Marcello Tuveri, il gusto della lealtà: per l’autonomia regionale nelle faticose conquiste democratiche e repubblicane della patria italiana (parte quarta)
di Gianfranco Murtas
E’ riconosciuto un competente degli incroci fra giurisprudenza ed economia, fra istituzioni e mercato, con, di più, una preparazione storica che lo aiuta negli inquadramenti. Ecco Marcello Tuveri, quarantenne o poco meno che quarantenne, pensatore critico e coprotagonista della scena sardista negli anni ’60, sino a fine decennio, quando l’unità del Partito Sardo si rompe irrimediabilmente e la corrente nella quale egli si riconosce prende i suoi bagagli e matura la confluenza in un grande (ancorché sempre di minoranza) partito nazionale. S’intenda: il partito “padre” del sardismo perché espressione diretta di quella scuola democratica risorgimentale alla quale il sardismo delle origini si è riferito, nell’abbraccio mazziniano e cattaneano, nel sentimento asproniano e, se si vuole, del filosofo di Collinas. Il partito erede delle fratellanze operaie, primo balzo verso il cantiere del moderno stato sociale. Storia e sociologia, diritto ed economia, nel menu delle letture e negli studi di Marcello entra tutto quanto serva alla sua missione, che è quella di offrire alla Sardegna, per il tramite del partito cui s’è iscritto ancora adolescente, fra gli appuntamenti elettorali delle politiche del 1948 e delle regionali del 1949, un contributo qualificato.
Forse non ha ancora letto le pagine di quel poligrafo vocazionale, e profondo, che risponde al nome di Egidio Pilia, scomparso ormai da dieci anni quando Giovanni Battista Melis e Luigi Oggiano (con Pietro Mastino) entrano in parlamento, chi a Montecitorio e chi a Palazzo Madama. Non ha ancora letto, con ogni probabilità, niente o quasi niente di quell’autore di saggi importanti del quale un giorno sposerà la figlia, facendo con lei famiglia. Forse non ha letto ancora niente di Egidio Pilia, al quale dedicherà, nell’autunno della propria vita, una appassionata e complessa biografia, ma pare che con la sua personalità egli sviluppi una sorprendente e precoce affinità elettiva, tanto da potersi in lui specchiare, e specchiare nella definizione che Pilia ancora giovane ha dato di se stesso: «ho affilato il mio spirito sul laminatoio del dovere e del dolore che l’han reso forte e diritto»…
Sì, forse non ha letto ancora Pilia, delle cui opere invece sarà divoratore negli anni avvenire. Ma di lui, dell’avvocato ogliastrino che era stato filosofo e storico e critico letterario e di base giurista, sentirà, forse con il tempo sempre più, di dover riprendere gli spunti elaborativi, tanto più quelli volti a trovare risposta – la risposta del “come” – al bisogno di autonomia della Sardegna, autonomia istituzionale all’interno della grande patria italiana, nella dialettica anche con un certo spirito nazionalitario, d’orgoglio isolano che non merita certamente demonizzazioni ma che va saggiamente storicizzato perché si proponga, in positivo, come fattore od elemento della nuova storia. Esattamente come anche Camillo Bellieni ha fatto.
Dunque s’è visto, Marcello Tuveri nel novero dei contestatori di una dirigenza sardista fattasi, ai suoi occhi, consorteria – virtuosa certamente nella pratica personale dei singoli, ma non di meno ingessata ed a rischio di asfissia per l’insufficienza del ricambio – e più ancora attivo nel contrasto alle pulsioni tendenzialmente separatiste, o indipendentiste (nel riparo delle categorie federaliste che derubricano l’appartenenza italiana, politica e anche culturale, nel maggior bacino continentale europeo e mediterraneo), introdotte nel Partito Sardo da Antonio Simon Mossa. Pulsioni e suggestioni che sostituiscono radicalmente le memorie storiche del partito e cambiano radicalmente il senso della missione sardista e dunque le prospettive o gli obiettivi del PSd’A. Non c’è più il sardismo anima con altre anime del movimento di Giustizia e Libertà e dell’antifascismo italiano già alle prove in Spagna, il sardismo sociale – non socialista – che era stato negli anni ’20, quando La Voce dei combattenti e Il Solco si riempivano del catechismo mazziniano e la dirigenza cercava stabili rapporti con gli “italianisti” di Molise o Lucania o d’altrove, il sardismo che con l’azionismo aveva comunque intrattenuto un rapporto, pur anche complicato, ma necessario e fecondo pensando a Fancello e Siglienti, non soltanto a Lussu, negli anni della lotta, anche militare, alla dittatura… Non c’è più neppure l’anima inquieta ed eterodossa, dottrinaria socialista di Lussu post-1944, né l’anima pragmatica e impegnata nel governo romano di CLN e nell’Assemblea Costituente con Pietro Mastino (oltreché con Lussu) e nel primo parlamento con Melis, né quella affacciata nel Solco del 1945 da Sardo Patore alias Luigi Battista Puggioni di matrice salveminiana e neppure quell’altra innovatrice e colta recata nel tempestoso quinquennio 1944-1949 da Gonario Pinna…
Il sardismo nuovo proposto da Antonio Simon Mossa con tutte le sue fascinazioni e cui non sa (o non vuole) ribattere una dirigenza che pure s’è nutrita di ben altra cultura che non con quella dell’architetto algherese – dico sempre degli avvocati nuoresi e dico anche di Anselmo Contu, di Pietro Melis, di Piero Soggiu, di Bartolomeo Sotgiu ecc. – infine riesce nel suo scopo ottenendo che alcuni postulati della propria tavola politica entrino direttamente nel nuovo statuto del partito votato al congresso del marzo 1968.
La tribuna negata ad Armando Corona, esponente della minoranza dichiaratasi estranea appunto a quel congresso da essa definito «convegno di corrente», «convegno della maggioranza» ha radicalizzato la situazione: la direzione nazionale repubblicana ha fatto proprio il giudizio espresso dalla dirigenza regionale (in testa Bruno Josto Anedda e Lello Puddu) circa le conclusioni di quell’assemblea dei delegati riunitasi nei locali della Fiera cagliaritana, anticipando la indisponibilità al rinnovo del patto elettorale stipulato nel 1963; buona parte di coloro che, nella dirigenza sardista, associano alla contestazione dei nuovi indirizzi politici un importante personale peso elettorale, decidono di candidarsi nella autonoma lista del PRI. Da qui la loro espulsione dal PSd’A e da qui anche, qualche mese dopo, la scissione del gruppo consiliare insieme con la costituzione del Movimento Sardista Autonomista “per una democrazia di base”: una formazione di fatto partitica alleata dei repubblicani e con previsione di confluenza nel partito dell’Edera.
Marcello Tuveri è, in pieno, della partita. Presente più spesso dietro le quinte, ghost-writer di taluno dei maggiori offertosi alla rappresentanza passando quindi per i turni elettorali ora di tono politico (regionali 1969, e dunque leggi Armando Corona) ora di tono amministrativo (comunali e provinciali 1970)… La sua storia politica nel triennio circa 1968-1971 si svolge tutta all’interno del MSA e, dal marzo 1971, all’interno del Partito Repubblicano Italiano. Andrebbe però anche soggiunto che la nomina, per concorso, a direttore generale dell’ARST, nel 1971, limiterà ancor più, e per diversi anni, il protagonismo politico del Nostro, sia per opportunità connesse al suo ufficio sia anche per intervenuta mancanza… di tempo ed energie data la gravosità dell’impegno manageriale assunto. Lo si troverà più direttamente impegnato a partire dal 1976, quando accetterà di entrare nella direzione regionale repubblicana, a conclusione del congresso celebratosi a Cagliari nell’autunno di quell’anno.
Varrà allora ricordare che proprio dal 1976 riprenderà, piuttosto intensa, anche l’attività pubblicistica, più spesso fra le colonne de L’Unione Sarda: si potrebbero menzionare, fra i primi articoli di quella stagione (anche in prima pagina, ma poi anche nella “Tribuna libera” e nella terza delle recensioni librarie): “Il nocciolo della riforma” (riferito alla Regione entrata nei patti della “unità autonomistica”), “Le Province sotto accusa”, “Ferrovie parlamentari e autostrade politiche”, “Fondo trasporti e realtà regionali”, “Un’isola vista dall’autobus: i trasporti in Sardegna in un libro di Elettrio Corda”, “Il dissenso degli impiegati: in una rigorosa monografia edita dal Mulino, Guido Melis ricostruisce le letto e le vicende dei dipendenti pubblici negli anni dell’Italia librale”, “Il dirigente in radiografia: guida e organizzazione delle aziende”, “Quel patto fra Regione e sindacati”, ecc. Chiare le tematiche di suo maggiore interesse: dalle istituzioni ai servizi pubblici di trasporto, dalla programmazione al ruolo sindacale, ecc.
Nel novero meriterebbe anche citare un importante saggio dal titolo “Una Regione da riformare” uscito sul n. 26 del marzo 1977 di Nord e Sud, il celebre ed autorevole periodico diretto da Francesco Compagna (saggio poi ripreso da L’Amministrazione locale in Sardegna, la “rassegna trimestrale di problemi amministrativi” curata da Bruno Arba: cf. n. 2 dell’aprile/giugno 1977).
Riprendere, sia pure a volo d’uccello, qualche passaggio della “cronaca di vita” del Movimento Sardista Autonomista e della militanza regionale nel Partito Repubblicano Italiano (così fino al 1976) – traendolo magari da una assai più corposa storia alla cui stesura mi dedicai anni addietro e tuttora inedita – pare un modo, qui, di dare onore ad una soggettività democratica di prim’ordine ed in essa si vedrà, sia pure con qualche iniziale parsimonia, la presenza intelligente e colta di Marcello Tuveri.
Pensare sardo in Italia ed italiano in Sardegna
Peraltro credo fortemente sia utile, e come anticipando la narrazione dello sviluppo politico che avrà per protagonista la corrente dissidente del Partito Sardo d’Azione di cui Marcello è, per tanti aspetti, uno dei maggiori ispiratori, cogliere in alcuni suoi articoli usciti su La Voce Repubblicana nel biennio 1966-1967 quel tanto di assolutamente peculiare e moderno che accompagnerà l’intera operazione di contrasto ai nazionalitari e infine di uscita dalla militanza nei Quattro Mori. Potrebbe dirsi così: quell’intuizione che nel 1921, a pochi mesi dalla fondazione del partito, aveva indotto Francesco Fancello insieme con Camillo Bellieni ed altri a sostenere il progetto di un patto federativo fra sardismo e combattentismo molisano, tanto da originare quel Partito Italiano d’Azione avente consiglio federale nella capitale, e che una qualche replica aggiornata aveva avuto nel 1944 con le intese con il Partito d’Azione di Lussu, Parri e La Malfa, trovava in un nuovo scenario – verso la fine degli anni ’60 – possibilità attuative inedite e straordinarie. E Marcello Tuveri con i sardo-autonomisti, sia pure essi con sensibilità differenziate, cercò di dare ad esse il meglio delle proprie risorse intellettuali e civili.
Fancello, cioè Cino d’Oristano, aveva dato alle stampe, nel 1921, un certo suo opuscolo dal titolo Le autonomie regionali e la riscossa dei contadini, e fin dalle prime pagine aveva definito il quadro ideale, etico-civile, politico e sentimentale nel quale egli collocava quel Partito Italiano d’Azione vissuto, all’indomani della fine della grande guerra – e dunque nello scenario di un’Italia ancora rurale –, come proiezione nazionale del sardismo: «La solidarietà nazionale è un fatto indiscutibile, cosicché la sorte dell’Italia tocca da vicino tutti i suoi cittadini».
Nel 1944 ancora lui aveva pubblicato il fascicolo Il Partito d’Azione nei suoi metodi e nei suoi fini e della stretta, intima e necessaria relazione del sardismo con il Pd’A coinvolto nelle politiche del CLN e nella resistenza antifascista e antinazista, aveva parlato, insieme con Stefano Siglienti, al VI congresso – il congresso della ripresa – convocato a Macomer dalla risorta dirigenza sardista. Pensare italiano non significava soffocare il bene sardo, al contrario, e nella dialettica politica e anche istituzionale della nuova Italia che ancora non era uscita dalla guerra e che ancora non era repubblica, doveva entrare la riflessione autonomista propria del Partito Sardo d’Azione.
Quasi un quarto di secolo dopo quel 1944, nel quadro dell’alleanza con i repubblicani – memori tutti della lezione mazziniana e cattaneana – il motivo ritornava e ad offrirne lo spunto era la politica di programmazione economica lanciata dal PRI e dal suo ministro del Bilancio (IV governo Fanfani, febbraio 1962-giugno 1963) che nella stagione del primissimo centro-sinistra tanta parte aveva avuto nella nuova modulazione legislativa della Rinascita sarda; e con la programmazione già in sperimentazione era la prospettiva dell’attuazione costituzionale in materia di regioni (legge 16 maggio 1970 n. 281). Stavolta era Marcello Tuveri a portare il sardismo più maturo e responsabile nel cuore della rappresentanza e delle istituzioni nazionali ed a trovare conferme ai nessi necessari fra l’esperienza regionale sarda e la nuova politica economica programmata sostenuta dalla nuova formula governativa.
Ecco dunque Tuveri autore di svariati e corposi interventi su La Voce Repubblicana: testata che vale non soltanto come giornale di partito – del partito alleato dei sardisti nella quarta legislatura – ma qui soprattutto da cogliersi come giornale di ribalta nazionale, i cui testi erano sovente ripresi dalle agenzie di stampa e circolavano nelle più varie e accreditate sedi di discussione.
Sono almeno quattro gli articoli che, a firma del Nostro, meritano di essere ripresi perché recano molto anche della esperienza professionale, maturata nel Centro di programmazione regionale, oltreché della sua sensibilità e cultura politica e certamente riflettono con competenza (ed orgoglio regionalista) l’istanza che il PSd’A sa e può presentare alla politica italiana nel nuovo incontro fra istituzioni “in riforma” e promozione economico-sociale. Il primo (“Con la Repubblica l’autonomia in Sardegna: l’esperienza ventennale delle Regioni a statuto speciale”) esce nel supplemento speciale de La Voce che il 2 giugno 1966 celebra il ventennale della scelta referendaria repubblicana; il secondo (“Regioni e programmazione” – impaginato come editoriale – e, nella seconda parte, “L’articolazione del piano: Regioni e programmazione”) esce nella sequenza temporale 11.12 e 12.13 luglio 1967; il terzo (“Stato e Regioni nella programmazione”) ed il quarto (“Scarsa in Sardegna l’accumulazione dei capitali nonostante gli investimenti e gli incrementi del reddito”) appaiono nel voluminoso inserto “Le regioni e la programmazione” diffuso con il giornale del 29.30 dicembre 1967.
Ecco di seguito i vari, interessantissimi contributi che, come accennato, e tanto per la intensità argomentativa quanto per il numero, paiono ricollegarsi idealmente alla produzione pubblicistica di Marcello degli anni 1960-62, fra Il Bogino e Il Mondo, Sardegna oggi e Ichnusa.
Su “La Voce Repubblicana”, 1
“Con la Repubblica l’autonomia in Sardegna: l’esperienza ventennale delle Regioni a statuto speciale”
Il binomio Repubblica ed Autonomia costituì per le forze politiche più avanzate della Sardegna il punto centrale della battaglia che precedette e seguì il 2 giugno 1946. La lotta per una democrazia progressista trovò negli autonomisti sardi i naturali e più intransigenti sostenitori della Repubblica. La incertezza dei moderati e la avversione dei movimenti politici di destra si incentrò tutta sui rischi del “salto nel buio” che l’ordinamento repubblicano e la struttura regionalistica avrebbero rappresentato. Autonomia e Repubblica, per i sardisti e per quei gruppi che negli altri raggruppamenti politici ne avvertivano la validità della proposta, erano un modo nuovo di considerare i rapporti tra lo Stato ed i cittadini. Per le forze monarchiche e di destra la soluzione repubblicana e regionalista, al di là delle fandonie rettoriche sull’unità della Patria, era un fenomeno di debolezza dello Stato.
Il confronto tra repubblicani-autonomisti e monarchici-antiregionalisti era così chiaro e preciso nella sua durezza che i partiti politici, venuti alla ribalta dell’Isola nel secondo dopoguerra (come il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana), non compresero il complesso dei valori in gioco. Passato e presente si fronteggiavano in quella occasione, continuando la battaglia democratica del Partito Sardo d’Azione del primo dopoguerra e più in là, gli sforzi di quelle élites illuminate (Tuveri, Asproni) del secondo risorgimento che, assieme a Mazzini e Cattaneo combattevano per il progresso della Sardegna come fatto nazione inscindibile dai problemi del rinnovamento dello Stato. Il confronto era un’occasione in cui si riproponevano gli antichi termini del rapporto tra società sarda e comunità nazionale, poteva essere avvertita solo dalle forze che affondavano le radici nella coscienza di un passato di contrasti profondi ed inconciliabili.
Il Partito Sardo d’Azione sacrifica certamente alla lucidità dell’istanza repubblicana alcune frange separatistiche che vagheggiavano unioni personali con la Corona e che esprimevano posizioni di estrema destra. Chi ha vissuto il 2 giugno in Sardegna, che è l’unica Regione in cui ad alcuni Consiglieri del Re di Maggio poteva apparire organizzabile una Vandea, sa quale significato ebbe la scelta repubblicana. Il risultato era tanto più importante quanto più incerta nell’ambito regionale appariva la lotta. Basterà dire che solo pochi esponenti democristiani dichiaravano espressamente la propria convinzione repubblicana e pochissimi la propagandavano. Liberali e qualunquisti sardi erano per la monarchia. La estrema sinistra appare assai poco impegnata nella battaglia sia perché considerava scontato nazionalmente il risultato e soprattutto perché riteneva marginale l’impegno locale sul problema istituzionale in rapporto ai principi della lotta di classe che le facevano apparire imminente la presa del potere.
Tiepidezza repubblicana e avversione alla autonomia regionale con confuse argomentazioni circa la necessità di non consentire che un regime autonomista attenuasse l’effetto della Resistenza, furono i dati più sconfortanti di quella vigilia di scelta.
Anche se la Regione Autonoma della Sardegna anagraficamente nascerà tre anni più tardi, con l’elezione del primo Consiglio regionale, la sua legge fondamentale, lo Statuto Speciale, è parte viva di quella Costituzione che gli italiani decisero di darsi il 2 giugno 1946.
Ordinamento repubblicano e regime autonomistico per l’isola furono frutto di uno sforzo di integrazione democratica della società regionale in quella nazionale.
I cenni che abbiamo fatto al clima di vent’anni fa non possono avere un valore di rievocazione celebrativa. Bisogna cercare di cogliere il risultato pratico di quella scelta, cioè quale forza innovativa abbia mantenuto negli anni seguenti ed attribuire ad essa una precisa cifra di attualità per il presente e di validità per il futuro.
L’esperienza autonomistica sarda può fornire qualche indicazione utile ad una corretta considerazione d’insieme. Ci pare importante a questo fine premettere che l’ordinamento repubblicano deve ancora realizzarsi compiutamente, e l’urgenza dei problemi dello Stato nel nostro tempo attesta la mancata attenzione della Costituzione. Non diversamente, i rapporti tra quell’ordinamento e la Regione sono lontani dall’avere assunto la nuova forma che i sardi più avanzati desideravano. La veste repubblicana dello Stato ha influito sì in maniera decisiva ma troppo discontinua nella considerazione dei problemi della Sardegna. L’affievolirsi della sensibilità per le questioni del Mezzogiorno e la mancata realizzazione dell’ordinamento regionale fanno tutt’uno con la compressione delle potestà della Regione Sarda e con l’accrescersi di remore e diffidenze verso l’esercizio delle sue funzioni.
