, l’iniziativa organizzativa calata negli anni duri e lenti successivi alla guerra, ai lutti e agli scompaginamenti famigliari. Tutto si tiene, com’era stato due secoli prima, nell’opera dei vescovi Beltran, Manunta, Cugia… e Pilo.  

E’ un andare e venire: metti l’associazionismo incoraggiato dal vescovo Emanuelli, vero polmone di socialità e promozione anche civile, pur con tutti i limiti di epoche sfortunate, in paesi altrimenti costretti ad infecondi individualismi e meste solitudini. La storia vissuta può entrare nel giudizio di merito (circa la sorte alerese) dei monsignori dell’apparato CEI?

Con il policentrismo e l’intersocialità pastorale, il risolutivo interventismo in agricoltura così come nella scuola, l’evangelica riforma tariffaria così ampiamente anticipatrice della riflessione conciliare del parigino cardinale Feltin (presidente di Pax Christi) e l’attuale operatività delle fraternità pastorali in felice rimedio delle avarizie vocazionali (di tradizione), la Caritas radiale, di rimandi perfino intercontinentali – fino al Ciad e alla Tanzania all’Honduras e all’Argentina –, l’inimmaginabile rete solidaristica fra centri d’ascolto, comunità di varia tipologia, cooperative di rinforzo lavorativo mai disgiunto da un messaggio pedagogico, Ales – che vuol dire anche Villacidro e Guspini, Lunamatrona e Tuili, Mogoro e Terralba, San Gavino e Sardara, e metti tutti gli altri centri della Giara e del Linas, di su e di giù – si racconta, presentandosi al giudizio. Cuore interprovinciale della Sardegna meridionale e centrale, potrebbe costituire, nei nuovi assetti delle circoscrizioni ecclesiastiche sarde cui si lavora, un modello non da sacrificare, piuttosto da studiare e rilanciare. Perché l’originalità dei poveri, nel fare e nel pensare, è vincente sempre. 


Fonte: Gianfranco Murtas
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