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Gianfranco Murtas

«La Repubblica diventa», con De Gasperi anche i democratici eredi ideali del risorgimento patrio

di Gianfranco Murtas

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Al Bastione di Cagliari, oggi 2 giugno, il popolo che ieri era per l’ampolla del dio Po e le assemblee celtiche di Pontida, per il tricolore nell’uso igienico delle toilette, per la patria spezzettata a pro della signoria padana, con i propri cugini che, sempre ieri, erano per le definizioni neodogmatiche del “nos sardus bos atrus italianus”, s’è riunito con qualcuno che, ancora ieri, considerava statisti Berlusconi, Previti, dell’Utri e molti altri della compagnia e con quegli altri ancora della fiamma tricolore epigoni della storiaccia che nel 1946 volle il riabbraccio fra fascisti salodiani e fascisti del nobile duumvirato Duce-Savoia: insieme, tutti quanti hanno promosso un modernissimo e patriottico flash mob antigovernativo (ostile cioè al brutto bruttissimo governo oggi in carica). 

Quali risorse morali e davvero patriottiche quel popolo che va per slogan sovranisti possa offrire all’Italia d’oggi non lo so. E la Vergine Immacolata al cui Cuore santissimo s’era votato Matteo Salvini pochi mesi fa in spiaggia è parsa indifferente alla preghiera blasfema a lei rivolta fra l’applauso della claque in mutande e senza cervello.

Soltanto per pura testimonianza, modestissimo seguace della scuola democratica ed europeista che in antico fu di Mazzini e Garibaldi, e dopo, in Repubblica finalmente, fu di Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis, di Cesare Pintus e Pietro Mastino, sento di dover dire, ancora a Cagliari, e idealmente in quello stesso Bastione che fu il grande teatro della mia infanzia, che la Repubblica non l’hanno voluta i qualunquisti da cui molti o tutti i protagonisti della sceneggiata d’oggi provengono per li rami: l’hanno voluta i democratici d’ispirazione risorgimentale e di faticosi adempimenti resistenziali negli anni della guerra e dopo l’antifascismo praticato nelle prigioni.

Nel cinquantesimo del referendum istituzionale e delle prime elezioni politiche (per l’Assemblea Costituente) dopo tanto sequestro della democrazia, nel 1996 cioè, presentai agli Amici del libro un libro che ricordava i termini essenziali del dibattito politico in Sardegna alla vigilia della Costituente. Furono con me allora, al convegno cui come associazione “Cesare Pintus” demmo il titolo “La Chiesa e il Giornalismo, l’Impresa e la Politica, la Scuola e il Sindacato, la Vita quotidiana in Sardegna alla vigilia della svolta referendaria” – Antonio Romagnino e Achille Sirchia, Simonetta Giacobbe ed Ottavio Cauli, Walter Angioi e Marcello Tuveri, Giovanna Crespellani, Salvatore Pirastu e Gianni Filippini… Di quel libro – 1946, l’anno della Repubblica – riprendo e ripropongo, ora che è trascorso un altro quarto di secolo, e appunto per testimonianza di fedeltà ad una scelta di campo che non cambia perché… non può moralmente cambiare, alcune righe della introduzione e un articolo che Cesare Pintus – il mazziniano che fu sindaco di Cagliari fra l’ottobre 1944 ed il marzo 1946 – scrisse per Il Solco, organo politico del PSd’A di quel tempo.

Se ripenso a Lussu o Giovanni Battista Melis, a Cesare Pintus o Mario Melis – anche a Mario Melis – e sento che si professa sardista l’attuale presidente della Regione, un democristiano con tessera quattromori, già nazionalitario-indipendentista (?) e fattosi per un quarto d’ora, senza decenza, perfino senatore del partito della Padania e del dio Po, dell’insulto ai meridionali oltreché alla bandiera nazionale, intuisco lo spessore opportunistico della babele presente. Non ho più forze per combattere, soltanto confido in un domani diverso, da laicamente costruire ancora quasi ripartendo dalle macerie. E lascio stare, impegnata com’è nelle sue occupazioni a pro di chi ha cuore puro davvero, la Vergine Immacolata.