Nella vita di ogni istituzione politica vi sono momenti di maggiore o minore convergenza tra governanti e governati e situazioni di totale divergenza tra il modo di intendere i problemi da parte dei due gruppi. Orbene, la Regione ha certamente ampliato la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica aumentando la sfera del pubblico intervento, assumendo la tutela di interessi ignorati dalle strutture centrali, stimolando nuove iniziative, promuovendo una più generale conoscenza dei problemi locali e delle loro soluzioni.
La prima fase di organizzazione della Regione fu certamente assai difficile per l’ostilità delle strutture preesistenti verso un nuovo ente di origine così tipicamente “politica”.
Fu il periodo, però, in cui si predisposero i primi e forse più coraggiosi atti legislativi regionali (disposizioni a favore delle cantine e dei caseifici sociali, interventi per alleviare la disoccupazione, lotta contro il monopolio elettrico con la creazione di un ente di elettricità che anticipava la gestione pubblica di quell’energia e preparava la industrializzazione).
Ma il lungo e duro braccio di ferro che si apriva con il Governo Centrale doveva, dopo alcuni anni di fervida partecipazione sardista alle Giunta regionali, indurre la Democrazia Cristiana ad un capovolgimento verso destra del proprio indirizzo.
Governi monocolori con appoggio esterno delle forze di destra e Giunte regionali tecniche erano l’alibi per una maggiore arrendevolezza verso il centro e per una politica di ordinaria amministrazione all’interno.
Dal 1952 al 1957 l’attività amministrativa, connessa, per intenderci, prevalentemente alla erogazione di sussidi, premi, contributi, mutui di favore ecc. fu decisamente preminente. Le Giunte regionali sdraiate a destra rappresentavano un periodo di sostanziale regresso della autonomia e della volontà di rinnovare la società sarda attraverso questo strumento. Frattanto negli organi dello Stato era ripresa in pieno l’avversione verso gli istituti autonomistici: la Corte costituzionale incominciava, dapprima timidamente, poi con sempre più chiara vocazione, a considerare, per dirla in breve, l’unità dell’ordinamento la regola, l’autonomia è l’eccezione. Così venne vietato alla Regione ogni intervento nella sfera dei diritti soggettivi privati, la possibilità di munire di sanzioni penali le sue leggi, fu circoscritta in modo assai rigoroso alle materie di competenza esclusiva la possibilità di stabilire nove regole, eccetera.
Successivamente, con la creazione delle prime Giunte con programma di centro-sinistra, si cercò di aprire un varco nell’immobilismo regionale.
La richiesta del Piano di Rinascita della Sardegna assunse un significato nuovo di esperienza avanzata di programmazione regionale ed insieme di un nuovo modo di ricercare un incontro non più occasionale e caritatevole tra la Sardegna e l’intero Paese. Non a caso l’idea del piano di sviluppo espressa nella “nota aggiuntiva” di La Malfa coincide con l’approvazione della legge statale che prevede un Piano di Rinascita economica e sociale dell’Isola e con la quale si stabiliscono forme di combinazione delle volontà statuale e regionale, inusitate per la tradizione centralistica del nostro Paese.
La nuova fase apertasi allora non si è ancora chiusa. Anche se all’impegno per la conquista del Piano non ha corrisposto una pari possibilità di realizzazione, sembra finalmente rotto il blocco politico che vincola la Regione a ricevere tutto dall’esterno, dal finanziamento alla direttiva, dalla capacità imprenditoriale alla decisione organizzativa. Certo la programmazione costituisce indubbiamente un fatto talmente innovativo da scombinare tutte le strutture preesistenti e lo scarso successo iniziale della logica del coordinamento tra i diversi centri di potere è un dato essenziale della realtà.
Frattanto lo sforzo in atto ha provocato l’allargamento della base del Governo, dal centro-sinistra programmatico si è passati al centro-sinistra organico con la partecipazione dei socialisti oltre che dei sardisti e dei socialdemocratici al governo della Regione.
Autonomia e Repubblica sono dunque realtà del nostro tempo. Lo slogan sardista-repubblicano del 1946 ha dato una qualificazione ai quattro lustri di storia passata. La Regione e lo Stato sono di fronte ora a nuovi impegni: l’ammodernamento delle loro strutture, la conduzione di una politica di sviluppo, la programmazione democratica.
Molti interrogativi si affacciano nella situazione attuale; ma per le stratificazioni eliminate, la volontà di perseguire una politica che dia al Pase un assetto civile e moderno ha maggiori possibilità di affermazione.
Su “La Voce Repubblicana”, 2
“L’articolazione del piano: Regioni e programmazione”
Il binomio Regioni e programmazione sembra abbia esaurito la sua carica positiva da alcuni anni. Certamente non ha giovato all’attualità politica delle implicazioni che esso poneva, specie all’inizio degli anni sessanta, il lungo e tormentato cammino che ha subito il programma economico nazionale e l’assenza di una politica di piano, anche se siamo in presenza, oggi, di un atto-piano a metà strada dalla sua definitiva sanzione. Si è aggiunto, a questo affievolimento di interesse, il venir meno delle tensioni meridionalistiche che ha accentuato indirettamente l’indifferenza verso la dimensione regionale dei problemi economico-sociali ed ha stimolato anche i più avvertiti osservatori ad una sorta di difesa ad oltranza del Sud come fatto unitario dell’intera area. Il che non consentirebbe per l’economia degli sforzi, “divagazioni” regionalistiche.
La battaglia per le Regioni, veramente, ha assunto negli ultimi tempi, specie ad opera del PRI, una svolta concreta nel senso che si è cercato di apprezzare criticamente la struttura di quelle ordinarie da costituire, ponendola in rapporto ad alcune modificazioni nell’ordinamento delle provincie. Per almeno una di quelle esistenti, la siciliana, sono state proposte modificazioni ispirate a criteri di maggiore funzionalità sulla scorta delle infelici esperienze passate. Ma la discussione su questi temi è parsa ispirata al principio di separazione tra i due istituti fondamentali per la vita interna della società italiana: la programmazione nazionale e le Regioni. Non si è tenuto conto sufficientemente della circostanza che entrambe le riforme di struttura (se, come speriamo, la programmazione sarà una riforma) hanno obiettivi sostanzialmente comuni: un processo più accelerato dello sviluppo economico e sociale del Paese e una razionale organizzazione delle sue strutture civili che diminuisca quel grado di “divergenza” che va sempre più esasperandosi, tra cittadini e poteri pubblici.
Va da sé che questo divorzio tra aspetti istituzionali e aspetti economici ha investito soprattutto i rapporti tra programmazione nazionale globale e l’azione delle Regioni. Solo in parte, e nei limiti che vedremo, la programmazione regionale e le Regioni hanno interessato la pubblicistica nazionale, giacché la regola per cui «ciascuno programma secondo i propri fondi e le proprie competenze» non è stata che parzialmente incisa dai fatti in corso.
Orbene, nel momento in cui la battaglia per le Regioni sembra uscire dal mito e la programmazione assume una veste formale concreta, con la prossima approvazione del programma al Senato, si deve ancora constatare che i due termini del binomio non sembrano sufficientemente integrati. Se si escludono alcuni vaghi cenni ai compiti nuovi che la programmazione comporta per le Regioni istituende; la critica a quegli incredibili strumenti della programmazione che sono i Comitati regionali per la Programmazione; l’avvertenza del ritorno, attraverso le norme sulla programmazione, di un virulento tentativo di riproporre in termini centralistici il problema dell’equilibrio politico tra il potere centrale e quello periferico dello Stato, il quadro delle interdipendenze sembra tutt’altro che chiaro, non solo nella opinione pubblica corrente ma anche in taluni atti di governo su cui varrà la pena di soffermarsi.
Senza voler anticipare conclusioni riteniamo si possa riconoscere, in modo intuitivo, che la Regione è vista essenzialmente, se non esclusivamente, anche dalle opposizioni di sinistra, come un congegno per la estensione democratica della sfera di autorità e la programmazione, nella migliore delle ipotesi, come un meccanismo per dare ordine e offrire una risposta ad un’esigenza di razionalità del nostro tempo, della nostra società nazionale.
Le Regioni, ed il riconoscimento ad alcune di esse di un regime speciale lo dimostra, fin dalla loro “invenzione” all’Assemblea costituente, erano, in verità, tutt’altra cosa. Non solo strumenti di maggior democratizzazione politica ed amministrativa dell’azione pubblica (attraverso l’adeguamento della legislazione centralistica), ma mezzi per realizzare un riequilibrio delle risorse, autentici correttivi del meccanismo di mercato che aveva provocato la divisione del Paese in due tipi di economia. Si desiderava, in altre parole, incidere, attraverso l’istituto regionale, nelle condizioni di partenza di alcune di esse onde eliminare determinate strozzature, di natura prevalentemente geo-economica e geo-politica, alle loro capacità di sviluppo. Norme come l’articolo 119 della Costituzione che prevede, per la valorizzazione, particolarmente del Mezzogiorno e delle Isole, l’assegnazione di contributi straordinari; come l’art. 38 dello Statuto siciliano con il suo piano di solidarietà nazionale e l'art. 13 dello Statuto sardo sul piano di Rinascita della Sardegna, sono riprove non irrilevanti di questo disegno strategico costituzionale.
L’ampiezza delle competenze in materia economica riconosciute alle Regioni è un’altra conferma di questo indirizzo. Meridionalismo e regionalismo, che costituirono per molto tempo due facce di una stessa medaglia con cui si intendeva rimediare alla storica incuria dello Stato per le regioni più depresse, diedero una spinta politica decisiva verso l’assetto della Repubblica, stabilito nel titolo V della Costituzione.
Certo il senso di queste premesse che fanno dell’Istituto regionale uno strumento particolarmente sensibile verso i problemi economico-sociali delle comunità consentendogli di intervenire in maniera precisa ed esauriente in molti campi ov’è palese l’insufficienza dello Stato, è andato perdendosi, come si diceva, in questi ultimi anni. Le cause di questo calo verticale dell’interesse verso la Regione come ente economico sociale sono facilmente identificabili in due tendenze distinte che l’esperienza delle Regioni a statuto speciale ci ha rivelato. Da un lato la compressione delle competenze legislative regionali esercitate dagli organi di Governo (sotto la spinta dell’alta burocrazia centrale) e di taluni organi supremi dello Stato come la Corte Costituzionale che hanno indiscriminatamente applicato il principio che in Italia l’unità (intesa come uniformità dell’ordinamento), è la regola, mentre l’autonomia (e la sua articolazione normativa) è l’eccezione, ha frustrato ogni tentativo di modificare l’ambiente regionale. E d’altro lato sotto questo ritorno centralistico le Regioni, in ispecie quella siciliana, sono state ridotte ad esercitare compiti prevalentemente assistenziali (erogazione di contributi, mutui, spese per infrastrutture etc.) in quanto ogni possibilità di trasformare le strutture economico-sociali veniva e viene loro sistematicamente preclusa. Si spiega, così, almeno in parte, come le Regioni a regime speciale nate come strumenti di rottura di un tradizionale modo di intendere i rapporti tra amministrazione e cittadini, siano state costrette ad adagiarsi negli usuali schemi del burocratismo, capace di produrre atti giuridici ma non di stimolare o gestire fatti economici e direi a farsi riassorbire nel vecchio tessuto sociale che dovevano trasformare. La loro ridotta capacità di indirizzo nei fatti economici le hanno costrette a tali forme di impotenza che hanno finito per favorire il loro risucchio nelle tendenze clientelari. Da enti per lo sviluppo economico e sociale si sono trasformati in enti di assistenza sotto la più varia specie e forma. L’oppressione centralistica e le diffidenza puntigliosa verso ogni iniziativa regionale hanno generato una sorta di fuga dalle responsabilità istituzionali, alle quali solo un corretto modo di intendere la programmazione economica avrebbe potuto riportarle.
Il lungo ed estenuante dibattito sulla pianificazione aveva indubbiamente, almeno nelle propensioni manifestate da molti uomini di cultura, fatto pensare ad una nuova attualità dell’istituto regionale.
La sinistra democratica aveva avvertito, all’inizio degli anni sessanta, come la politica di programmazione comportava che l’accento venisse posto sugli elementi per così dire di carattere orizzontale, invece che sul modello verticalizzato e settoriale dell’organizzazione ministeriale dello Stato; ed aveva proposto che la programmazione nazionale si legasse con un «motivo dialettico verso gli interessi regionali e verso l’impostazione regionale dei problemi» perché la programmazione divenisse «un fatto concreto e reale» (La Malfa, 1962).
L’integrazione del piano economico nazionale con il piano economico regionale veniva sostenuta per la duplice funzione che a quest’ultimo veniva affidata: a) di far valere, in sede di programmazione nazionale le esigenze e le possibilità di sviluppo locale e b) di svolgere e applicare localmente il piano nazionale.
Era ed è un modo nuovo di interpretare quella «sapiente previsione della Costituzione» che sono le Regioni. Di questi indirizzi, che siglavano la programmazione col carattere democratico in quanto accrescevano la partecipazione dei cittadini, e di efficienza, in quanto evitavano che l’azione pubblica avesse a girare a vuoto, cosa è rimasto nei documenti della programmazione economico-nazionale e nelle leggi sulla programmazione?
Il programma di sviluppo economico per il quinquennio 1966-1970, già approvato dalla Camera ed ora in discussione al Senato, contiene importanti riferimenti all’organizzazione della programmazione. Gli organi della programmazione, l’assetto istituzionale dei soggetti protagonisti della medesima e una serie di prescrizioni per ristrutturare l’ordinamento amministrativo statale e costituiscono le prime indicazioni di riforma contenute nelle linee generali del programma, mentre un altro gruppo di indirizzi pre-legislativi (assetto urbanistico, riordinamento finanza pubblica, riforma dei codici, etc.) sono previsti in altre parti del documento. E’ doveroso rilevare come, contravvenendo quasi ad una tradizione del Paese, i problemi relativi alla priorità del momento organizzativo hanno ricevuto una attenzione considerevole. Una volta tanto si è avvertito che la programmazione, essendo destinata ad incidere sulle strutture dello Stato, esige importanti revisioni del modo di proporsi del rapporto autorità e libertà e quindi nuove forme di partecipazione dei gruppi economico-sociali alla elaborazione delle decisioni. E’ singolare il fatto che la definizione legislativa dei problemi organizzativi è stata proposta, almeno in parte, contemporaneamente alla discussione del documento contenente il programma economico. Così è accaduto che la legge sulle “Attribuzioni e l’ordinamento del Ministero del Bilancio e della Programmazione economica e l’istituzione del Comitato Interministeriale per la Programmazione economica” è stata approvata mentre il programma attendeva ancora d’essere approvato ed il governo ha provveduto, frattanto, a presentare al Senato il secondo provvedimento importante relativo alle procedure per la programmazione nazionale mentre lo stesso testo del programma di sviluppo economico è ancora in corso di esame. E’ appena il caso di avvertire, per chiarezza, che il testo del disegno di legge “Norme sulla programmazione economica” (n. 2085 Senato), sul quale dovremo soffermarci principalmente, è rivolto a disciplinare i meccanismi di predisposizione e di approvazione del prossimo programma.
In questo sistema di atti rivolti a regolare l’organizzazione della programmazione, quale ruolo è stato riservato alle Regioni? Il programma di sviluppo è giunto al Senato accompagnato da un disegno di legge che in uno dei suoi tre articoli stabilisce, con enfasi insolita, che le modalità e le procedure per la programmazione saranno fissate «nel rispetto delle competenze e dei diritti costituzionali delle Regioni». Una prescrizione così importante, come quella dedicata appunto alle competenze ed ai «diritti costituzionali» delle Regioni – anche se il suo contenuto non va oltre la riaffermazione ovvia dell’osservanza di una certa parte della Costituzione, sembra ispirata dal desiderio della Camera dei Deputati di riequilibrare certi contenuti che nel documento marginalizzano il ruolo delle Regioni istituzionalizzate.
L’articolazione regionale del programma nazionale è stata affidata al meccanismo di “disaggregazione” del piano nazionale, nel senso che una volta fissati al centro certi obbiettivi le regioni esistenti ovvero, in loro assenza, i comitati per la programmazione economica dovrebbero procedere all’adeguamento delle ipotesi di sviluppo stabilite per tutti, alle condizioni economico-sociali. Sulla validità o meno del metodo, che è in corso di applicazioni in Italia, non è il caso di soffermarsi. L’idea di un piano paracadutato dall’alto non sembra rispondente ad una struttura democratica e policentrica quale è quella stabilita dalla Costituzione, né sembra coerente all’estrema varietà delle condizioni economiche del territorio nazionale.
Pare opportuno sottolineare che, sin dal primo documento presentato dal Ministero Giolitti, l’intervento delle Regioni appariva prevalentemente connesso alla soluzione dei problemi urbanistico-territoriali, mentre il ruolo delle medesime veniva trascurato nel momento della determinazione delle finalità generali, degli obiettivi e persino delle politiche di settore. Quanto sia discutibile la separazione tra aspetti economico-sociali ed aspetti urbanistici ed artificiosa una diversificazione di compiti rispetto a momenti decisionali legati da inscindibili rapporti di interrelazione è intuitivo. La maggior parte della cultura urbanistica italiana ha confermato che proprio la dimensione regionale costituisce l’incontro ottimale tra aspetti economici e problemi del territorio. Ma vi è di più, il programma, nella sua prima stesura, recava una serie di indicazioni programmatiche relative alle Regioni a statuto speciale che, sulla base delle indicazioni fornite dalle stesse Regioni, contenevano considerazioni su alcuni problemi di ordine generale propri di questo ultime. Tale appendice è sparita nel testo Pieraccini.
Orbene se l’omissione di certe particolari proposizioni per le Regioni a regime ordinario si giustifica per la loro assenza nella struttura dello Stato, la sparizione delle sia pur schematiche considerazioni a proposito delle Regioni esistenti si spiega molto chiaramente. Qualunque contributo che non derivi direttamente dalle scelte fondamentali del programma nazionale viene considerato fattore di dispersione. E ciò in coerenza appunto con l’idea che le Regioni hanno solo compiti di ricavare da un atto, posto centralisticamente, ogni loro possibilità operativa in materia di programmazione.
Un’impostazione più corretta avrebbe potuto e dovuto fondarsi sul presupposto che le Regioni sono soggetti costituzionali compartecipi dell’indirizzo generale della politica economica dello Stato.
Il programma nazionale non doveva limitarsi, sotto questo aspetto, ad una semplice ricognizione di singole autarchie regionali ma non poteva essere ristretto da semplici rapporti di discendenza gerarchica.
La qualificazione di Stato regionale attribuita alla Repubblica italiana, comporta infatti che ogni aspetto della programmazione, in quanto metodo di gestione del potere pubblico, richieda la partecipazione delle Regioni dalla formulazione delle direttive, alla elaborazione del programma, all’approvazione e giù giù fino alla attuazione ed esecuzione. Questa prospettiva sarebbe apparsa quella giusta ove si fosse voluto superare il modo tradizionale di vedere enti locali e Stato in un rapporto perennemente conflittuale, di contrapposizione di fini e scopi, per avviare un processo di integrazione e di complementarietà delle strutture. Si è voluto invece proseguire sulla strada della nella separazione delle competenze e della distinzione gerarchizzata delle funzioni.
Una conferma del fatto che le Regioni siano state configurate come organismi, dotati semplicemente di rilevanza locale e destinati ad esercitare compiti esecutivi la si ritrova nell’articolazione data agli organi della Programmazione economica nazionale nella legge 27 febbraio ’67.
Nel disciplinare le strutture consultive si è nettamente applicata la distinzione tra organi verticali (i Ministri che si riuniscono nella Commissione interministeriale per la programmazione economica) e orizzontali (che si raccolgono nella Commissione consultiva interregionale).
Nel Comitato interministeriale per la programmazione economica la partecipazione dei Presidenti delle Regioni è eventuale e condizionata al fatto che «vengano trattati problemi che interessino i rispettivi Enti». In tal modo sembra escludersi che i problemi generali (vale a dire lo schema di sviluppo, gli obiettivi globali e le politiche di piano) abbiano legami e attinenza con la azione delle amministrazioni regionali.
Gli istituti di ricerca previsti per l’esecuzione di indagini, cioè l’INSPE, l’ISCO e l’ISTAT sono tenuti a collaborare con il Ministero del Bilancio mentre alle Regioni è offerta la sola possibilità di richiedere «elementi necessari all’adempimento dei propri compiti». Quasi che la conoscenza dei dati statistici o delle rilevazioni economiche non comporti nei confronti degli enti Regione la collaborazione quanto e più che non nei riguardi dei Ministri ed ogni risultanza ed indagine potesse agevolmente scindersi negli elementi “necessari” ed in quelli “non necessari” all’adempimento dei propri compiti.
Comprendiamo quanto sia difficile, nel prevedere organismi nuovi, disegnare strutture diverse da quelle solite. La vischiosità degli schemi usati per lungo tempo è fortissima. Le stesse Regioni si sono più facilmente ed agevolmente adattate a considerare ogni incontro con gli organi statali come occasione per avanzare rivendicazioni che come meccanismo di partecipazione alla volontà politica generale. Ma vi è forse un modo diverso dall’esercizio delle responsabilità che, in un regime democratico, possa condurre uomini ed enti ad accettare la composizione di interessi pubblici parziali con quelli generali?
Sia il programma economico, sia la legge sul Ministero della Programmazione economica sembrano piuttosto lontani da una visione articolata del processo di programmazione. Tendono infatti a differenziare, a distinguere, a precisare secondo limiti e competenze, a far divergere indirizzi e politiche più che a razionalizzare, a unificare funzionalmente ed a far convergere le strutture statali centrali con quelle regionali periferiche, proseguendo ed esasperando, così, un dualismo che sembra molto lontano dalle esigenze tecnico-funzionali della programmazione e dalle premesse democratiche di valore su cui dovrebbe fondarsi in Italia.
Su “La Voce Repubblicana”, 3
“Stato e Regioni nella programmazione”
I rapporti tra Stato e Regioni, dopo aver interessato a lungo politici ed economisti, incominciano ad acquisire consistenza anche nel momento giuridico della programmazione. Forse il disegno di legge n. 2085, presentato al Senato il 23 febbraio 1967 sotto il titolo “Norme sulla programmazione economica” non riceverà l’approvazione delle Camere in questa legislatura. Ma dal suo contenuto e dagli atti legislativi che lo hanno anticipato è possibile individuare lo schema di relazioni che vengono ipotizzate tra l’azione programmatica statale e l’ordinamento regionale e rilevarne criticamente i profili che meritano più attento ripensamento; specie in relazione alla circostanza che, con la prossima legislatura, le Regioni da istituzioni eccezionali (quali sono state finora) diventeranno normali dando finalmente all’articolazione regionale del potere pubblico carattere di generalità.
Siamo obbligati a prendere le mosse sul testo governativo dalla sua descrizione, giacché il livello di indifferenza che esso ha segnato sul barometro politico è talmente elevato da stupire chiunque abbia coscienza del fatto che come le idee camminano sulle gambe degli uomini così l’azione pubblica (e la programmazione lo è nel massimo grado) può conseguire il suo scopo solo in rapporto alla consistenza ed alla funzionalità delle istituzioni che debbono realizzarla.
Il disegno di legge sulla programmazione dà una definizione del programma economico, cioè stabilisce gli obblighi che da esso sorgeranno; precisa le modalità di formazione ed approvazione dei futuri programmi; indica le forme e gli organi di consultazione necessari e le informazioni che, ai fini del programma, possono essere richieste ai privati ed agli enti pubblici; disciplina la partecipazione delle Regioni ed i termini principali dell’attuazione del programma. La legge sulle “procedure” della programmazione stabilisce la efficacia della programmazione nei confronti dei diversi centri di riferimento o di imputazione di interessi dell’ordinamento e quindi contempla la posizione degli organi costituzionali maggiormente interessati (Governo e Parlamento), degli enti pubblici economici e di quegli enti dotati di autonomia politica che sono le Regioni.
Il procedimento di formazione del programma distingue una fase “ascendente” in cui il Governo propone al Parlamento un documento programmatico contenente le grandi opzioni sullo sviluppo economico del Paese. Sulla base di tale documento il Ministero del Bilancio e il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) elaborano il programma vero e proprio sul quale vengono richiesti il parere del CNEL, dei sindacati e delle organizzazioni di categoria e, per quanto riguarda determinati aspetti (la articolazione regionale del programma economico), delle Amministrazioni regionali. La fase “discendente”, cioè di attuazione, ha inizio dopo l’approvazione del programma da parte del Parlamento. Nel suo corso possono essere emanate le leggi di programma a carattere settoriale e vengono approvati gli interventi che le Regioni realizzano, in conformità al piano, nell’ambito delle loro competenze.
Per giudicare dal rilievo che le Regioni assumono nell’ambito del programma economico nazionale e come al suo carattere di globalità corrispondano efficaci meccanismi di coordinamento dobbiamo scendere a qualche considerazione di dettaglio.
L’art. 1 enuncia tra le finalità della legge proposta la disciplina dei «rapporti tra programma economico nazionale e gli atti di programmazione delle Regioni». Il testo, che era stato reso noto per varie vie un anno prima della approvazione del Consiglio dei Ministri, prevedeva l’obbligo per le Regioni di approvare con loro leggi un piano quinquennale di interventi, nell’ambito delle proprie competenze dopo aver sentito il CIPE. Il disegno di legge ha sostituito l’espressione «piano» con le «norme per gli interventi che le Regioni intendono attuare nelle materie in cui hanno competenza legislativa», per attuare il programma economico nazionale (art. 10). La sostituzione è tutt’altro che casuale e la relazione al disegno di legge chiarisce la portata, limitativa per le Regioni, di quella che, a prima vista, può apparire una sottigliezza, quando afferma che con questa formula si assicura «nel modo più congruo la coerenza degli interventi regionali con le scelte fondamentali del programma economico nazionale, rendendo esperibili le impugnative previste dalla Costituzione nei confronti delle leggi regionali». In tal modo le Regioni potranno legiferare frammentariamente ed occasionalmente, quando vorranno (e l’esperienza di quelle esistenti dimostra quanto sia stata frequente sotto lo stimolo nel “pronto soccorso” un’azione spesso scoordinata e contraddittoria) purché le leggi siano strettamente conformi al piano. Né va sottaciuto che a quei controlli, già operanti, costituiti dall’esame di legittimità costituzionale si aggiungerà un altro – preventivo – del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica.
Se a questo si aggiunge il fatto che il disegno di legge in questione distingue e separa nettamente l’articolazione regionale nel programma economico nazionale, la cui elaborazione rimane nella sfera decisionale degli organi centrali di programmazione (art. 9 e pag. 9 della relazione) dagli interventi posti in essere nell’ambito delle competenze legislative delle Regioni, è facile intuire che, con questa legge il sistema “binario” o “dualistico”, sul quale si sono fondati nella vita politica e amministrativa italiana i rapporti tra Stato ed enti locali, riceverà una conferma preoccupante.
Quando le relazioni tra gli atti degli organi centrali e gli atti degli organi periferici si concepiscono in termini di estraneità reciproca o addirittura nella presunzione di una conflittualità necessaria è difficile ritenere che la globalità della programmazione si voglia far coincidere con il coordinamento degli strumenti di azione pubblica. O meglio si concepisce il coordinamento non come una figura di equiordinazione, vale a dire la risultanza di un rapporto di collaborazione e di accordo tra diversi enti senza annullare la libertà e l’iniziativa di ciascuno, ma come sopraordinazione, che comprimendo i centri periferici di imputazione dell’autorità, riduce il coordinamento stesso ad una connessione gerarchica e piramidale del potere.
L’orientamento a programmare dall’alto, precostituendo indirizzi che non lasciano alle Regioni altre scelte se non l’adeguamento meccanicistico alle volontà espresse dal Ministero del Bilancio e della Programmazione, risalta palesemente dalla definizione del programma economico nazionale. Al programma è attribuita forza “vincolante” soltanto in rapporto alle amministrazioni regionali. Mentre gli enti pubblici vedono riconosciuta una capacità di adottare indirizzi politici ed i privati sono tenuti solo a fornire le informazioni che siano loro richieste dagli organi di programmazione. Per le regioni istituzionalizzate l’articolo 2 reca un sostanziale obbligo di conformità, sia per quanto attiene gli «obiettivi globali e settoriali dello sviluppo economico» sia per quanto riguarda i «criteri generali dell’assetto territoriale». L’avverbio «limitatamente» premesso alla elencazione dei vincoli pare voler contenere la capacità di penetrazione autoritaria, ma non riesce a dissipare l’impressione che la predeterminazione di un saggio di sviluppo settoriale comporti una compressione della possibilità di ricercare, al livello regionale, un equilibrio tra le diverse componenti del sistema economico. Si pensi all’importanza che l’artigianato assume in una regione come la Toscana o la zootecnia in Sardegna e si intuiranno i rischi di tale prescrizione.
Il procedimento di formazione e approvazione dei programmi economici nazionali non sembra modificare questi presupposti in quanto sia la terminazione degli obiettivi del programma che la sua elaborazione consentono alle Regioni un ruolo meramente consultivo.
Nel processo di programmazione, dicono i documenti socialisti che hanno ispirato la definizione centralistica del Piano, vi è il momento dell’unità, che comprende le scelte finali e il perseguimento degli obiettivi programmatici, come il momento dell’autonomia, vale a dire la applicazione al piano locale di quelle prescrizioni (Lettera di documentazione n. 2, ottobre 1967, pag. 10). Più esplicitamente Margherita Bernalpi (Mondo operaio, n. 6, 1967, pag. 26) afferma che bisogna mettere la parola fine ai piani di programmazione regionale.
In questo contesto è evidente come l’argomentazione che si oppone alle Regioni per giustificare i vincoli settoriali del programma appare inaccettabile. Si dice infatti che condizionare gli organi di programmazione centrale, in ordine al conseguimento degli obiettivi settoriali dello sviluppo, potrebbe comportare una limitazione della loro forza operativa proprio al fine del progresso delle Regioni più deboli. Una programmazione senza denti, cioè disarmata, nuocerebbe proprio al progresso delle Regioni sottosviluppate. La argomentazione, in sé suggestiva, sarebbe accettabile ove le norme sulla programmazione contenessero qualche indicazione circa l’eliminazione degli squilibri territoriali e il rispetto del principio della solidarietà nazionale.
Il richiamo alla eliminazione degli squilibri territoriali ed al principio della solidarietà nazionale non possono essere considerati indirizzi provvisori od occasionali, tali da poter essere sottaciuti nel momento definitario della programmazione. I lunghi tempi dell’azione nel Mezzogiorno ed i risultati di quelle politiche testimoniano del carattere tutt’altro che occasionale e precario di quegli indirizzi. Tant’è che hanno ricevuto significativa statuizione nella Costituzione della Repubblica e negli statuti speciali e costituiscono obiettivamente una delle priorità irrinunciabili della programmazione, intesa come esigenza di ordine e di razionalità, di ogni Paese.
Alla predisposizione che rientra nella esclusiva spesa degli organi centrali (Ministero e CIPE sulla base delle indicazioni del Parlamento), ed alla approvazione del programma per la quale è competente il Consiglio dei Ministri, prima del passaggio al Parlamento del documento, le Regioni non partecipano formalmente. Salvo auspicabili ripensamenti la determinazione degli obiettivi (art. 4) e l’approvazione (art. 8) sono compiute senza che le Regioni abbiano la possibilità di essere sentite.
L’attuazione del programma è affidata, in mancanza di un legame consequenziale col bilancio dello Stato, alle leggi programma che dovrebbero disciplinare per il quinquennio successivo gli interventi pubblici, per singoli settori dell’attività economica (art. 12). E’ questa la fase in cui, coerentemente alla ripartizione di compiti che dovrebbe vedere le Regioni come soggetti interessati almeno alla fase di specificazione del piano nazionale, maggiore dovrebbe essere il decentramento dei poteri dello Stato.
Invece la norma contempla la delega alle Regioni solo come ipotesi possibile ed in ogni caso condizionata alla volontà dei singoli Ministeri di cedere o meno le relative funzioni a questi organismi. Le utilità di raccordare gli interventi in applicazione del piano con quelli che le Regioni realizzeranno nell’ambito delle loro competenze e delle loro capacità finanziarie doveva suggerire, in questa fase, l’attribuzione del potere di indirizzare e coordinare almeno l’esecuzione degli interventi statali.
A questo punto giova riprendere il discorso delle premesse per dire che una programmazione che voglia essere articolata e democratica non può che partire dal riconoscimento della partecipazione delle Regioni a tutte le fasi della programmazione. In un Paese come il nostro, in cui la società civile è così debole, in cui è stato difficile far prevalere le esigenze pubbliche collettive nei confronti di quelle private, in cui l’unità e l’efficienza dell’azione di governo è una meta ancora assai lontana, bisogna esaltare invece che comprimere gli enti rappresentativi di interessi collettivi al livello territoriale.
L’affermazione non vuol sottacere la esistenza di possibili contrasti tra azione programmatica e ordinamento regionale. Ma parte dal presupposto che programmazione ed accentramento non sono processi ineluttabilmente paralleli, a meno che con la programmazione non si tenda a comprimere, in nome dell’unità a tutti i costi, il ruolo degli enti locali.
Le difficoltà di considerare come attuale il disegno, caro agli anni ’50, che Stato e Regioni potessero operare in regime di totale separazione, attraverso la esplicazione di attività rigidamente separate e parallele, nasce dalla esperienza assai difficile delle Regioni a statuto speciale, che hanno sbagliato, e sbagliano molto, ma che non possono certo considerarsi nate in un clima di fiducia nelle loro funzioni.
Ripetere lo stesso schema, non ricercare forme di collegamento e di integrazione per tutta la programmazione nazionale e regionale, significa perpetuare una grave deviazione. Se le Regioni non avranno una parte adeguata nell’azione di programmazione o meglio se si insisterà nell’usare come dice un giurista attento e sensibile (Paladin) una partita doppia in sede locale, diverrà ben fondata l’impressione che le Regioni servono solo come centri di potere e di sottogoverno. Il che ci riporta a considerare che la stessa sinistra democratica sembra divisa sul tema.
Da un lato i più avvertiti uomini di cultura propendono ad affermare che le Regioni debbono essere un’occasione per riordinare e ridurre le unità territoriali di base abolendo i consigli provinciali, e sostengono che le Regioni debbono essere enti essenzialmente funzionalizzati nel campo dell’amministrazione dell’economia.
Dall’altro si insiste in un disegno meramente garantistico delle funzioni di decentramento con il sottinteso che gli articoli della Costituzione e degli Statuti che sanciscono le competenze regionali possano essere svuotati con la programmazione nazionale. Questo secondo indirizzo, che trova molti sostenitori nel Partito Socialista Unificato, ha una sua matrice ideologica precisa. Nel passaggio dalla condizione di forza di protesta a quello di forza politica il socialismo punta le sue forze sulla eliminazione delle differenze di classe e ritiene pertanto essenziale a questo fine l’intervento del potere centrale. Di qui la necessità di accrescerne le competenze. Non si avverte cioè che il potere centrale ha bisogno di organizzare meglio le proprie competenze più che di accrescerle a scapito degli enti locali.
Ma vi è un altro motivo che, nella stessa parte politica, spiega la sfiducia pregiudiziale verso la programmazione come metodo di articolazione democratica dello Stato. Ed è la scarsa tradizione autonomistica e regionalistica, di quel movimento. In mancanza di questo apporto certe correnti che si ispirano al pensiero socialista hanno recepito e fatto propri i materiali e gli strumenti culturali che la società e le strutture tradizionali immediatamente offrivano loro: tra questi la logica del dualismo Stato-Enti Locali, la condizione di tutela dei secondi in rapporto al primo, la indivisibilità del potere e della sovranità pubblica.
Non si è avvertito, in entrambe le linee, quella massimalista e quella riformista, che la forza innovatrice della programmazione passa attraverso una fitta rete di centri di interessi che possono acquisire agli occhi dei cittadini carattere di legittimità solo nella misura in cui rientrino nel loro pieno dominio, cioè siano efficienti e democratici insieme.
Su “La Voce Repubblicana”, 4
“Scarsa in Sardegna l’accumulazione dei capitali nonostante gli investimenti e gli incrementi del reddito”
La legislazione sul piano di Rinascita economica e sociale della Sardegna ha compiuto gli anni nello scorso mese di giugno. Cinque anni per un Paese consumatore di leggi come il nostro possono essere molti. Sono indubbiamente pochi se si considera la lentezza con cui gli strumenti di intervento ricevono compiuta ed organica statuizione. E’ possibile comunque fare un bilancio sulla validità del sistema instaurato con la legge 11 giugno 1962, numero 588?
Se si considera che tale atto ha dato luogo ad un esempio, forse il più significativo, in tema di programmazione economica regionale, vale la pena di tentarlo mentre i problemi della programmazione nazionale sovrastano ogni tentativo di regionalizzare il programma.
La legislazione sul piano sardo è ispirata dal tentativo di comporre, in un quadro armonico, le linee di politica economica nazionale e gli interventi per il Mezzogiorno con le indicazioni che maturano nell’ambito regionale e che trovano espressione nella volontà della Regione in quanto ente esponenziale degli interessi locali. Obiettivo fondamentale di questa politica concertata, cioè disposta in forma di mutuo accordo tra lo Stato e la Regione, è la promozione di un autonomo processo di sviluppo economico e sociale nell’Isola.
Il quadro istituzionale definito dalla legge statale e da quella regionale del 7 luglio 1962 è così ricostruibile. Alla Regione vengono imputate responsabilità di iniziativa per la predisposizione del Piano a mezzo dei suoi organi tecnici che operano d’intesa con la Cassa per il Mezzogiorno; compiti di partecipazione all’atto complesso d’approvazione, attraverso la presenza nel Comitato dei Ministri per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno del Presidente della Regione e di un suo Assessore; funzioni di attuazione mediante l’attribuzione istituzionale di poteri delegati da parte dello Stato.
Lo Stato a sua volta, partecipa alla fase di preparazione, che precede l’esercizio dei poteri di iniziativa, attraverso la Cassa che collabora pure alla predisposizione; approva il Piano e ne assicura il coordinamento con gli altri interventi straordinari mediante il Comitato dei Ministri; nell’attuazione con i suoi organi tecnici che ricevono in concessione la esecuzione delle opere; per il controllo tecnico, sempre in materia di opere pubbliche, affidato alla Cassa per il Mezzogiorno.