Finalmente al 2 giugno

«È forse il più bel giorno della nostra vita, di noi vecchi repubblicani. E se a questo trionfo abbiamo contribuito più degli altri, soprattutto qui in Sardegna, non è la vittoria che vogliamo celebrare, ché non è nostra, ma di tutto il popolo italiano. Celebriamo il trionfo della democrazia, e, da veri democratici, non serbiamo rancore per i monarchici, tanto meno per chi lo è stato in buonafede, per convincimento. Combattendo per la repubblica, con grande energia ma anche più con perfetta lealtà, non abbiamo mai pensato a una nostra repubblica, nella quale potessero trovare onori benefici i vincitori. La repubblica che abbiamo auspicato e finalmente ottenuta, era ed è nel nostro pensiero la repubblica di tutti gli italiani. La casa nuova, poiché la vecchia rovinava da ogni parte; e questa casa deve ospitare tutti gli italiani. Alla pari, repubblicani e monarchici; o meglio, già monarchici, ché ormai sarebbe stolto voler tornare indietro, per trovare asilo tra le appestate macerie della dimora abbandonata». Così Il Solco sardista nel suo editoriale del 13 giugno 1946 - "Primo commento ai risultati elettorali" - che esce sotto il maggior titolo, su due righe ed a tutta pagina, "il popolo sovrano ha risposto: Repubblica. Costruiremo, difenderemo la Repubblica".

A raccontare la soddisfazione patriottica per il risultato referendario - meno per quello politico dell'assegnazione dei seggi a Montecitorio - è la voce di un partito regionale, di lontane e consolidate ascendenze democratiche, mazziniane e cattaneane, arricchite nel tempo di autonome elaborazioni, originali ma sempre coerenti alle fonti ultime. È la voce dei sardisti, di un partito non omologabile ad alcun altro del suo tempo, caratterizzato e qualificato da un ceto dirigente straordinariamente dialettico, che si direbbe piuttosto una galassia di sensibilità umane, di formazioni ideologiche, di espressioni culturali, dottrinali, politiche riflesso anche di differenziate esperienze di studi o di vita, come da nessun'altra parte è dato di riscontrare, ma che pure riesce a trovare - almeno fino all'estate 1948— una sua sintesi positiva sui grandi temi non meno che sul programma.

Nella campagna per la Repubblica, nei comizi pubblici e negli incontri più discreti e domestici all'interno delle sezioni sparse sul territorio di un'Isola allo stremo, non è che la dirigenza missionaria non abbia trovato qua e là, anche in certe aree della militanza e ancor più dell'elettorato fedele ai Quattro Mori, debolezze e indulgenze e perfino simpatie monarchiche, anticipi di nostalgia di una casa regnante certamente amata da strati larghissimi della popolazione (come poi il voto del 2 giugno avrebbe dimostrato); la sua predicazione non ha mai ceduto, però, non ha mai perso di tono, ed ha, al contrario, saputo combinare, con abilità ed efficacia, la tradizionale istanza autonomistica con quella, ormai di bruciante attualità, repubblicana.

Al solito è stato Emilio Lussu, nel suo discorso all'Eden di Cagliari, domenica 5 maggio - cioè a neppure un mese dal voto - ad interpretare al meglio lo spirito repubblicano del sardismo postfascista, tracciando le linee di una Repubblica chiamata al dovere storico di «ricostruire l'ordine democratico, con i suoi istituti e le sue leggi, voluti in comune e in comune accettati e difesi».

Ha spiegato doversi trattare di una Repubblica Democratica «nella sua legislazione penale, civile, commerciale, nella legislazione sociale, industriale, agraria, bancaria, nella sua cultura superiore e popolare, nella sua organizzazione del lavoro e nella difesa della miseria, una Repubblica Democratica che tutto può realizzare se si articola nella sua nuova struttura, per cui lo Stato non è più un dispotismo centrale burocratizzato, incompetente spesso, lento sempre e registratore impotente di ingiustizie sistematiche, ma un centro armonico di coordinazione della multiforme attività generale delle varie parti geografiche e dei vari settori economici del Paese: uno Stato autonomistico».

Ancora: una Repubblica Democratica nemica di «tutti i centri di parassitismo e di privilegio capitalistico», ostile ai monopoli e capace invece di «fare appello a tutte le oneste energie del lavoro e all'iniziativa privata». Non una «Repubblica comunista» - ha detto Lussu - e «neppure Repubblica socialista», ma un ordinamento in grado «di realizzare i postulati sociali e politici del nostro tempo, nella legalità democratica che comporta la critica, che comporta minoranze, e in cui la legge discende dalla volontà liberamente espressa dalla grande maggioranza dei cittadini».