In altre parole Stato e Regione prendono parte a tutte le varie fasi della programmazione regionale prevista dal Piano con diversi gradi di responsabilità.
Nell’iniziativa, fase in cui predomina la conoscenza e l’apprezzamento delle condizioni locali, è preminente la Regione; nell’approvazione assume maggior rilievo lo Stato che finanzia il piano con i famosi “quattrocento miliardi” in dodici anni.
Dal punto di vista degli obiettivi la legislazione prevede una molteplicità di forme di intervento secondo un piano organico, straordinario e aggiuntivo, che coordini tutti gli interventi statali e regionali, al fine di conseguire la trasformazione e il miglioramento delle strutture economiche e sociali delle zone omogenee, tali da conseguire la massima occupazione stabile e più rapidi ed equilibrati incrementi di reddito.
A quattro anni di distanza dalla sua “invenzione” il meccanismo di collaborazione tra lo Stato e la Regione come ha funzionato? E’ questa la domanda a cui si vuole dare una risposta, fondata esclusivamente sui dati di esperienza che la dimensione regionale del problema fornisce in misura abbastanza precisa.
Per ragioni di semplicità converrà rifarsi alla ricostruzione schematica delle diverse fasi del processo di intervento.
Il momento della predisposizione del primo documento pubblico (lo schema generale di sviluppo ed il piano straordinario 1962-1974) fu caratterizzato dalla necessità di ovviare alla carenza delle statistiche di base, delineando una ipotesi generale di sviluppo senza disporre di dati aggiornati. Il secondo documento, in ordine di tempo e di importanza, vale a dire il programma esecutivo 1962-1963 e 1963-1964, fu impostato essenzialmente tenendo conto della esigenza di dare l’avvio all’intervento speciale previsto dalla legge sul piano senza determinare soluzioni di continuità con i precedenti meccanismi, ma anzi in funzione di completamento di opere già iniziate e programmate dall’azione pubblica ordinaria e straordinaria del periodo precedente.
Con il piano dodecennale cioè venivano utilizzati i dati di una indagine ISTAT 1964 sul bilancio economico regionale, in mancanza di rilevazioni ed elaborazioni più recenti.
Il programma esecutivo tendeva a concludere alcuni interventi previsti dall’azione pubblica ordinaria e straordinaria e non portati a compimento.
In questa fase fu necessario cioè predisporre un piano in assenza di elaborazioni locali. Il sistema nazionale di accentramento delle conoscenze statistiche e di elaborazione unitaria delle medesime rivelò un limite formidabile per la programmazione democratica articolata su base regionale.
Lo stesso programma esecutivo biennale fu condizionato in gran parte dalla necessità, in assenza di programmi e di progetti elaborati dai diversi soggetti ed organi preposti alla azione pubblica, a tentare un compromesso tra il vecchio modo di considerare le iniziative indipendentemente le une dalle altre, come è nella nostra tradizione estremamente pluralista, ed un disegno meno disarticolato degli interventi.
L’attività di realizzazione pratica ebbe inizio nell’agosto 1963 con l’approvazione da parte del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno del primo programma semestrale luglio-dicembre 1964. Successivamente veniva disposto ed approvato il piano quinquennale 1965-1969 che poté disporre di dati più aggiornati (bilancio economico regionale 1962 ed altre indagini svolte ugualmente dall’ISTAT) ed il terzo programma esecutivo 1965-1966, approvato a fine luglio del ’66. Specie come risultante di questi ultimi documenti il piano sardo rappresenta, infatti, un quadro generale dello sviluppo economico della regione che tiene conto di tutti i settori di intervento e ne valuta le interdipendenze; orienta le direttive e i programmi dei Ministeri, della Cassa, della Regione e dei privati operatori; qualifica secondo un indirizzo unitario e coordinato la spesa pubblica nel suo complesso; indica l’obiettivo di sviluppo globale dell’economia sarda (incremento del reddito ad un tasso del 9 per cento annuo) e dell’occupazione (0,75 per cento all’anno); perviene alla valutazione del volume degli investimenti necessari; definisce i termini territoriali e di localizzazione delle attività produttive (zone di sviluppo polivalente e di sviluppo prevalentemente agricolo, industriale o turistico); precisa il ruolo e le funzioni dei vari organismi pubblici operanti in Sardegna e si avvale di tutte le possibilità offerte dalla legge 588 per rendere più funzionali ed efficaci gli strumenti operativi. Al piano straordinario viene, in questo quadro generale, demandata la specifica funzione di intervenire nei punti nodali della economia sarda.
Ma per quanto concerne gli interventi dello Stato nell’area meridionale ed in generale la programmazione nazionale, il coordinamento degli interventi su base regionale che è una delle finalità essenziali della legge viene impostato più su indirizzi e tendenze che su dati certi.
E ciò ben si spiega ove si abbia presente, per esempio, che soltanto talune branche dell’amministrazione pubblica procedono mediante piani pluriennali di investimento. I ministeri, che gestiscono la maggior quota dei fondi del bilancio statale, non utilizzano questo metodo, neppure limitatamente ai settori di propria competenza. A ciò si aggiunga la mancanza di un puntuale e tempestivo flusso di informazioni ai fini del coordinamento degli interventi, che hanno mantenuto il carattere della eterogeneità degli indirizzi propria delle strutture statali. In particolare non è stato rispettato il disposto della legge che prevede l’obbligo di attuare un programma straordinario di interventi a cura del Ministero delle Partecipazioni Statali.
Il contributo della Cassa per il Mezzogiorno che svolge il ruolo di organo tecnico del Governo per la programmazione è stato notevole per la mole di indicazioni fornite specie in rapporto agli interventi di tipo infrastrutturale (opere pubbliche nei consorzi di bonifica, strade, acquedotti, ecc.). L’apporto è apparso inferiore per quanto concerne la massa dei dati conoscitivi e la formulazione di indirizzi, in quanto il più importante “soggetto attivo” dell’azione pubblica nel Meridione è apparso spesso più nella veste di organo sopraordinato e di controllo tecnico che non di collaboratore.
Il momento dell’approvazione del piano e dei programmi è stato sempre preceduto da frequenti e copiosi incontri di settore e generali, fatto insolito nei rapporti tra organi indipendenti, quali sono tra loro il Centro di programmazione della Regione Sarda e la Segreteria tecnica del Comitato dei Ministri per gli interventi straordinari.
In questa fase, esplicata al livello informale e senza stabili organi di coordinamento al livello di funzionari, si sono realizzati risultati apprezzabili ai fini di una compiuta elaborazione dei programmi. Notevole è stata pure la sollecitudine con cui l’organo centrale, preposto all’approvazione del piano e dei programmi, ha proceduto alla definizione dei medesimi.
Sul piano regionale il metodo di discussione con procedura legislativa dei documenti è apparso meno funzionale, sia per il lungo tempo impiegato dall’iter di perfezionamento della iniziativa, sia per la minore rispondenza del sistema (emendamenti nelle diverse forme, aggiuntiva, sostitutiva, soppressiva) alla coerenza che caratterizza solitamente siffatti documenti di politica economica. L’impossibilità di tradurre atti di indirizzo in formule legislative non ha impedito al consiglio regionale di utilizzare un metodo tradizionale, anteriore alla introduzione della programmazione, tra le forme regolatrici dell’azione pubblica.
Una chiara giustificazione di questo fatto la si trova nello stesso procedimento fissato dalla legge regionale: la assemblea regionale non è chiamata ad esprimere le direttive ma ad approvare i piani ed i programmi. Non conoscendo gli indirizzi in via preliminare alla assemblea non resta che discutere i documenti nella loro peculiarità soffermandosi naturalmente sulla individuazione degli interventi più che sulle direttive generali.
L’attuazione dei programmi, formula con cui si suole intendere la fase intermedia tra le proposizioni prescrittive e l’esecuzione ha costituito e costituisce il punto più importante del provvedimento di collaborazione tra Regione e Stato. Senza soffermarci sui meccanismi esecutivi, propri di ogni tipo di provvedimento, diremo che i programmi, come ogni atto amministrativo di carattere generale, hanno bisogno di essere calati nella realtà attraverso determinazioni di carattere particolare che individuino gli interventi attraverso specificazioni e criteri.
La necessità di definire i nuovi interventi e di qualificare le proprie strutture amministrative, unitamente alla insufficienza delle progettazioni di massima e alle difficoltà degli enti, dei comuni, dei privati operatori di procurarsi i mezzi per far fronte agli adempimenti di rispettiva competenza, hanno rappresentato una ulteriore remora alla rapida esecuzione degli interventi programmati. Sono state individuate soluzioni, quali la effettuazione di studi per i piani di comprensorio turistico, per lo sviluppo delle zone industriali; e per i piani zonali in agricoltura; la costituzione di una società finanziaria, ma tutti questi strumenti non si può dire che abbiano dispiegato ancora i loro effetti.
Il piano, come fatto unitario e coordinato di tutta la spesa pubblica in Sardegna, può dirsi assai lontano dalla sua realizzazione. Esso ha svolto sostanzialmente un’azione limitata di riequilibrio per sopperire all’insufficiente flusso di investimenti pubblici ordinari e straordinari in questi ultimi anni.
Lo spazio che corre tra il programma e la concreta decisione di spesa viene percorso attraverso le normali procedure previste dalla legislazione statale e regionale proprie di ciascun settore. La specialità dell’intervento non è accompagnata da alcuna procedura innovativa (meglio sarebbe dire semplificativa), anzi per taluni settori di attività - le opere pubbliche intese in senso generico - si aggiunge a meccanismi ordinari la presenza della Cassa che provvede al controllo tecnico della progettazione e sull’esecuzione delle opere, oltre che al collaudo. Il ruolo della Cassa non appare sostitutivo degli organi statali preposti a compiti tecnici ma, in virtù della sua esperienza in fatto di conduzione di programmi di intervento infrastrutturale, di collaborazione e di alta direzione. Si è istituita una contabilità speciale, gestita dalla Regione, ma formata da accreditamenti che il Tesoro versa in rate semestrali anticipate, dopo la approvazione dei programmi esecutivi.
La Regione e la contabilità speciale sono però escluse da qualunque trattamento preferenziale in ordine al regime fiscale. Mentre le amministrazioni statali e la Cassa per il Mezzogiorno godono di determinati privilegi che si traducono in risparmio di tempo e denaro, l’azione pubblica della Regione, in attuazione dei programmi, colloca quest’ultima alla stessa stregua di un privato.
Poiché l’amministrazione regionale provvede all’esecuzione delle opere mediante concessione agli organi dello Stato, al procedimento già complesso, che vede accanto agli organi ordinari l’intervento della Cassa, si aggiunge la determinazione delle volontà regionali attraverso gli Assessorati, la Giunta, la Presidenza, unico organo legittimato alla gestione della contabilità speciale. Per quanto concerne le fasi di attuazione ed esecuzione può dirsi che il meccanismo di collaborazione soffre troppo della natura dualistica dell’intervento (Stato che affida alla Regione; Stato che, non rinunciando a nessuna prerogativa, interpone tra sé e la Regione un terzo organo: la Cassa per il Mezzogiorno).
La fase ultima, in termini amministrativi, cioè il controllo sugli atti conosce l’intervento di due organi: uno interno la Ragioneria della Regione che effettua il riscontro delle entrate e delle spese ed ha competenza in via preventiva; ed uno esterno, la Corte dei Conti, che provvede al controllo successivo sui rendiconti. Anche in questo aspetto la duplicità del sistema dei controlli, peraltro tradizionale nella nostra struttura amministrativa, non sembra conforme alla specialità dell’azione pubblica.
La Ragioneria regionale deve operare il riscontro non solo come organo preposto a tale compito ma con gli occhi dell’organo di controllo che giudicherà sui rendiconti consuntivi.
L’insieme degli elementi forniti, pur costituendo un quadro approssimativo, chiarisce che il “sistema” di integrazione della volontà dello Stato e di quella della Regione abbisogna di taluni ritocchi essenziali. La collaborazione tra la complessa serie di soggetti ed organi investiti di compiti per la realizzazione del piano è stata indubbiamente proficua ed ha rilevato insospettabili prospettive di approfondimento e di semplificazione della azione pubblica a livello regionale.
La partecipazione della Regione ha attenuato notevolmente il carattere autoritativo e centralizzatore della programmazione, ma tale partecipazione sarebbe stata assai più proficua ove la convivenza degli organi locali dello Stato a fianco a quelli del massimo ente locale fosse stata prevista in termini di precisa subordinazione di quelli nei confronti di quest’ultimo.
Il mantenimento del clima di esclusivismo dello Stato, che si traduce in un rapporto di diffidenza verso l’ente Regione e il sistema per intenderci di affiancare ad ogni ente locale un organo statale di controllo, ricorda più la tutela con cui un tempo si qualificava il rapporto tra il così detto ente sovrano e quelli derivati, che non la compiuta immedesimazione in un certo spazio delle due volontà, fuse in un unico scopo inscindibile. A ciò si deve aggiungere che l’amministrazione regionale non è riuscita a fare della programmazione un’occasione per rivedere i propri moduli di comportamento amministrativo. All’interno della Regione attività ordinaria e straordinaria convivono una a fianco all’altra senza essere legate dal necessario nesso di interdipendenza formale e sostanziale. Per cui l’azione di “pronto soccorso” a cui l’istituto regionale si è adagiato da molti anni, non ha trovato nei programmi esecutivi della rinascita l’occasione per tradursi in opere di riforma della società sarda. Bilancio regionale e programma straordinario sono due fatti distinti e privi di collegamento, sia nella fase di predisposizione ad opera della Giunta, sia in quella di approvazione da parte del Consiglio regionale. Valutazioni economico-sociali ed apprezzamenti politici restano momenti separati ed estranei l’uno all’altro. Per cui il dilemma tra democrazia ed efficienza, che il piano di Rinascita, con la sua tendenza razionalizzatrice, tentava di risolvere, resta vivo ed attuale per la lentezza della spesa pubblica regionale e la scarsa incidenza nelle realtà dell’apporto innovatore della programmazione.
A rischio d’essere fraintesi per la semplicità diremo che la volontà chiara del legislatore della n. 588 non è stata accompagnata da una strumentazione adeguata e capace di farla diventare effettiva. Alle intenzioni sono seguiti solo in modo parziale i fatti conclusivi necessari a realizzarle.
A questo punto è il caso di domandarsi quali effetti abbia prodotto il Piano di Rinascita nella struttura economica e sociale della Sardegna. Dal 1963 ad oggi, cioè dalla attuazione dei primi programmi esecutivi, i fatti rilevabili hanno segno di diverso valore. L’incompiutezza del sistema organizzativo e il mancato apporto delle industrie a partecipazione statale hanno inciso negativamente sul processo di sviluppo economico e sociale.
Può considerarsi positivo, tuttavia, l’insediamento di alcune grosse iniziative industriali nel settore petrolchimico, cartario e tessile. L’industria moderna ha consentito il mantenimento dell’occupazione industriale a livelli quasi costanti ed hanno colmato i vuoti verificatisi nel settore minerario. L’incremento del prodotto lordo, specie nel settore petrolchimico, non ha provocato, però, l’attesa e sperata diffusione dello sviluppo industriale.
In agricoltura l’incremento del prodotto lordo appare trascurabile. Ma la flessione del numero degli occupati nel settore ha incrementato la produttività per addetto; l’incremento dei redditi in agricoltura è stato complessivamente più elevato che nel Sud e nell’intero Paese e ciò è dovuto certamente alla diversa composizione del settore nell’Isola, giacché la zootecnica vi ha un peso assai rilevante. Ma l’attuale crisi della pastorizia, anche se non si traduce con riflessi immediati nella entità del prodotto dell’intero settore, mette in lice la fragilità di questo comparto a struttura arretrata.
L’artigianato registra tendenze evolutive sia per la introduzione di ammodernamenti tecnologici sia per la estinzione di attività artigianali di tipo arcaico.
Il forte sviluppo del settore terziario ha assunto una rilevanza tale da avvicinarlo alle regioni più progredite del Paese e segna la più alta misura di prodotto per addetto, ma non costituisce di per sé un elemento di miglioramento del sistema economico in quanto nasconde fenomeni di sottooccupazione ed è il punto di arrivo di attività precarie di intermediazione.
Complessivamente il reddito per abitante è calato sia rispetto al Mezzogiorno che alla Penisola. Gli obiettivi stabiliti dal piano quinquennale 1965-1969 non sembrano ad oggi raggiungibili alla fine del periodo.
Permangono tra la Sardegna ed il resto del Paese alcuni fattori di squilibrio che rischiano di accentuarsi in conseguenza della prevedibile ripresa nell’area settentrionale. La disoccupazione mantiene valori preoccupanti ed è superiore all’incremento naturale delle forze di lavoro; la emigrazione verso mercati più remunerativi ha subito una battuta di arresto solo in conseguenza della congiuntura sfavorevole; l’assenza di industrie manifatturiere, capaci di promuovere il riequilibrio territoriale ipotizzato dal piano, accentua la gravità della situazione.
L’importanza dell’apporto esterno al sistema isolano è sempre considerevole e tra questo e l’economia nazionale i legami sono prevalentemente dovuti all’aumento dei consumi, alle spese della pubblica amministrazione e alla emigrazione della mano d’opera. Gli investimenti nell’isola non hanno prodotto gli effetti auspicati, in quanto si sono limitati ad accrescere la massa salariale. I consumi, incentivati dagli effetti di dimostrazione, superano il reddito prodotto ed all’interno del sistema non si verifica accumulazione di capitali.
Ove si consideri che le industrie di recente insediamento appartengono a settori che non favoriscono la capacità di risparmio e di investimento se ne può dedurre che la reazione di un autonomo processo di sviluppo nell’isola appare oggi assai difficile.
L’esperienza del Piano di Rinascita ha rivelato le carenze dell’economia sarda e l’azione statale e regionale dovrà tenerne conto. Senza pretendere anacronistiche e, data l’importanza decisiva degli apporti esterni, impossibili linee di sviluppo autarchico, è necessario forse accentuare gli investimenti in agricoltura, nella zootecnica e nei trasporti, favorendo, per il resto, le industrie da basso rapporto di investimento per addetto.
Ogni prospettiva futura è legata ad una forte caratterizzazione autonomistica della politica economica. Il rispetto del ruolo della Regione come soggetto per la propulsione dello sviluppo economico nell’ambito della programmazione nazionale è condizione essenziale per l’avvenire dell’Isola.
Anni 1968-1971, dal PSd’A al MSA al PRI: il filo coerente
La lista Edera per la Camera dei deputati comprende, nel 1968, otto repubblicani (Anedda, Capurso, Cecchini, Concas, Marini, Pittalis, Puddu e Saba), un indipendente (Porqueddu) e nove dissidenti/scissionisti del PSd’A (Bellisai, Caredda, Corona, Maccioni, Marcello, Marletta, Mele, Racugno ed Uras). Quattro candidati repubblicani o da essi proposti (Marrazzi, Galardi, Porqueddu e Muzzetto) e due sardo-autonomisti (Manai e Marletta) si presentano nei sei collegi senatoriali (rispettivamente di Cagliari, Iglesias, Sassari, Tempio-Ozieri per il PRI, Oristano e Nuoro per i sardo-autonomisti).
Il segretario nazionale segue da vicino tutta l’operazione ed accompagna lo sforzo del suo partito accettando di tenere un comizio a Cagliari. L’obiettivo repubblicano – sostiene La Malfa parlando nel capoluogo il 7 maggio – è di «contribuire a creare per tutto il Paese, e non soltanto per alcune regioni, le condizioni di una avanzata civiltà del benessere e dei consumi» e di liberare, per tale scopo, tutto il settore pubblico dalle «incrostazioni burocratiche e parassitarie, ritornando a compiti di spinta economica e sociale»; per questo – sostiene – occorre «che la politica di programmazione sia integrata da una politica dei redditi, la sola capace di inserire in un sistema di economia avanzata le zone depresse del Mezzogiorno».
Lamentando la genericità della proposta di programma degli altri partiti sia in materia di efficienza delle istituzioni – tanto più ora che si profila la riforma regionalista dello Stato – sia relativamente alla produttività della finanza pubblica ecc., egli dà conto delle richieste avanzate dal PRI per un riequilibrio fra la spesa pubblica corrente e quella d’investimento, penalizzata quest’ultima dall’abnorme crescita dell’altra. Evita, La Malfa – forse per garbo verso il Partito Sardo d’Azione – di far polemica con l’ex alleato. La parte è riservata a Lello Puddu che illustra i motivi di dissenso e distacco fra i due partiti: «fuori dalle indicazioni dei fondatori del PSd’A, come gli onorevoli Mastino e Oggiano, i sardisti hanno portato il loro partito in posizioni vittimistiche di un antistorico separatismo ed in una sterile protesta», dal che è venuta la scissione e l’adesione dei sardo-autonomisti alla lista dell’Edera.
Le urne assegnano alla coalizione repubblicani-sardoautonomisti l’1,98 per cento e, in termini assoluti, 14.931 voti (contro i 27.211 raccolti dal PSd’A): un risultato considerato positivo, data la situazione, ma con affermazioni molto differenziate nei territori: a fronte del 2,02 per cento della provincia di Sassari (dove i voti pareggiano quelli del 1963, quando però l’alleato PSd’A era presente “in forze”) si pone infatti il 3,39 della provincia di Nuoro (rappresentando un dimezzamento del dato precedente conseguito da PRI e PSd’A associati) e appena l’1,45 della provincia di Cagliari. Interessante pare anche la rassegna delle preferenze. I primi cinque sono tutti appartenenti al dissenso sardista: Maccioni 3.098, Marcello 2.696, Marletta 1.802, Corona 2.583, Racugno 1.760; seguono tre repubblicani: Puddu 1.328, Saba 1.274, Marini 1.239; quindi l’indipendente Porqueddu 1.105, i sardo-autonomisti Mele 913 ed Uras 909, i repubblicani Concas 713, Anedda 685, Cecchini 673; in coda alternandosi sardo-autonomisti e repubblicani: Bellisai 642, Capurso 429, Caredda 226, Pittalis 133.
Generalmente più modesto il dato nei collegi uninominali per il Senato: 1,02 per cento a Cagliari, 0,70 ad Iglesias, 1,55 ad Oristano, 2,76 a Nuoro, 7,15 a Tempio-Ozieri (un’autentica performance del repubblicano “storico” Michele Muzzetto), 2,14 a Sassari.
Un commento sull’esito delle urne è proposto da Lello Puddu su La Voce Repubblicana nei giorni immediatamente successivi al voto. Sottolineando di aver associato sempre, nella campagna elettorale, i temi propri del partito a livello nazionale a quelli pertinenti ai travagli sardi dell’alleanza cessata con il PSd’A, i repubblicani hanno motivato il loro giudizio sui ritardi e le inefficienze della Regione ponendo alle forze politiche isolane una esigenza di autocritica e di riforma dei comportamenti preliminare ad ogni ribaltamento di responsabilità sullo Stato. «E’ stato tanto l’impegno che per i pochi soldi che avevamo a disposizione – scrive Puddu – sono diventati, per qualche organo di stampa, “i 300 milioni spesi dal PRI nella lotta elettorale in Sardegna”. I 15mila voti ottenuti in condizioni difficili, con una battaglia improvvisata, senza mezzi, senza apparato organizzativo, col solo slancio di tutti, repubblicani e sardisti autonomisti, premiano le nostre fatiche. Essi non rappresentano un punto d’arrivo ma la piattaforma più solida per un ulteriore balzo in avanti nelle prove future».
E’ di questo periodo una serie di note che, genericamente classificate come Carte del movimento sardista autonomista, e appunto datate “maggio 1968”, segnalano la partecipazione discreta e interna di Marcello Tuveri alle vicende della corrente scissionista e/o del movimento politico poi costituitosi in vista degli appuntamenti elettorali. Unificati dal titolo “La contestazione dei sardi”, emergono in particolare due elaborati: “Petrolieri, petrolchimici e politicanti” e “I partiti politici”.
Da ricondursi allo stesso 1968 (10 febbraio) è anche l’articolo “Il separatismo è il rifugio di una borghesia che non sa trovare la strada del rinnovamento”, uscito ne Il Giornale d’Italia e non firmato (benché certamente attribuibile al Nostro).
Il processo unificativo fra repubblicani e sardo-autonomisti che s’avvia con la comune partecipazione alle elezioni politiche del 1968 per concludersi con il congresso di confluenza il 20-21 marzo 1971 si sviluppa nel triennio essenzialmente attraverso le seguenti tre fasi: espulsione dei dissidenti dal PSd’A all’indomani del voto politico e costituzione della corrente autonomista in raggruppamento politico detto Movimento Sardista Autonomista; partecipazione alle elezioni regionali del giugno 1969 in una lista recante sovrapposta l’Edera repubblicana alla sagoma della Sardegna, simbolo del MSA, con l’elezione di Armando Corona; partecipazione con le stesse modalità alle amministrative del giugno 1970, con elezione di diversi candidati delle due componenti sia nei Consigli comunali che in quelli provinciali.
I comprensibili ed attesi provvedimenti disciplinari assunti dal PSd’A nei confronti di chi si è candidato nella lista concorrente sono fonte di nuova polemica attorno al merito della svolta politica operata dal Partito Sardo nel suo XVI congresso. Sulla linea di Pietro Mastino gli espulsi accolgono i deliberati che li riguardano con apparente indifferenza, con l’argomento di non poter essere colpito chi non ha ritirato la tessera, confermando con ciò la mancata adesione ad un partito che avrebbe cambiato natura.
Da parte repubblicana, intanto, il 2 giugno la direzione regionale, riunitasi ad Oristano, si compiace del risultato elettorale scorgendo in esso la base da cui partire «per una definitiva presenza del Partito nello schieramento politico isolano», deprecando gli attacchi personali subiti da diversi esponenti del PRI ad opera di sardisti. Elegge quindi alla carica di segretario regionale, in sostituzione del dimissionario Lello Puddu, Bruno Josto Anedda. Il quale da subito propone alla direzione, convocata ad Alghero il 23 giugno, la organizzazione della rete territoriale con l’abolizione delle segreterie provinciali e la costituzione di «consociazioni organizzative zonali raggruppanti gli iscritti e le sezioni esistenti in aree geoeconomiche omogenee». Un modo per dare spazi d’autonomia organizzativa al Sulcis-Iglesiente, all’Oristanese, alla Gallura, all’Ogliastra. Affaccia anche, per una prima presa d’attenzione, l’esigenza di meglio coordinare l’attività del partito con quella degli enti collaterali che, pur godendo di una propria autonomia funzionale e finanziaria, operano secondo i principi-cardine della democrazia repubblicana.
Ad ottobre la direzione delibera circa un documento programmatico da diffondere fra gli iscritti nonché fra «i segretari e gli esponenti degli altri partiti di sinistra»: occorre “smuovere la palude” della politica regionale, sfidando anche il PCI a un confronto secondo autentica cultura di governo. Sarà poi una commissione di studio presieduta da alcuni docenti universitari (Capurso, Concas, Perini-Bembo e Capriotti) ad approfondire alcuni temi, in vista della stesura definitiva.
In ordine ai rapporti con i sardo-autonomisti (per il che è invitato alla riunione il coordinatore regionale Nino Ruju) il PRI conferma il suo interesse a proseguire nella collaborazione e per questo delibera di affinare la propria organizzazione, portandola, secondo la formula del “partito aperto”, a una maggiore prossimità alla cittadinanza. Essa sarà infatti chiamata ad intervenire con sue proposte d’interesse generale, senza alcun vincolo di tessera.
Un convegno dei delegati delle sezioni del Nuorese si svolge a metà ottobre nel capoluogo barbaricino, presente il segretario regionale. Al centro del dibattito, ovviamente, lo stato di sofferenza sociale ed economica del territorio, al centro di quotidiane azioni banditesche, in una latitanza sostanziale degli organi dello Stato che non siano i carabinieri o le forze dell’ordine per la repressione della criminalità. Ampi servizi pubblicano, al riguardo, i quotidiani isolai oltreché La Voce.
In ordine alla riorganizzazione territoriale del partito, i delegati provinciali approvano l’articolazione in due consociazioni: quella nuorese e quella ogliastrina. Della prima si occuperanno, con funzioni commissariali, Lello Puddu, Giannetto Massaiu (già militante sardista, che “salta” così, insieme con i suoi amici riuniti attorno alla testata di Nuovo Azionismo il passaggio nel MSA) e Giovanni Sanna. Della seconda Virgilio Murreli. A Francesco Burrai, già segretario provinciale, è affidato il compito di promuovere l’attività degli organismi collaterali, in particolare dell’ENDAS e dell’AGCI.
In vista della imminente celebrazione del XXX congresso nazionale del partito (7-10 novembre), viene stampato a Cagliari un opuscolo dal titolo La Sardegna interpella il PRI: «Ora che esso sta introducendosi nell’Isola – spoglio finalmente del manto equivoco del sardismo massimalista e separatista – il PRI deve dire quale atteggiamento intende assumere e quale è la sua precisa posizione su quei temi che il giovane gruppo dei suoi adepti sardi va discutendo e per i quali sta cercando di individuare le soluzioni».
Con Anedda (poi eletto nel consiglio nazionale) e Puddu partecipano al congresso di Milano Massaiu, Lentini, Bulla, Granata, Saba, Melis, nonché Federico Augusto Perini-Bembo – esperto scolastico di gran livello – e la delegazione sarda presenta vari ordini del giorno relativi sia all’organizzazione interna del partito sia alla condizione dell’ordine pubblico nell’Isola.
Domenica 2 febbraio 1969 è a Cagliari Adolfo Battaglia, incaricato di assistere la dirigenza sarda nel lancio del libro programmatico; egli rende anche una visita di cortesia al Movimento Sardista Autonomista nella sua nuova sede cittadina di via Malta, inaugurata nell’occasione.
Importanti i lavori della direzione regionale nel corso dei quali il nuovo segretario politico sostiene essere punti irrinunciabili del PRI per una sua eventuali partecipazione a maggioranze di governo alla Regione 1) il blocco della spesa pubblica corrente, 2) la difesa dell’autonomia regionale, 3) la riforma degli istituti autonomistici, 4) la predisposizione di nuovi strumenti operativi nel comparto economico-sociale. I repubblicani chiedono l’abolizione dell’assessorato alla Rinascita, la diminuzione del numero dei consiglieri regionali e l’approvazione di una legge elettorale proporzionale, un piano urbanistico territoriale cui vincolare ogni tipo di provvidenza legislativa ed intervento pubblico, società finanziarie per il controllo dei trasporti e la trasformazione dell’agricoltura in “officine verdi” di alternativa alla zootecnica da latte, un programma di opere pubbliche in specie nella grande viabilità, ecc.
Se la più che decennale segreteria Puddu (con le brevi interruzioni Saba e Marrazzi) è servita per conservare la fiaccola della tradizione ideale, dare correntezza al rapporto con gli organi centrali del partito ed a gestire le sempre difficili contingenze elettorali, ora in simbiosi col PSd’A ora in piena autonomia, quella Anedda, coincidendo con lo slancio dato al PRI dalla leadership di Ugo La Malfa, accelera il passo sfruttando utilmente le circostanze. La consapevolezza di poter ora proporsi con una propria soggettività distinta non soltanto ideologicamente ma anche organizzativamente, grazie per il più alle nuove adesioni fattesi più numerose dal 1965 (il gruppo sassarese dei sindacalisti, il gruppo nuorese dei giovani di “Nuovo Azionismo”, diversi professionisti, manager ed accademici nel Cagliaritano), ha incoraggiato il nuovo segretario in tutta una serie di iniziative volte a far conoscere alla pubblica opinione lo specifico repubblicano sardo. Di qui i due quaderni programmatici, una incisiva presenza sulla stampa, il lancio anche di un proprio periodico – testata L’Edera –, una interlocuzione sovente polemica con i maggiori partiti tale anche da richiamare l’attenzione e l’interesse dei cronisti politici e perciò della stampa isolana, ecc.
Di questo stesso periodo potrebbero ancora ricordarsi la partecipazione ad una lista civica nella “rossa” Carbonia con Ghigo Galardi e Piero Caredda, la contestazione delle pretese democristiane circa gli assetti di giunta della imminente nuova legislatura regionale, in logica di riequilibrio territoriale delle proprie componenti interne (materia su cui si esprime Frumentario su La Nuova Sardegna che accredita il PRI isolano di ammirevole «moderazione e il buon senso»), la presa di posizione, “controcorrente” e scomoda, a favore del parco del Gennargentu, che tante polemiche ha suscitato in Barbagia e di cui si è fatta tribuna la stampa locale.
L’appuntamento che si profila nella tarda primavera 1969 per il rinnovo del Consiglio regionale mobilita tempestivamente le forze politiche chiamate a concorrervi. Così i repubblicani partono a marzo con le uscite de L’Edera – bollettino di informazioni e di “circolarità” interna (ma di esso si occupano sia il romano Il Tempo che l’Unità, organo ufficiale del PCI!), ed i sardo-autonomisti convocano a Cagliari, per il 30 marzo, un convegno regionale, aperto da una relazione di Nino Ruju. (Si tratta di una relazione lunghissima, molto articolata ed altrettanto interessante, in cui non sarebbe improbabile che sia rifluita anche qualche riflessione di Marcello. Così i paragrafi: L’economicismo; Colonialismo; Ottimismo; Questi vent’anni di autonomia; Sardismo contro meridionalismo; Sardegna come un paradiso terrestre; L’autonomia sarda come occasione rivoluzionaria; Tutto da rifare con l’autonomia!; Trarre insegnamento dagli errori; Il movimento sardista; Il programma per l’avvenire della Sardegna è tutto da fare; Realizzare un potere pubblico molto forte ma molto democratico; Un governo d’assemblea?; Potere politico e sottogoverno; Proposte di soluzione: non aspettare l’abolizione delle classi sociali; In una società moderna l’assolutismo può anche colorarsi di ambigue tinte democratiche; La partecipazione del cittadino alla vita dell’autonomia; Le aule parlamentari non devono essere conclavi inaccessibili alla volontà popolare: il referendum).
Domenica 16 marzo viene data notizia ufficiale della stipula di un «patto permanente di intesa e d’azione politica» tra la federazione sarda del PRI ed il MSA. Il comunicato diramato dai repubblicani motiva l’accordo con la «comune constatazione del progressivo scadimento delle istituzioni autonomistiche, ciò che richiede una battaglia politica vigile e costante quale può essere meglio condotta con l’unione delle due formazioni politiche, già accomunate dalla appartenenza alla stessa matrice laica e democratica della sinistra italiana». A Lello Puddu è affidato l’ufficio di coordinatore delle due componenti, tanto più in vista dell’appuntamento elettorale.
E’ tempo di consuntivi: la quinta legislatura regionale ha mostrato tutti i limiti della classe dirigente sarda nell’affrontare i complessi problemi sul tappeto, indulgendo essa a scaricare “in esclusiva” sul governo e le istituzioni nazionali le responsabilità dei mancati o scorretti provvedimenti risolutori, in materia sia economica che di amministrazione dell’ordine pubblico. In una lettera al presidente dell’Assemblea Dettori, i repubblicani ed i sardo-autonomisti chiedono, in occasione della celebrazione del ventennale dell’autonomia, un dibattito di approfondimento dei temi più direttamente riferibili alla funzionalità dell’Istituto regionale rispetto alla complessità della questione sarda come si va configurando alle soglie del nuovo decennio. Nonostante le promesse, il ventennale scade però, un’altra volta ancora, nella retorica autocelebrativa e nello scarico di ogni responsabilità sulle spalle di governo e Parlamento. (Di tanto scrive compiutamente Efisio Medda sulla prima pagina de La Voce Repubblicana, 8.9 marzo 1969: “Fine legislatura in Sardegna. Ciascuno ha la sua legge”).
“Affari sbagliati”: ne scrive Marcello Tuveri su “La Voce Repubblicana”
In una pagina speciale dedicata alla Sardegna, La Voce Repubblicana del 28 febbr. 1° marzo 1969 pubblica un articolo di Marcello Tuveri che ben fotografa una delle tante contraddizioni del governo dell’interesse pubblico nell’Isola (titolo “Affari sbagliati”):
I pastori sardi – si sa – hanno molti nemici. Il clima, i proprietari terrieri e soprattutto il mercato che essi non conoscono e subiscono attraverso l’intermediazione dell’industriale caseario commerciante. Ora una legge regionale di qualche anno fa aveva cercato di porre rimedio a questa ultima grave lacuna attraverso l’ammasso.
Si tratta di una pratica già in uso in altri settori che, trasferendo una parte del rischio sulla Regione Sarda, consentiva ai pastori di avere un prezzo del formaggio se non remunerativo, almeno capace di evitare la perdita totale del prodotto.
Il meccanismo funziona in questo modo: Ente gestore dell’ammasso è la Federconsorzi che stipula con la Regione regolare contratto. Le decisioni sull’ammasso, la vendita, la concessione degli acconti e la liquidazione ai conferenti è «seguita e controllata» – dice la legge regionale 26 ottobre 1966, n. 10 da una commissione provinciale di cui, oltre l’Ispettore provinciale dell’agricoltura, fanno parte i rappresentanti delle Confederazioni delle cooperative, delle associazioni di categoria dei contadini, dei pastori e degli agricoltori.
Evidentemente compito della commissione è quello di assicurare che le operazioni di ammasso e soprattutto di vendita del prodotto avvengano nel rispetto del precipuo interesse dei conferenti. Ed infatti ove il prodotto possa essere venduto a condizioni migliori di quelle di ammasso, deve esser rifuso ai pastori conferenti il maggior prezzo di realizzazione della vendita.
Tutto c’era da aspettarsi, eccetto che il meccanismo fondato sul sistema di garanzie della collegialità avesse a subire a così pochi anni dalla sua entrata in vigore, una usura tanto grave da consentire che una rilevante partita di formaggio pecorino sardo, circa settemila quintali, ammassato dai produttori della provincia di Nuoro, venisse venduto ad un prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato.
I consiglieri regionali sardisti autonomisti Ghirra, Puligheddu e Ruju hanno rilevato l’episodio con una interpellanza urgente che qui riportiamo: «Interpelliamo il Presidente della Giunta e gli assessori all’Industria e Commercio e all’Agricoltura – scrivono i tre consiglieri – per sapere se risponda al vero che recentemente è stata venduta ad un commerciante del Continente l’intera giacenza del formaggio pecorino ancora conservato nei magazzini di ammasso della provincia di Nuoro. In particolare se risponde al vero che il relativo prezzo di vendita è stato determinato intorno alle 700 lire al chilogrammo. Se così fosse, tenuto conto dell’ottima qualità della merce e dell’attuale prezzo di mercato, l’operazione avrebbe provocato una perdita secca di almeno 250 milioni ai danni delle finanze regionali e presumibilmente degli stessi allevatori conferenti.