Il sogno sarebbe la costituzione federale, ma - ha avvertito il leader sardista-azionista - «la corrente federalista è debole in Italia» e fatta propria, nella politica, soltanto da una parte del Partito d'Azione e dal Partito Repubblicano «che è numericamente un piccolo partito». Prendendone atto, per il PSd'A la Repubblica «dovrà basarsi su larghe autonomie e non su vasti decentramenti. Il decentramento è una concessione di natura burocratica che cade dall'alto, l'Autonomia è una conquista e una riforma di natura politica, costituzionale. Il decentramento non esige la trasformazione dello Stato, l'Autonomia la presuppone».

A cinquant'anni di distanza e mentre si parla, più spesso a vanvera, di "seconda repubblica", l'impostazione lussiana reclama tutta la sua modernità e, almeno nella riflessione di molti, rappresenta un implicito rimprovero a quanto è stato fatto, o malfatto, nella realizzazione autonomistica dell'Italia repubblicana. E non solo per responsabilità delle burocrazie ministeriali, ma anche per insufficienza (ed insipienza) degli uomini delle amministrazioni regionali, e spesso o forse sempre perché in quest'Italia in cui Salvemini è il grande dimenticato, non s'è mai dato corso alla riforma delle riforme, che è quella della pubblica amministrazione. Senza la quale vano sarà sperare in stabili avanzamenti dei livelli di efficienza e di equità dell'organizzazione sociale e di rispondenza delle istituzioni politiche […].

Avrebbero meritato un approfondimento - che conto di svolgere con studi successivi - alcuni filoni od oggetti del dibattito pubblico di quei lunghi mesi di inoltro dell'Italia postbellica alla vita repubblicana, in questo libro appena prospettati, come ad esempio la proposta del PSd'A dello statuto d'autonomia per la Sardegna, muovendo dalle prime elaborazioni di Gonario Pinna - una figura straordinaria di militante della cultura federalista e repubblicana che meriterebbe uno studio specifico - ed arrivando al recepimento di quello schema da parte del Partito d'Azione, durante il suo congresso del febbraio 1946 e successivamente, a scissione avvenuta, ed in sede di Assemblea Costituente.

Siamo e restiamo nel solco della riscoperta di quella Sardegna politica di minoranza cui mi sono dedicato ormai da molti anni e che idealmente si ricollega all'indirizzo storiografico che ha avuto in Giovanni Spadolini - lo storico dell'Italia "della ragione", dell'Italia "dei laici", dell'Italia, appunto, "di minoranza" - il suo miglior esponente.

Naturalmente in me quest'area minoritaria, repubblicana ed autonomistica, riformatrice e laica, è rivissuta nella dovizia delle sue potenzialità forse più ancora che della sua effettività; come consapevolezza di un'originalità formulativa volta, patriotticamente, all'arricchimento spirituale, civile e democratico dell'Italia, e non mai chiusa in sé, quasi a voler contabilizzare le differenze, magari etniche e linguistiche, per segnare le distanze se non addirittura le opposizioni nell'oggi e nel prossimo domani politico o costituzionale.

L'ordine nuovo, secondo Cesare Pintus (dal Solco del 21 luglio 1946)

Ci siamo battuti per la Repubblica e per l'Autonomia. Abbiamo la Repubblica ed avremo l'Autonomia: questo è il bilancio della consultazione popolare del 2 giugno, il fatto storico di fondamentale importanza per l'Italia e per la Sardegna.

La cronaca, è vero, ha registrato le manovre inscenate dalle forze reazionarie del clericalismo italiano, in grande stile e con la massima slealtà, per salvare la monarchia. Tutto il clero, dai vescovi all'ultimo parroco di campagna è stato mobilitato nel periodo elettorale e tutti i metodi sono apparsi buoni di fronte alla pretesa santità della causa che esso attendeva, non escluse la diffamazione e la calunnia, armi potenti ed imbattibili in un paese retrogrado come il nostro, dove spesso la bigotteria tiene il posto della devozione e la superstizione sostituisce la fede religiosa.

I padri gesuiti ed i gruppi di Azione cattolica sono stati, come era prevedibile, all'avanguardia di questa crociata in difesa del trono e dell'altare. Ma il trono è caduto, e l'altare non era mai stato minacciato.

La Democrazia Cristiana si è avvantaggiata enormemente della propaganda settaria del clero italiano, che ha fruttato nel contempo alla tesi monarchica dai cinque ai sei milioni di voti, falsando il risultato del referendum istituzionale, perché non vale dire - oggi - che il partito democristiano è una cosa ed il clero e le associazioni cattoliche un'altra. Senza l'appoggio di queste due forze naturalmente coalizzate la Democrazia Cristiana non avrebbe avuto la grande affermazione elettorale; ma se le prime avessero fatta propria la decisione presa dal Congresso nazionale del Partito democristiano in materia istituzionale o, quanto meno, si fossero astenute dalla propaganda monarchica, la Repubblica italiana sarebbe stata proclamata con maggioranza di dieci milioni di voti.

L'amarezza della constatazione non deve farci, però, ritenere che il clero stia per assumere atteggiamenti legittimistici, dal nemico giurato della repubblica.

Nel nuovo stato il clero non tarderà ad acclimatarsi con quello spirito di adattamento che gli è proprio e che gli ha permesso di passare senza gravi sussulti dalle preghiere per il duce alle preghiere per la Costituente.

Alla grande affermazione democristiana hanno anche contribuito il voto alle donne ed un deciso slittamento a destra della media borghesia.

Si possono scrivere degli articoli più o meno brillanti pro e contro il voto delle donne e, sovrattutto, si può discutere - come si è discusso - sulla opportunità della estensione, in un momento particolarmente critico della storia italiana, del diritto elettorale a tutte le donne, senza discriminazioni, quando, per converso, il nostro paese era pervenuto al suffragio universale maschile solo per gradi e non senza aspre contese.

Ma, una volta affermato il principio dell'uguaglianza giuridica dei cittadini, non si poteva contestare alle donne il diritto di partecipare attivamente alla vita politica. La democrazia non è abito che si porti quando fa comodo e si butta via quando non conviene. Bisogna accettare il giuoco, sempre, ed avere fede nell'avvenire.

Molte delle nostre donne, investite da una funzione di alta responsabilità che non era stata preceduta - come nei paesi anglosassoni - da una dura lotta femminista che aveva formato le coscienze e preparato gli spiriti, non hanno avuto il tempo di chiedersi, come si era chiesto Mazzini, se - per avventura - la millenaria inferiorità della donna non scendesse proprio dall'ipotesi biblica della sua creazione successiva a quella dell'uomo e della sua sudditanza, perpetuatasi nei secoli attraverso una politica di privilegio e di pregiudizi. Ed hanno votato per i candidati raccomandati dai parroci.

Il Partito Sardo d'Azione, come ogni altro partito progressista, non può dire che il primo esperimento elettorale femminile gli sia stato favorevole. Le nostre donne, purtroppo, sono state le prime vittime del terrorismo religioso che si è scatenato implacabile in tutti i nostri Comuni. Ma il giuoco potrebbe anche non ripetersi alle prossime elezioni; e più che la nostra propaganda varrà a scuotere il torpore femminile la pura e semplice constatazione che le fosche previsioni del Millennio non si sono avverate, che la Repubblica non è stato un salto nel buio, che la religione è una cosa e la politica è un'altra, se è vero, come è vero, che i migliori alleati dei democristiani nel primo governo della Repubblica sono i comunisti ed i socialisti, i più accesi campioni, secondo la propaganda clericale, di quel materialismo ateo e corruttore che ogni credente aveva il dovere di considerare come il nemico numero uno della morale e della fede.

Il recente risultato elettorale non deve farci dimenticare che il nostro partito è sorto per l'emancipazione di tutti i sardi, uomini e donne; vano sarebbe il parlare dell'emancipazione della donna se la donna non si riconoscesse il diritto di partecipare attivamente alla vita politica della nazione, diritto che costituisce la premessa morale e logica di quella emancipazione.

La media borghesia, tradizionalista e conservatrice, dal 1861 aveva fatto sempre causa comune col partito al potere, in Italia. Cavour, Rattazzi, Depretis, Zanardelli, Giolitti furono i suoi uomini fino al 1922.

Quando il fascismo diventò governo, la media borghesia accettò il fatto compiuto e servì il regime per rispetto alla tradizione.