Verso la prima elezione “onorevole” di Armando Corona
Tutto il periodo della campagna elettorale vede presente e protagonista, al pari delle altre più robuste formazioni, il tandem PRI-MSA. Domenica 30 marzo è nel capoluogo, per un comizio all’Auditorium, Ugo La Malfa. Presentato dal segretario Anedda e da Armando Corona – l’uomo di punta dei sardo-autonomisti nella provincia di Cagliari – egli parla al termine dei lavori che i sardo-autonomisti giunti dai nuclei un po’ di tutta l’Isola hanno condotto discutendo le tesi prospettate dai consiglieri regionali uscenti Puligheddu, Ruju e Ghirra.
Quella che vede impegnati insieme PRI e MSA – dice il leader – «è una battaglia di sinistra democratica, condotta contro ogni forma di demagogia e di faciloneria per realizzare una trasformazione profonda e seria della società italiana. Proprio in questi giorni, un grande scrittore della sinistra francese, Maurice Duverger, ha pubblicato un articolo severo contro quella che egli chiama “la malattia infantile del sinistrismo”, dimostrando come gli autori dei movimenti del maggio francese abbiano perduto rapidamente ogni presa sull’opinione pubblica. Lo stesso, prima o dopo, avverrà in Italia, dove a un sinistrismo assai diffuso, ma del tutto privo di contenuto e di obiettivi precisi, si dovrà sostituire una visione più responsabile dei problemi che si pongono alla società e una più severa e più costruttiva capacità d’azione.
«Il Mezzogiorno e la Sardegna in particolare – prosegue insistendo a caratterizzare una sinistra “alternativa” – hanno bisogno di una politica riformatrice, che tenga conto delle loro speciali condizioni. Quando il sinistrismo si applica in qualunque campo, senza stabilire un qualsiasi ordine di priorità, senza saper distinguere fra i bisogni più urgenti e quelli meno urgenti, fra i bisogni vitali e quelli meno vitali, fra esigenze della popolazione che sono tuttora fuori dalla grande civiltà industriale moderna ed esigenze di popolazioni che vivono in piena società del benessere, quando non si sanno fare queste distinzioni e si dà appoggio indiscriminato ad ogni sorta di protesta non si fa una politica di sinistra, si fa una politica puramente demagogica che aggrava, non riduce, gli squilibri di cui tuttora soffre la società nazionale».
Accogliendo volentieri l’invito rivoltogli da professori incaricati ed assistenti dell’Ateneo di Cagliari, i quali hanno iniziato uno sciopero a tempo indeterminato, La Malfa partecipa anche ad una conferenza-dibattito sulla questione universitaria. Il suo incontro con le diverse figure docenti precarie o gregarie dell’Università induce alcune insegnanti del locale Istituto Magistrale, dell’Università e del Comitato nazionale per l’educazione scientifica a chiedere alla sezione di Cagliari del partito di organizzare un incontro la responsabile dell’Ufficio scuola del PRI, Lia Giudice, per un confronto di opinioni sulla riforma della scuola media superiore.
Entro aprile sono depositate le candidature. Le tre liste provinciali presentano tutte al numero 1 esponenti sardo-autonomisti: a Sassari e Nuoro si tratta degli uscenti Ruju e Puligheddu, nel collegio di Cagliari dell’assessore provinciale Armando Corona, cui si associa il nominativo di Marco Marini, repubblicano. Chiaramente si tratta di liste che per i due terzi sono composte da sardo-autonomisti. Certamente le aspettative sono molte: i più danno per certa la riconferma in Consiglio degli uscenti Ruju e Puligheddu, mentre nel Cagliaritano sembra vincente Armando Corona, direttore sanitario di una casa di cura con mille relazioni e, quindi, opportunità elettorali.
Fra i più attivi oratori, nel Sassarese, è, con Nino Ruju, Alberto Mario Saba, al quale è anche affidato il compito di coprire una delle tribune radiofoniche assegnate al PRI, ma non mancano gli aiuti che vengono dalla penisola: a Sassari stessa, il 28 maggio, parla Oddo Biasini, sottosegretario alla Pubblica Istruzione, che si sposta poi, per altri comizi, ad Alghero e a Cagliari. Ma nell’arco di due settimane sono una decina gli esponenti nazionali ed i parlamentari che si mettono a disposizione del partito nell’Isola, a sostegno delle sue liste. Viene Francesco Compagna (comizi a Sassari ed Alghero ed infine a Cagliari, soffermandosi in particolare sulla contrattazione programmata, cioè sugli accordi d’investimento fra mano pubblica e mano privata), viene Oscar Mammì (a Nuoro), viene il ministro delle Finanze Reale (a Sassari, Alghero, Olbia, Orani, Nuoro ed Oliena), viene Claudio Salmoni vice segretario nazionale (ad Alghero ed Oristano ed anche a Sassari dove visita, insieme con Ruju e Capriotti, la redazione de La Nuova Sardegna, rispondendo alle domande dei giornalisti circa l’attività della Cassa per il Mezzogiorno, di cui è divenuto vice presidente), viene il sottosegretario ai Trasporti Emanuele Terrana (in diversi centri della Barbagia e della Baronia).
Lo sforzo è notevole, il partito mostra di credere veramente nella “carta sarda”. Ma indubbiamente si conta soprattutto, ancora una volta, sul carisma di Ugo La Malfa per strappare all’elettorato attenzione e consenso. Il segretario repubblicano torna in Sardegna e parla nei tre capoluoghi provinciali. A Cagliari divide il suo tempo fra l’ascolto di quanto i dirigenti sardi hanno da dirgli circa iniziative economiche ed industriali locali, alcune istruite anche presso il CIPE, e la “missione” di proporre alla cittadinanza la sua analisi del presente e gli impegni per il futuro. Così fa poi a Quartu Sant’Elena, ad Oristano, a Nuoro, ad Oliena ed a Sassari: «Per la industrializzazione del Mezzogiorno – dice –, per la modernizzazione della sua agricoltura, per far sì che tale agricoltura resista all’inevitabile concorrenza che si manifesterà nell’ambito del Mercato Comune, per dotare non solo il Mezzogiorno, ma tutto il Paese dei servizi sociali e collettivi di cui esso è paurosamente carente occorrono enormi capitali di investimento, capitali nell’ordine di migliaia di miliardi. Tali migliaia di miliardi investiti, non solo diffonderanno l’industrializzazione, trasformeranno l’agricoltura, diffonderanno i servizi collettivi, ma daranno posti di lavoro sufficienti a combattere la disoccupazione meridionale, ed allargheranno la possibilità di consumi in popolazioni che per mancanza di risorse e di lavoro hanno fra i consumi più bassi esistenti nel nostro Paese.
«Tutti dicono di capire questo, – aggiunge – ma nessuno dice attraverso quali strade si possono accumulare gli enormi capitali necessari per quest’opera di trasformazione. E’ chiaro che si possono chiamare i privati imprenditori a concorrere, ma è chiaro altresì che senza un imponente concorso dello Stato, l’opera imponente di trasformazione non può essere iniziata e tantomeno portata avanti e conclusa. Ora, qual è la forza politica che spinge lo Stato, non ad aumentare la sua spesa corrente, ma ad accumulare gli imponenti capitali di investimento necessari alla trasformazione?».
L’esito delle urne conforta e delude ad un tempo: nei collegi di Sassari e Nuoro più che soddisfacente è il risultato in termini assoluti, ma non sufficiente alla conferma degli uscenti Ruju e Puligheddu. Il solo eletto è, a Cagliari, Armando Corona. La lista Edera (sovrapposta alla sagoma della Sardegna) raccoglie 22.186 consensi, sfiorando il 3 per cento dei voti validi. Nel collegio di Cagliari il risultato, più che doppio rispetto a quello delle politiche del 1968, è di 12.273 voti e la percentuale del 3,12. In quello di Sassari di 4.861 (lievemente migliore del risultato del 1968) pari al 2,33 per cento. In quello di Nuoro di 5.052 (anch’esso lievemente superiore a quello delle politiche) pari al 3,61 per cento.
E’ evidente che la legge elettorale vigente, che contraddice la proporzionale, penalizza la lista repubblicana-sardoautonomista, perché confina nel nulla addirittura tredicimila voti, tanto quanto cumulano i resti dei tre collegi. Scrive Anedda su L’Edera n. 7-8: «Se si considera che il PSd’A ha perso, rispetto al 1965, ben 11.314 voti si deve concludere che questi voti sono quelli che costituiscono il nucleo su cui basa la sua forza il Movimento Sardista Autonomista alleato del PRI. Ma la lista PRI-MSA ha riportato un numero di voti doppio – cioè oltre 22.0000 – e ciò sta a significare che lo sganciamento dalla vecchia tematica sardista e l’innesto nella politica nazionale repubblicana ha dato nuova linfa ed è riuscito a moltiplicarli. Il discorso sardista tradizionale, come dimostra il calo avuto nel Nuorese, non fa più presa. Occorre svecchiare la politica in favore dell’Isola. Il discorso repubblicano dimostra di avere notevoli possibilità di sviluppo».
In quanto alle preferenze, dopo l’eletto Corona, che ne raccoglie 4.980 (1.383 nella città capoluogo), si piazzano – nel collegio di Cagliari – il repubblicano Marini con 2.612 e i sardo-autonomisti Racugno con 1.479 e Frongia con 1.141. Nel collegio di Sassari i migliori risultati sono del capolista Ruju con 1.973 preferenze (569 a Sassari città) e, a seguire, di due repubblicani: l’algherese Cecchini con 943 e l’olbiese Cattrocci con 864. In quello di Nuoro, alle spalle del capolista Puligheddu che raccoglie 2.912 preferenze (559 a Nuoro città), si posizionano i sardo-autonomisti Marcello e Marletta rispettivamente con 1.972 e 1.069.
I risultati elettorali sono esaminati, il 20 giugno, dalla direzione nazionale i cui lavori sono aperti da una relazione di Bruno Josto Anedda, che proprio partendo dai riscontri delle urne motiva le circostanze per le quali, a suo avviso, esistano concrete possibilità di espansione della rete organizzativa e della dimensione elettorale del partito nell’Isola. Questa è la stessa opinione della segreteria nazionale, tant’è che La Malfa incarica il vice segretario nazionale Claudio Salmoni di seguire direttamente e assistere il partito in Sardegna in tale delicata fase di lancio.
Alla fine della stessa settimana – il 26 giugno – Salmoni è quindi a Cagliari per incontrare, oltreché i dirigenti del PRI anche quelli del Movimento Sardista Autonomista, fra i quali il neoconsigliere regionale Armando Corona ed il nuovo coordinatore Salvatore Ghirra. Con tutti Salmoni affronta la questione delle modalità operative del patto unitario e della difesa del centro-sinistra nella nuova legislatura.
Riunitasi intanto a Macomer (il 22 giugno) la direzione repubblicana ha approfondito ulteriormente l’analisi del voto, con attenzione particolare alla risposta venuta dai singoli territori. Circa i previsti incontri con le altre forze politiche per il nuovo esecutivo, si delibera «di impegnare la delegazione che dovrà trattare con il MSA a non aderire ad alcuna proposta di inserimento nella maggioranza o nella Giunta di governo regionale senza un previo accordo su una piattaforma programmatica che sia conforme ad una impostazione progressista consona alla tradizione del PRI e alle attese del popolo sardo».
La nuova stagione della politica repubblicana procede intensa, con riunioni e deliberazioni quasi quotidiane. Il 28 giugno l’esecutivo regionale procede alla formalizzazione di sette consociazioni territoriali in luogo delle tre federazioni provinciali. Ed ancora sotto il profilo prettamente organizzativo si incoraggia la costituzione sia di sezioni miste PRI-MSA, sia di sodalizi meno marcati politicamente, ancorché di cultura democratica, da denominarsi – se piacerà – “circoli culturali Giorgio Asproni” o “circoli ricreativi ENDAS”. Essi potranno affiliarsi, se vorranno, al PRI.
Per gli sviluppi che avrà negli anni successivi, sembra importante collocare in questo contesto temporale la nascita, trent’anni dopo le sperimentazioni dell’immediato dopoguerra, di un nucleo della Federazione Giovanile Repubblicana, ad iniziativa dei liceali cagliaritani Roberto Dessì e Franco Cossu.
Calendario 1969
Ai primi di luglio un evento di grande portata scuote il mondo politico nazionale: l’ala socialdemocratica si stacca dal Partito Socialista Italiano, unificatosi da soltanto tre anni. Evidenti le conseguenze nelle trattative in corso anche a Cagliari per dare vita alla nuova giunta. Immediato il commento di repubblicani e sardo-autonomisti. Dopo aver deprecato la scissione socialdemocratica «sia perché costituisce una sconfitta delle forze democratiche, laiche e progressiste… sia perché accentua la contrapposizione tra DC e PCI con evidenti conseguenze involutive e la radicalizzazione della situazione generale», il segretario del PRI e il coordinatore del MSA riaffermano, in una dichiarazione rilasciata alle agenzie, «l’esigenza indilazionabile di una svolta nella politica regionale che dia ai sardi una regione di tipo nuovo, capace cioè di favorire veramente la partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica e quindi ispirata ad una rigorosa e organica azione di coordinamento e di direzione di tutti gli enti ed organi che operano in Sardegna. Il compito della Regione, in questo quadro, – sostengono Anedda e Ghirra – deve essere di propulsione e di controllo. L’autonomia deve essere un fatto di autogoverno: l’esistenza di una pluralità di centri di decisione non deve impedire l’unità degli obiettivi e dei risultati. Questa svolta potrà realizzarsi con la collaborazione nell’Isola dei partiti del centro-sinistra, che escluda ogni manovra trasformistica di quei gruppi di destra e di vocazione centrista, che oscillano tra l’appoggio sottobanco al governo ed una opposizione verbale, solo apparente».
Il 9 luglio il Consiglio procede alla elezione del suo presidente che raccoglie i voti della DC, dei socialdemocratici (o social-unitari) e delle destre, a fronte dell’astensione di socialisti e del sardo-autonomista Corona. La circostanza, che vedrà – per la reazione anche della sinistra democristiana – la rinuncia dell’eletto Contu, offre ai repubblicani l’occasione per marcare un’altra volta ancora, il taglio politico ch’essi vorrebbero imprimere alla propria presenza nel Consiglio regionale: definendo l’elezione del presidente segno di una «involuzione antidemocratica» perché «riaccredita» le forze più retrive della scena politica, essi rilevano le gravi contraddizioni interne alla DC ed il rischio permanente «di slittamento a destra pur di salvare e consolidare posizioni personali e di gruppo».
Il comunicato ch’essi diffondono si conclude confermando la collocazione di PRI e MSA «tra le forze democratiche e laiche della sinistra italiana e tra le forze conseguentemente e sinceramente autonomistiche dell’isola, aperte alle esigenze di una svolta profonda della situazione sarda».
Certo anche a fronte di tale reazione, l’on. Contu si dimette, consentendo la ripresentazione della sua candidatura in tutt’altro contesto, così da ottenere infine il voto unitario del suo partito, quello dei due partiti socialisti ed anche quello repubblicano.
Sulle trattative per la formazione della giunta regionale le cronache politiche sono ovviamente quotidiane, dandosi conto anche delle posizioni di repubblicani e sardo-autonomisti a favore di un centro-sinistra organico impegnato programmaticamente. Emergono anche le crescenti difficoltà di accogliere nell’esecutivo il rappresentante del PRI, data la esiguità “quantitativa”. Di un qualche interesse quanto riferisce La Nuova Sardegna, 19 luglio 1969 circa i colloqui della delegazione PRI-MSA costituita da Anedda, Ghirra e Corona con il presidente Del Rio: «La delegazione ha dato atto al presidente designato Del Rio ed al capogruppo consiliare della DC Masia di una certa correttezza di rapporti tra i partiti di centro-sinistra che solo ora comincia a delinearsi finalmente dopo il pericoloso e lento avvio della sesta legislatura. Nell’incontro la delegazione ha posto al presidente Del Rio tre domande preliminari ad ogni ulteriore discorso: 1) se fosse intenzionato a dare vita ad una giunta di centro-sinistra; 2) con quali forze volesse costituire il centro-sinistra; 3) se la DC garantisce l’impegno unitario di tutto il partito a sostenere la giunta. Nonostante le risposte del presidente designato abbiano lasciato sussistere alcune perplessità, sia la nostra delegazione sia il presidente designato hanno convenuto che il terreno su cui si possono confrontare le volontà delle varie componenti del centro-sinistra di operare in concreto per venire incontro ai pressanti problemi dell’Isola, è essenzialmente quello programmatico». Per parte sua il PRI si impegna a fornire tempestivamente al presidente una lista di concrete proposte innovatrici, e vi provvede, condensando il piano in 10 punti, già l’indomani (cf. La Nuova Sardegna, 23 luglio 1969: “Le condizioni del PRI-MSA per la Giunta di centro sinistra”.
Eccone i passaggi centrali: «Porre al centro della politica di programmazione e di ogni altro intervento regionale il problema della occupazione, finalizzando a questo obiettivo prioritario tutta l’azione pubblica subordinando allo stesso le incentivazioni ai privati. In tale quadro bisogna che la Regione non solo garantisca gli attuali livelli di occupazione ma provochi l’immediato arresto della emigrazione, ed assicuri condizioni di reddito, dignità e libertà per la mano d’opera isolana […];
«riconoscimento della validità permanente dell’art. 13 dello statuto e del principio di solidarietà dello Stato che deve tradursi non solo in termini di impegno finanziario ma nell’effettivo trasferimento di poteri dello Stato alla Regione. In questo quadro occorre perseguire mediante contrattazione l’ottenimento di precise quote finanziarie sui bilanci dei dicasteri, da spendere secondo gli orientamenti e le direttive della Regione.
«La politica di contestazione regionale ha per noi validità non come contrapposizione della Sardegna nei confronti dello Stato, ma in quanto sia capace… di dare forza alla politica meridionalistica. Nell’attuale fase di evoluzione della società è questo il solo modo di concepire la battaglia sardista. La Regione deve cioè, in modo nuovo, mettersi alla testa della lotta per lo sviluppo e l’autonomia della regioni meridionali».
Per il resto si tratta di riformare la legge elettorale attraverso l’utilizzazione dei resti nel collegio unico regionale, di assicurare adeguate rappresentanze alle diverse zone dell’Isola, di bloccare il numero dei componenti il Consiglio regionale, di dare pubblicità a tutte le deliberazioni di spesa dell’Amministrazione ed istituire il “controllore parlamentare” a garanzia della imparzialità e del buon andamento delle gestioni pubbliche, di riordinare l’esecutivo precisandone le attribuzioni fra presidenza ed assessorati a vantaggio della funzionalità ed efficienza (in particolare un assessorato al Bilancio e alla Programmazione dovrebbe sostituire l’assessorato alla Rinascita).