Dopo il 25 luglio 1943 essa ha vissuto di attesa sperando nell'avvento degli uomini d'ordine, di Bonomi o di Orlando, di Nitti o di Croce. Ma poiché il Partito Liberale non può essere più in Italia un partito di governo, la media borghesia lo ha abbandonato e si è precipitata, un po' più a destra, tra le braccia della Democrazia Cristiana.

Vedremo presto se essa avrà fatto un buon affare; otto milioni e mezzo di voti social-comunisti potrebbero consigliare seriamente alla Democrazia Cristiana l'opportunità di una politica di sinistra, a dispetto della media borghesia italiana, tradizionalista e conservatrice.

Placate le contese e i dissidi, spenta ormai l'eco dei clamori elettorali, possiamo guardare in faccia la realtà, serenamente. Ben ha detto De Gasperi che «la Repubblica diventa». Non si tratta del cambio di un vestito o di una cravatta, ma di una lenta trasformazione di sostanza e di costume politico. I sofisti che fanno ancora una grossa questione sulla formula della proclamazione o sugli emblemi che devono sostituire quelli monarchici non si rendono conto della portata e degli sviluppi inevitabili dell'avvenimento del 2 giugno. Che la Repubblica sia teoricamente lo strumento più perfetto di governo democratico e che essa costituisca il clima ideale per lo sviluppo armonico delle libertà individuali e collettive, non v'è scrittore monarchico che possa contestare.

Ma poiché, da che mondo è mondo, le idee da sole non hanno mai camminato, ma hanno bisogno di uomini che le traducano in operante realtà e le proiettino dal campo dei fenomeni della speculazione pura a quello dei fenomeni delle collettività, è dagli uomini che hanno oggi la ventura di rappresentare il popolo alla Costituente che l'istituzione repubblicana attende il suo felice collaudo.

Le difficoltà sono immense: il paese distrutto, l'economia nazionale in crisi, nemici dappertutto - ad occidente e ad oriente. La Repubblica italiana raccoglie una eredità fallimentare che non trova l'eguale in nessun periodo della nostra storia. Le occorrono uomini di grande equilibrio e di molta onestà, che sappiano fare poche ma savie leggi nelle quali il popolo che lavora - l'enorme maggioranza degli italiani - riconosca se stesso e che consideri come la carta costituzionale dei suoi doveri e dei suoi diritti.

Ai figli e alle figlie del popolo Giuseppe Mazzini nel 1860 dedicò uno dei suoi scritti migliori: «I doveri dell'Uomo». In esso sono racchiuse, in sintesi limpida ed armoniosa, le concezioni del Maestro sui più gravi problemi morali, politici e sociali del secolo scorso; che sono - tuttavia - gli stessi nostri problemi. Non sarebbe male se i legislatori della Costituente rileggessero l'aureo libretto!

Noi risorgeremo rifacendoci alle pure fonti della letteratura politica repubblicana italiana che ha costituito una delle più belle conquiste del pensiero europeo del secolo XIX, e considerando t'esperimento accentratore dinastico come una infausta frattura di quella unità spirituale.

Il Governo ha enunciato un programma di politica estera, interna, economico-finanziaria, sociale, che è un programma di compromesso come di compromesso è la stessa composizione governativa. Ma ha precisato la sua volontà di fondare il nuovo Stato italiano sulle autonomie comunali e regionali, e ciò significa che i quattro partiti al governo hanno fatto proprio il nostro programma: la trasformazione dello stesso su basi autonomistiche.

Che importa se il nostro partito, che ha condotto la lotta elettorale su un piano di grande dignità e di onore, ha mandato alla Costituente due soli rappresentanti - i più degni - se l'idea che essi incarnano ha trionfato? «Non sarà l'Autonomia che noi abbiamo sognato!» sento ripeter da qualche compagno. Anche l'Autonomia, come la Repubblica, non può nascere perfetta, ma ha bisogno della opera assidua degli uomini che, progressivamente, la rendano lo strumento più acconcio della loro rinascita.

Né in Italia, né in Sardegna abbiamo avuto una rivoluzione, dopo la guerra. Esistono fra noi forze conservatrici ostili ad ogni radicale riforma, ed ancora potenti. Queste forze conservatrici non si liquidano con un articolo di giornale, da una maggioranza parlamentare di compromesso, nel contrasto delle ideologie e degli interessi di classe, anche lo Statuto autonomistico sarà uno Statuto di compromesso.


Fonte: Gianfranco Murtas
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