Di più: «Il Consiglio regionale ed i comitati zonali dovranno essere chiamati ad esprimere, l’uno l’indirizzo politico e gli altri le indicazioni tecnico-economiche per rendere l’intervento pubblico rispondente alla volontà popolare: a tal fine occorre la riforma immediata della legge regionale 1961 n. 7; realizzare entro un anno il decentramento in attuazione dell’articolo 44 dello Statuto speciale e la riforma dei servizi dell’amministrazione burocratica, responsabilizzando chi vi è preposto, nonché la revisione e la sospensione degli enti regionali inutili; realizzare per gli addetti alla agricoltura livelli di reddito e condizioni di vita e di lavoro non inferiori a quelli degli addetti agli altri settori; il piano della pastorizia non deve essere occasione per il rafforzamento di strumenti di sottogoverno, ma per ampliare i poteri della Regione e, pertanto, l’attuazione di esso non deve essere attribuita all’ETFAS, tenuto anche conto della fallimentare esperienza della riforma e della spregiudicata utilizzazione dei suoi mezzi a fini di potere; entro sei mesi approvazione della legge urbanistica ed entro un anno redazione del piano urbanistico regionale che coordini gli aspetti sociali ed i servizi civili in relazione allo sviluppo; destinazione di quote crescenti delle risorse di bilancio ad investimenti limitando la spesa corrente» (cf. anche Il Tempo, 23 luglio 1969: “Presentati da repubblicani e autonomisti a Del Rio. I punti programmatici per una nuova Giunta”. Sulla crescente polemica repubblicana circa la cattiva gestione dell’ETFAS interverrà tempo dopo anche Andrea Pes, militante del PRI sassarese, con un articolo-documento su La Nuova Sardegna, 12 gennaio 1971: “I repubblicani e la regionalizzazione dell’ETFAS”).
Nelle ancora convulse fasi di avvio della legislatura non mancano le tensioni fra l’Edera e i Quattro Mori. L’on. Del Rio viene eletto alla presidenza della giunta con i soli voti della DC, mentre il PRI, con gli altri laici, non offre più della astensione, assicurando comunque la propria disponibilità ad appoggiare un esecutivo anche in assenza di un proprio esponente, ove sia raggiunta una intesa programmatica. (Così scrive La Nuova Sardegna, 24 luglio 1969, riportando un comunicato del PSd’A: «La segreteria del partito – afferma Giovanni Battista Melis – segue la situazione con la fedeltà sardista per cui il sardismo è uscito a suo tempo dalla collaborazione di centro-sinistra ed appena si delineerà una situazione che vada oltre le alchimie sottobanco cui i sardisti sono estranei, che comporti decisioni e assunzione di responsabilità, convocherà gli organi responsabili del partito». Non manca, nel comunicato, la polemica con repubblicani e sardo-autonomisti: «La definizione di una politica utile alla soluzione dei problemi della Sardegna deve impegnare la rappresentanza dei vari partiti nella Regione senza sudditanze, timori reverenziali e soprattutto, nel convulso momento che la nazione attraversa, senza sottostare ad imposizioni che non guardino all’avvenire dei sardi e subiscano la manovra per portare in porto intese valide a Roma»).
E’ giusto nel mezzo della crisi politica sarda che si svolgono a Roma, il 13 luglio, i lavori del Consiglio nazionale del PRI. Anedda è il primo ad intervenire dopo la relazione dell’on. La Malfa. Il 7 settembre la direzione regionale, convocata ad Oristano, ascolta il segretario e Corona circa le novità dell’ultima ora, confermando la volontà di insistere per ottenere dagli organi di governo delibere e disegni di legge in ordine all’effettivo e funzionale decentramento amministrativo, al piano urbanistico e alla riforma elettorale regionale.
Il 14 dicembre – all’indomani quindi dei gravissimi attentati di Milano e Roma – altra riunione di direzione (a Cagliari) per l’esame della situazione politica sia nazionale (centrata su un debolissimo monocolore Rumor) che regionale, dove non sono meno precari gli equilibri fra le forze del centro-sinistra che direttamente partecipano all’esecutivo Del Rio.
La direzione delibera anche «di lanciare un appello ai sardi perché, affiancando e sostenendo sempre di più l’azione del Partito Repubblicano consentano la formazione di un partito moderno, dinamico, aperto alle nuove realtà sociali, capace di portare un positivo contributo di critica e di stimolo all’elaborazione di quei coraggiosi programmi di riforma di cui la Sardegna necessita», e convoca il congresso regionale entro il primo semestre 1970 (cf. L’Edera, 1-15 gennaio 1970 che riporta anche la congiunta dichiarazione di PRI e MSA a riguardo dell’intervenuta caduta dell’esecutivo regionale: «sin dalla costituzione della Giunta dimissionaria e della maggioranza che l’ha espressa, [i due partiti] hanno manifestato la propria adesione alla formazione del centro-sinistra organico, partecipando anche attivamente alla elaborazione della piattaforma programmatica. Essi hanno sin da allora sottolineato… la insufficienza della Giunta per il mancato apporto delle componenti democristiane più rappresentative delle istanze popolari. Detta convinzione è stata lealmente ribadita al Presidente della Giunta e ai Segretari degli altri partiti della maggioranza, facendo anche notare che la mancata funzionalità dell’interpartito avrebbe inevitabilmente portato alla confusione della maggiorana ed alla instabilità della Giunta, mentre nell’interpartito la maggioranza avrebbe potuto trovare gli elementi di unità e di coesione che invece sono mancati»).
1970, si va al rinnovo amministrativo. Bonaccia col PSd’A?
24 gennaio 1970: lavori congiunti dei vertici PRI e MSA. Si delibera di invitare ad un incontro di approfondimento dei rispettivi impegni politici e di programma i segretari e i capigruppo dei partiti di centro-sinistra. Ad essi è preliminarmente inviato un documento che anticipa le, peraltro note, posizioni di PRI-MSA, centrando in particolare una analisi dell’esistente come base del confronto: «Il meccanismo embrionale, labile ed inorganico dello sviluppo finora messo in atto dalla politica di programmazione; l’accettazione supina degli indirizzi capitalistici nel settore industriale e per contro lo scarso impegno nel settore agricolo; le tensioni e le frustrazioni derivanti dai contrasti tra il relativo benessere dei pochi occupati in attività moderne e dinamiche e la disperata condizione dei disoccupati e degli emigrati; il decrescente rilievo sociale dei ceti agrari che hanno finora avuto larga parte nella determinazione degli indirizzi politici regionali; l’accresciuta contrapposizione tra le condizioni dei ceti urbani e quelle dei ceti rurali; la netta frattura tra gli organi rappresentativi e quelli di governo, con la prevalenza – in termini di potere effettivo – di questi ultimi, sono tutti fenomeni che non possono non ripercuotersi sulla credibilità, per il cittadino, dell’istituto autonomistico e incidere drasticamente sulle strutture politiche ancora sostanzialmente impreparate ad affrontare globalmente i temi fondamentali della costituzione di una società sarda più equilibrata. In questa situazione ogni attività politica che non si ponga come obiettivo prioritario la discussione del problema di quale debba essere il tipo di equilibrio sociale da perseguire, rischia di essere inconcludente o, peggio, nociva (cf. L’Edera, 16-31 gennaio 1970).
Vale come postilla un commento sulla crisi: «La caduta della Giunta Del Rio e l’impossibilità di una rapida ricomposizione dell’esecutivo sono le conseguenze principalmente dello sbandamento del partito di maggioranza, in seguito allo spostamento interno dei pesi di potere e alla perplessità di fronte ai programmi politici a lungo termine. Purtroppo la profonda crisi interna della Democrazia Cristiana non consente di dare una Giunta stabile alla Regione e la responsabilità della DC è ancora più grave: sia perché coincide con un periodo di buoni rapporti e di facile accordo tra i partiti laici del centro-sinistra, sia perché cristallizza un vuoto di potere regionale proprio nel momento in cui sulla testa dei sardi si operano scelte di carattere economico che rischiano di rinchiudere l’isola in una… gabbia dalle sbarre tecnologicamente più avanzate. La lotta tra colossi petrolchimici che si profila nell’isola, mentre rischia di prosciugare i mezzi finanziari della Regione, rischia anche di dare all’isola una monostruttura industriale che la lascia troppo esposta di fronte ai mutamenti internazionali del mercato.
«La Regione non può continuare a fare la politica del giorno per giorno o a fare programmazioni che si dimostrano fumose quando poi accetta impostazioni che le vengono improvvisamente dall’esterno, senza prima sottoporle a revisione critica confrontandole con gli obiettivi del suo programma politico a lunga scadenza […].
«I partiti del cosiddetto centro-sinistra, per il patrimonio di consolidate intese e collaborazioni, hanno il dovere di essere iniziatori di [un] dibattito per un comune programma a lungo termine se vogliono dare alla Sardegna una Giunta che governi e non una Giunta che sia schiacciata nell’ordinaria amministrazione dal peso di colossali gruppi di pressione che le impongono le scelte strategiche di politica economica».
La crisi politica si risolve a metà febbraio. Il democristiano Lucio Abis dà vita a un tripartito replay del precedente. Corona assicura l’appoggio esterno ancorché non manchino le riserve…
Nei primissimi giorni dell’anno la sede del PRI e dell’ENDAS si trasferiscono dalle Scalette Porto Scalas al civico 128 della via Sonnino. I locali sono ampi e permettono anche di ospitare le iniziative di “apertura alla città” messe in programma. E così, l’ENDAS può lanciare, attraverso il gruppo “Giorgio Asproni”, dibattiti e manifestazioni culturali che contribuiscono a qualificare non soltanto l’ente organizzatore, ma ovviamente tutta l’area repubblicana. Si parte il 16 febbraio discutendo della programmazione, partecipanti il professor Capurso, ordinario di Dottrina dello Stato all’Università di Cagliari, il redattore economico de Il Mondo Italico Santoro, il direttore del Centro regionale di programmazione Gerolamo Colavitti. Moderatore Giovanni Satta, economista del Centro di programmazione (e prossimo segretario del partito). In successione avranno tribuna uomini come Giovanni Lilliu, Alberto Boscolo, Carlino Sole, Tito Orrù, Lorenzo Del Piano, Leo Neppi Modona.
Una riunione dell’interpartito di centro-sinistra, con la presenza anche dell’on. Abis, si svolge l’8 aprile nella sede repubblicana. Si tratta concordare in materia di lavori del Consiglio ed esaminare la situazione degli enti strumentali della Regione. Limitata ai segretari politici ed ai capigruppo, la riunione lascia scontenti i alcuni dirigenti che temono un leaderismo eccessivo da parte del segretario Anedda e si rammaricano della apparente emarginazione del Movimento Sardista Autonomista. E due sono le conseguenze dirette, interne, del malessere: la costituzione a Cagliari di una seconda sezione intitolata a Carlo Cattaneo ed una lettera del MSA all’on. La Malfa.
Gran regista della prima operazione è l’ex segretario Puddu che può contare su uno speciale rapporto fiduciario con la militanza “storica” del partito. La seconda conseguenza prenderà corpo nella tarda estate con una dettagliata informativa rimessa, da alcuni esponenti del MSA (ancorché credibilmente “ispirata” dalla minoranza repubblicana, o comunque da essa condivisa), all’on. La Malfa in ordine alla evoluzione, fattasi contrastata e complicata, delle relazioni col PRI.
La prossimità delle elezioni amministrative e alcune suggestioni, o riserve inconfessate, o malintesi circa la calendarizzazione della confluenza sardo-autonomista, determinano un affievolimento dell’intesa fra le due componenti e perfino dubbi circa uno sbocco positivo alla loro collaborazione.
Una traccia pubblica di tale malessere è riscontrabile in quanto scrive, in prima pagina, La Nuova Sardegna del 14 aprile – prima dunque del turno elettorale – riferendo della disponibilità manifestata dal vertice del PSd’A ad incontri «a tutti i livelli che si dimostrino idonei ad esaltare, in unità di azione e di fede, i motivi perenni della battaglia sardista». Questa sarebbe – a detta del giornale – la risposta dei Quattro Mori ad iniziative assunte da esponenti del MSA per «una unificazione delle forze che si ispirano ai principi del movimento sardista».
Si ritiene attendibile un ravvicinato inizio delle «trattative», secondo «modalità che saranno precisate». «Non dovrebbe trattarsi – osserva La Nuova (cf. 14 aprile 1970) – di una pura e semplice riunificazione dei due tronconi, PSd’A e MSA, in cui si era scisso tre anni or sono il partito sardista. Da allora infatti molta acqua è passata sotto i ponti della politica regionale ed in questo periodo sono state maturate da entrambi gli schieramenti nuove esperienze, che non verranno ignorate in sede di trattativa. Il tentativo di unificazione verrebbe giudicato positivamente anche dai repubblicani, tradizionali alleati del Movimento e che sono schierati, dal giorno delle elezioni, con gli autonomisti».
Dalla parte del PRI si considera l’imminente rinnovo amministrativo l’occasione per disegnare la prima rete delle rappresentanze repubblicane negli enti locali isolani: prenderà corpo, cioè, la dimensione istituzionale del “nuovo” partito, sì ancora di minoranza (o estrema minoranza), ma pure “compiuto” in quelle espressioni che connotano una formazione politica distinguendola dalla informalità di un movimento d’opinione. Operando in sinergia con le sezioni e le altre strutture sovraordinate, i consiglieri comunali e provinciali porteranno nelle istituzioni rappresentative proposte da tradurre in concreti atti amministrativi.
Nella Provincia di Cagliari è ormai in esaurimento la lunga presidenza democristiana di Giuseppe Meloni e l’iniziativa di premiarne il lungo lavoro è assunta dal più autorevole membro della sua giunta, proprio il sardo-autonomista Armando Corona, assessore all’Ospedale Psichiatrico. Eletto in Consiglio regionale già da un anno egli ha continuato nel suo mandato provinciale sino alla conclusione naturale della consiliatura.
Proprio in relazione alle sue competenze amministrative, lo stesso Corona è protagonista, press’a poco negli stessi giorni, di un fatto giudiziario non di poco conto nella vita locale: depone infatti al processo cosiddetto dei “pazzi in appalto” riferendo di aver effettuato una ispezione nella casa di cura diretta dall’imputato dottor Berretta – esponente dc – riscontrando gravi irregolarità nel servizio di assistenza ai malati di mente affidati dall’Amministrazione alla “Salus” di Solanas.
Le elezioni si svolgono domenica 7 giugno, in contemporanea con quelle regionali nelle quindici regioni di nuova istituzione e ad autonomia ordinaria. Nell’Isola, a fronte del calo democristiano, si registra un miglioramento dei due partiti socialisti; molto indebolita la consistenza delle rappresentanze sardiste, mentre discreta è la performance di debutto di repubblicani-MSA, che presentano quasi ovunque liste in rigoroso ordine alfabetico: il risultato appare comunque deludente rispetto alle attese e segnala con una lieve flessione rispetto alle regionali del 1969, attestandosi, alle provinciali, sui 21.569 voti e il 2,9 per cento (sono marcate le compensazioni soprattutto fra Sassarese, in crescita, e Cagliaritano, in calo).
Sono 7.382 i voti raccolti nei collegi del capo di sopra, con una percentuale complessiva del 3,6 per cento. L’eletto è Salvator Angelo Razzu che raggiunge, nel suo collegio di Sorso, il 17,4 per cento. Soddisfacente il risultato nel Nuorese: 5.452 voti, la percentuale quella del 4,2. L’eletto è Pisanu, presentatosi nel collegio di Cuglieri, che supera di poco il 20 per cento dei consensi (in seconda posizione è Antonio Catte che ad Oliena sfiora il 19 per cento con 1.180 voti).
Nel Cagliaritano i voti sono 7.909 pari al 2 per cento. Il solo eletto, Marco Marini, spunta la più alta percentuale – il 6,8 – nel collegio di Seneghe che era stato di Ovidio Addis (in loco batte il sardista Corronca).
Circa le comunali, a Cagliari i 3.353 suffragi raccolti bastano ad eleggere Vincenzo Racugno, direttore della clinica radiologica dell’università di Cagliari (al quale vanno 851 preferenze). Buoni i piazzamenti (oltre la soglia delle trecento preferenze) di Pietro Bulla, Luigi Concas e Marco Marini.
A Nuoro città il PRI-MSA sfonda, con 1.060 voti, il 7 per cento, quasi pareggiando la concorrente lista sardista. Sono tre gli eletti: l’uscente Salvador Athos Marletta (con 291 preferenze), Giovanni Maria Canu (267) e Luigino Marcello (241).
Buono il risultato di Sassari, che alle comunali raggiunge il 4,4 per cento e un totale di 2.248 suffragi; l’eletto è Alberto Mario Saba – la bandiera del repubblicanesimo sassarese – con 248 preferenze (primo dei non eletti Nino Ruju con 135).
Significative le risultanze di Oristano: 447 voti e un eletto (Tonino Uras con 181 preferenze); di Alghero: 1.130 voti e 2 eletti (Moreno Cecchini e Antonio Oliva, con 531 e 380 preferenze rispettivamente); di Sorso: nella civica “Sardegna e spighe”: 547 voti e un eletto (Salvator Angelo Razzu con 158 preferenze); di Olbia: 632 voti e un eletto (Giorgio Bardanzellu con 151 preferenze).
Gli eletti, complessivamente considerati, appartengono pressoché in egual misura alle due componenti dell’alleanza, e questo fatto, unito alla crescente correntezza delle relazioni e della collaborazione politico-amministrativa favorisce, tanto fra i repubblicani quanto fra i sardo-autonomisti, la volontà di procedere alla formalizzazione di quello che è stato fin dall’inizio l’obiettivo unitario anche se non semplifica né la modalità né la tempistica di attuazione del progetto. Ciò sia per la insistita convinzione di Anedda, e di quella parte della nuova dirigenza a lui più vicina, di dover ottimizzare, anche sul piano organizzativo, le risorse proprie dei repubblicani di vecchia e nuova generazione prima di procedere all’incontro finale ed organico con il MSA; sia per la mai riposta speranza di poter nuovamente coinvolgere, in un disegno di articolata area autonomistica, un PSd’A in grado di gestire la crescente pressione nazionalitaria (e/o separatista o indipendentista ) collocandola su un piano di sollecitazioni culturali piuttosto che politiche in senso stretto. In altre parole: l’indirizzo federalista di un Partito Sardo, alimentato anche da letture nazionalitarie della storia e del presente, potrebbe non collidere con i fondamentali unitari del PRI lamalfiano, il quale nella programmazione nazionale scorge, per il sistema regionale dell’Italia avviato proprio nel 1970 e già da quasi un decennio sperimentato in Sardegna con il Piano di Rinascita, ampi spazi d’intervento codeliberativo ed esecutivo.
Le modalità tattiche opzionate da Anedda determinano perplessità crescenti tanto in una parte del PRI quanto e soprattutto nel Movimento Sardista Autonomista, che esplicitamente dichiara la maggior sintonia, collaudata negli anni, con la vecchia dirigenza repubblicana. Le aspettative coltivate dal MSA paiono oggettivamente contrastate dal cumulo di variabili messe in campo dalla segreteria regionale del PRI, con il rischio anche di compromettere quel tanto di novità che sembra emergere dal dibattito interno al PSd’A per l’insofferenza o l’insoddisfazione, da parte di esponenti di spicco come Anselmo Contu e Carlo Sanna, per taluni indirizzi politici assunti dall’on. Titino Melis e dalle direzioni provinciali del partito.
Tutto ciò determina il MSA ad indirizzare all’on. La Malfa una lettera nella quale ribadire gli intendimenti politici del Movimento anche riguardo alla confluenza e contemporaneamente rappresentare il disagio per talune scelte non comprese poste in campo dalla segreteria Anedda.
Uno “stop and go” tattico: una lettera sardo-autonomista a La Malfa
Questo è il testo della lettera inviata ad Ugo La Malfa (custodito in bozze fra le “carte Puddu”, in Repertorio): «Caro onorevole, gli ultimi avvenimenti interni al PRI in Sardegna ci inducono a inviarle questa lettera nell’intento di contribuire alla maggiore comprensione delle nostre questioni.
«Lei conosce quanto noi la storia della nostra corrente e di ciò che è successo nel PSd’A. E’ inutile ricordare gli aspetti e gli episodi della nostra battaglia intensa nel vecchio partito culminata colla nostra clamorosa uscita e colla partecipazione nostra alle elezioni politiche nella lista dell’Edera. Moltissimi fra noi ritenevano che il risultato ultimo della nostra azione sarebbe stata la confluenza nel PRI, ma per una valutazione oggettiva della situazione (richiamo all’elettore per la qualificazione sardista, debolezza delle strutture organizzative del PRI, possibilità di reperire consensi nella vecchia base sardista, vicinanza delle elezioni regionali e amministrative) si decise di costituire il Movimento Sardista Autonomista, fermo restando, ripetiamo, che tale movimento avrebbe costituito l’ossatura del nuovo PRI sardo.
«A questo punto nel PRI avviene il cambio nella segretaria regionale e dopo qualche mese di rodaggio l’inizio dell’attività del nuovo segretario Anedda. Il discorso iniziato da Puddu diventa ora difficile, tormentato. Si perde tempo prezioso a prendere misure, si osteggia il varo di un accordo politico preferendogli un semplice accordo elettorale, si ricorre ad estenuanti riunioni per risolvere piccole controversie, si manifesta senza riserve la volontà di rendere difficile l’operazione di integrazione. Ciò provoca anche in seno al Movimento la nascita di risentimenti e di gruppi favorevoli al distacco politico dal PRI.
«Dopo le elezioni regionali, alle quali si è pervenuti dopo laboriose trattative che talvolta minacciavano di distruggere ogni possibilità di accordo, trattative localizzate soprattutto nella provincia di Cagliari, il nostro segretario Ghirra proponeva in Oristano un tentativo di unificazione col PSd’A su nuove basi e su diverse piattaforme politiche e programmatiche. Moltissimi di noi respinsero il disegno di Ghirra ma ne accettarono il carattere strumentale e proprio per dichiarazione di Puligheddu espressero l’opinione che tale tentativo sarebbe naufragato e avrebbe costituito la riprova necessaria per coloro che giudicavano ancora possibile un dialogo democratico col vecchio PSd’A.
«Intanto il segretario Anedda, presente alla riunione, dichiarava la disponibilità del PRI per questo discorso e ancora a Roma il compianto Salmoni, alla illustrazione fornita da Ghirra, dichiarava la adesione del PRI nazionale. In un bollettino del PRI sardo (l’Edera) si dava notizia dell’iniziativa giudicando necessaria l’unità delle forze sardiste e giudicando errore politico la scissione operata nel nostro gruppo.
«Intanto le elezioni amministrative si avvicinavano e si ricominciava la solita estenuante prassi degli incontri tra MSA e PRI per dirimere controversie riguardanti i candidati. Nella provincia di Cagliari, sede solita di confronto, accadde che alcuni repubblicani del collegio di Ales giungevano al punto di invitare i loro amici a non votare il candidato comune nonostante tale candidato avesse chiesto l’iscrizione al PRI e rendendo estremamente difficile il raggiungimento del quoziente. Il risultato elettorale è stato, come sa, negativo registrando una perdita di circa 4.000 voti rispetto alle regionali.
«Intanto si iniziavano i contatti tra MSA e PSd’A per esaminare le possibilità di unificazione. Tali trattative si sarebbero potute interrompere subito ma avendo avvertito nello stesso PSd’A una spaccatura profonda si è deciso di proseguire aderendo all’invito degli onn. Contu e Sanna che in forte posizione critica manifestavano l’intenzione di uscire dal partito solo su più chiari motivi politici.
«Mentre tali trattative erano in corso, Anedda con pubblica dichiarazione inviava a Ghirra e Contu una lettera contenente il proposito di immediata fusione col MSA e in seguito con gruppi spontanei autonomistici (che per noi non esistono) e infine, come risulta dai dati pubblicati sulla stampa, col PSd’A.
«Come Lei può comprendere, oltre che scorretta sul piano della pura cortesia perché non preceduta da consultazioni, l’iniziativa sul piano politico è risultata dannosissima. Infatti essa ha indebolito il MSA che proponeva al PSd’A l’accordo politico col PRI del nuovo partito unificato e ha messo in serie difficoltà anche coloro che all’interno del PSd’A (Contu e Sanna) accettavano questa tesi.
«Poiché la rottura dell’accordo sarebbe avvenuta sui rapporti col PRI e sull’adesione alla politica di centro-sinistra, l’impostazione di Anedda alleato del MSA inseriva un elemento di confusione e scopriva la strumentalizzazione che il MSA operava.
«Sappiamo che la Direzione regionale del PRI, o meglio, quella parte colla quali noi sardisti autonomisti abbiamo da lungo tempo realizzato solidali impegni politici, ha giudicato negativamente l’iniziativa di Anedda. Ma sappiamo anche che una minoranza ha contestato risolutamente tale giudizio provocando una spaccatura.
«Poiché sappiamo che l’iniziativa di Anedda è scaturita dopo un incontro tra l’on. Puligheddu e lei, in occasione del quale Puligheddu ha comunicato che personalmente giudicava ineluttabile la confluenza dei S.A. nel PRI e che tale incontro definitivo era ostacolato da un gruppo di repubblicani locali, intendiamo sapere con certezza se il PRI è davvero interessato alla confluenza dei sardisti autonomisti. E se questo è vero per quali motivi si opera in senso diametralmente opposto. Perché si vuole accelerare a tutti i costi un congresso al quale noi non potremmo partecipare? Perché si tenta di ampliare i dissensi anziché realizzare una solidale intesa politica? Perché si tenta di qualificare i repubblicani che vogliono questa intesa?
«Vorremmo sapere da lei, caro onorevole, che anche per noi è stata indicazione che ha corretto le nostre esperienze politiche, se abbiamo titoli per stare nel vostro partito, se [?] che del PRI abbiamo condiviso la politica in anni difficili, che per l’accordo col PRI abbiamo operato una dolorosa scissione, continuare la nostra battaglia al vostro fianco.
«E’ una risposta che dobbiamo avere da lei, con chiarezza, ora che gli ultimi avvenimenti hanno fatto sorgere in noi il dubbio atroce che i sardisti autonomisti siano graditi soltanto come forza estranea al PRI e perché esauriti i rapporti col PSd’A abbiamo bisogno di decidere poi quale sarà la nostra definitiva collocazione politica».
Manca sul punto documentazione certa, ma è certo che da parte della segreteria nazionale dell’Edera sia venuta una mediazione tale da indurre il Movimento Sardista Autonomista – per la firma di Armando Corona, Salvatore Ghirra, Vincenzo Racugno, Giuseppe Puligheddu e Nino Ruju – ad ufficializzare, già ad ottobre, la richiesta di confluire nelle fila del PRI. In parallelo a tale evento, da parte dei repubblicani si decide di annullare la convocazione del congresso regionale, già deliberata per ottobre ad Alghero, e di rinviarne la celebrazione di qualche mese, onde procedere agli adempimenti statutari relativi alla confluenza e consentire così ai nuovi tesserati di partecipare a pieno titolo ai lavori congressuali, alla votazione delle mozioni finali e alla elezione degli organi dirigenti.
E’ di questa stessa stagione, quasi come scia del turno elettorale, un nuovo sforzo che la dirigenza della consociazione di Cagliari compie per attivare sezioni sui territori rivelatisi più promettenti. E’ ciò che, ad esempio, accade a Furtei, centro minore della Trexenta risultato capace di un buon risultato alle urne: qui la sezione viene inaugurata proprio il 20 settembre 1970, data centenaria della breccia di Porta Pia, il che determina anche la stizzita pubblica reazione del parroco che legge l’evento come una… provocazione massonica!
Il 22 novembre si tiene un turno supplementare dei rinnovi amministrativi. Dei comuni sardi sono interessati quelli di La Maddalena e di Oliena. In entrambi i risultati repubblicani (e MSA) sono più che soddisfacenti: a La Maddalena i 181 voti raccolti (pari al 3,1 per cento) sono il doppio di quelli delle politiche (in numero di 93) e sei volte quelli delle regionali (appena 34), e valgono un consigliere. Meglio ancora ad Oliena, dove i 714 suffragi (pari al 18,4 per cento) migliorano il dato delle politiche (640) anche se flettono rispetto alle regionali (1.143). I seggi sono quattro.
La legislatura regionale procede con una assoluta e mortificante precarietà degli equilibri fra i partiti. Dopo la caduta, nel novembre 1970, della giunta Abis, ad essa succede, nel gennaio successivo – dopo tre lunghi mesi di vacuo dibattito fra i partiti – il monocolore Giagu, con l’appoggio esterno dei sardisti e la “benevola” opposizione comunista. I repubblicani denunciano “milazzismo” e degenerazione assembleare.
Finalmente la confluenza, a Roma muore Stefano Siglienti
Quando ogni risorsa ideale dell’autonomia sembra definitivamente compromessa, la segreteria regionale del PRI ed il coordinamento del MSA affrontano l’esame della situazione nella sede nazionale repubblicana, presenti l’on. La Malfa ed i vicesegretari Battaglia e Terrana: si ritiene naturale e doveroso procedere di stretto concerto anche nel notificare ai partner del Consiglio regionale una disponibilità alla collaborazione vincolata in via assoluta alla lealtà nel mantenimento dei patti politici e di programma.
Il comunicato che, al termine della riunione, viene diffuso denuncia come «le lotte di potere all’interno del partito di maggioranza» sia all’origine del dannoso degrado politico in atto, e ribadisce il convincimento di PRI e MSA che la svolta debba compiersi su un piano di recuperata lealtà fra i partiti del centro-sinistra. E’ quando anche da Roma la segreteria nazionale e La Voce si sostiene con insistenza ma senza risultato. Ed ancora a distanza di mesi dal suo insediamento, infatti, la giunta mostra il fiato, distinguendosi per una politica di spesa non programmata secondo priorità e in logica puramente clientelare. Con supplementari mortificazioni dell’autonomia e un accentuato disincanto della cittadinanza. «Nell’interesse della Sardegna – è detto in un documento repubblicano che esce alla vigilia della pausa estiva dei lavori consiliari – una giunta siffatta deve andarsene senza necessità di ulteriori ripensamenti», dando il cambio a un esecutivo di centro-sinistra programmaticamente più solido, alla cui definizione il PRI offre la sua collaborazione, auspicando preventivi accordi fra le forze di democrazia laica e socialista.
Intanto nel gennaio 1971 ha luogo il primo congresso della consociazione di Sassari, introdotto da una relazione del commissario Moreno Cecchini. Negli stessi giorni, invece, nel Nuorese il cartello PRI-MSA si trova al centro di una querelle politica: la sua estraneazione dagli accordi di maggioranza che la DC (a controllo della corrente di Forze Nuove) ha preferito stipulare ad Oliena – la capitale del sardismo repubblicano e del sardismo rimasto nei Quattro Mori – con socialisti e PSd’A, induce alla crisi nel capoluogo: si dimette l’assessore comunale (con delega alle finanze) Luigi Marcello, mentre in Consiglio provinciale il capogruppo Pisano annuncia il ritiro del PRI dalla maggioranza. Il partito, con un comunicato ufficiale, «dichiara chiusa la collaborazione con la DC ed il PSI».
Difficoltà anche a Cagliari. Incaricato dalla direzione regionale del PRI, ancorché egli sia formalmente inquadrato nel MSA, Salvatore Ghirra accompagna il consigliere Racugno nelle trattative per la giunta Fanti, cui viene garantito, in una prima fase, l’appoggio esterno. (Racugno assumerà l’assessorato all’Igiene e sanità nella primavera 1972 e per la parte restante della consiliatura, dapprima nelle due giunte Murtas, infine nella prima giunta Ferrara).
Ragioni professionali che comportano obblighi non procrastinabili (il passaggio dalla Agenzia giornalistica Italia alla RAI) hanno costretto il segretario Bruno Josto Anedda a rinunciare al suo incarico politico e, in vista del congresso di unificazione con il MSA, la segreteria regionale è stata assunta ad interim da Alberto Mario Saba. Sicché è lui, sabato 20 marzo a tenere la relazione di apertura del congresso del partito convocato all’Enalc Hotel di Cagliari. (Nei comunicati ufficiali forniti ai giornali anche negli stampati del congresso quest’ultimo è indicato come il XII, ordinale sicuramente erroneo. Esso è presentato come l’incontro «tra gli eredi e i continuatori di una tradizione di impegno politico e di cultura laica e le forze popolari espresse dal sardismo più consapevole della esigenza di contemperare l’autonomismo, nell’ambito della società italiana ed europea, secondo l’orientamento di Musio, Asproni e Cattaneo». Cf. L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna, 20 marzo 1971).
Sono poi il consigliere regionale Corona e il coordinatore del Movimento Sardista Autonomista Salvatore Ghirra a prendere la parola illustrando le ragioni della adesione del MSA al Partito Repubblicano Italiano: ragioni che – sostengono – vanno ricercate «nella riconosciuta validità della linea politica che in questi anni il PRI sta portando avanti e nella necessità, per meglio sostenere e difendere gli interessi della Sardegna, di un più efficace collegamento con i quadri politici nazionali». Brevemente interviene anche Ugo La Malfa, invitato a Cagliari per tenere, l’indomani, un comizio pubblico.
In un documento che il congresso approva alla unanimità si rileva come a determinare la confluenza sia la «identità di posizioni ideologiche e di obiettivi politici» fra PRI e MSA, e s’afferma anche che le due componenti reciprocamente si integrano nella «comune volontà» di rilanciare le «strutture autonomistiche con la ricerca di nuove forze di azione politica regionale». L’evento è qualificato quasi come antidoto alla «confusione delle spinte particolaristiche» rivelatrici dell’«incapacità rappresentativa» delle forze politiche fonte di crisi delle «strutture tradizionali di governo».
Richiamate le maggiori emergenze della crisi economico-sociale isolana – dalla stagnazione del comparto agro-pastorale ai ritardi degli investimenti ad alto indice di occupazione, ancora una volta si evidenzia «il distacco tra il popolo sardo e la Regione, dimostrato dal disinteresse e dalla sfiducia che circonda l’istituto regionale, diventato ancor più acuto a causa dell’affievolirsi della coscienza etica nella funzione pubblica e dal sovrapporsi degli interessi dei gruppi alle reali esigenze della collettività».
La mozione impegna il partito, ora rinforzato dalle nuove energie di matrice sardista, ad impegnarsi per una «rivalutazione» dell’Istituto autonomistico «che abbia per base una rinnovata sensibilizzazione della coscienza civica ed una radicale trasformazione della società e dell’economia sarda. Una strategia nuova dello sviluppo e delle riforma esige per altro che la Regione si trasformi da ente di assistenza e di cattiva gestione amministrativa in responsabile organismo di governo, capace di indirizzare e coordinare le attività produttive pubbliche e private operando una ridistribuzione dei poteri agli enti locali che dia significato alla partecipazione popolare e che adegui le strutture amministrative in termini di efficienza e di concretezza operativa».
L’appello che i repubblicani rivolgono al mondo politico isolano è in primo luogo indirizzato alle forze «progressiste, laiche, democratiche ed antifasciste» al fine di «affrontare insieme il discorso sui contenuti, sulle finalità e sugli obiettivi di una politica di sviluppo dell’isola» sostenuta da «precise scelte prioritarie […] nel quadro di una rinnovata considerazione dei problemi del Mezzogiorno, collocati nella prospettiva della unificazione europea».
Il congresso elegge quindi la direzione regionale paritetica fra le due componenti: quindici esponenti li esprime il “vecchio” PRI e altrettanti l’ex MSA. Candidato alla segreteria regionale è Giovanni Satta, economista in forza al Centro di programmazione regionale.
L’indomani Ugo La Malfa tiene, nei locali del cinema Ariston, l’atteso discorso. Egli parla alla composita militanza e, insieme, ai cittadini interessati alle posizioni del PRI, cercando di marcare i tratti distintivi della politica repubblicana valida sulla scena nazionale come su quella regionale. «Vi è – sostiene – una differenza di impostazioni tra i repubblicani e le altre forze politiche, al riguardo della politica di sviluppo e di riforme, che non può essere dimenticata e della quale è bene sottolineare oggi tutto il valore. Quando l’on. Amendola, nel comitato centrale del suo partito, ha affermato come necessario, in riferimento alle agitazioni sindacali, che “sia mantenuto il rapporto giusto fra costo delle lotte e risultati”, egli ha messo l’accento su uno dei maggiori problemi che i repubblicani hanno dibattuto da molto tempo in qua. Commisurare il costo delle lotte ai risultati ottenibili, non è compito che spetti ai lavoratori, ma è responsabilità che grava su coloro che li rappresentano, sui sindacati operai, sugli uomini di governo che si dicono di sinistra, sulle stesse forze politiche di sinistra. Ora è evidente che questa commisurazione del costo delle lotte ai risultati raggiunti o raggiungibili, non è stata fatta oculatamente, né prima né durante l’autunno caldo. Si è proceduto, non sulla base di valutazioni e previsioni fondate, come richiede la complessità stessa del meccanismo di sviluppo economico moderno, ma secondo un vecchio stile di lotta, uno stile di sapore ottocentesco.
«I risultati non si possono considerare positivi per la stessa classe operaia, almeno per quanto riguarda la certezza di occupazione e di reddito, tenuto conto delle condizioni economiche di oggi. Ciò deve spingere a quella revisione dei contenuti dell’azione politica e sociale, sia da parte dei sindacati sia da parte delle forze politiche che finora è mancata e che sola può consentire di uscire dalla grave e difficile situazione attuale».
Formalizzata la elezione di Satta alla segreteria regionale, l’esecutivo eletto dal congresso in una sua prima riunione compie una ricognizione degli aspetti più significativi della attualità politica regionale, soffermandosi in particolare sulla agitazione degli uffici che va paralizzando la Regione. Esso entra nel merito delle rivendicazioni sindacali osservando come la protesta sia stata suscitata da un improvvido disegno di legge della giunta, di palese matrice clientelare, tendente ad inquadrare nei ruoli dell’Amministrazione personale ex statale adibito pressoché esclusivamente a quelle mansioni gestionali da cui, con la attesa riforma, la Regione dovrebbe essere sollevata (presso ispettorati provinciali per l’agricoltura e forestali).
La direzione regionale viene quindi convocata per ulteriori approfondimenti a Nuoro per l’8 e 9 maggio ma dovrà presto decidere per l’avvicendamento del segretario: chiamato all’Ufficio studi della Confindustria, Giovanni Satta deve lasciare il suo incarico politico. Gli subentra lo stesso Armando Corona, mentre alla guida della consociazione di Cagliari va Salvatore Ghirra.
A luglio il Consiglio nazionale ratifica gli accordi relativi alla confluenza sardo-autonomista così come definiti nel congresso di marzo. Interviene nel dibattito Anedda, ormai ex segretario, che porta l’adesione dei repubblicani sardi alla convocazione, già nell’ormai prossimo novembre, del XXXI congresso nazionale.
Si chiude così una fase molto elaborata di un processo politico che forse si sarebbe potuto gestire con maggiore e lineare semplicità… ma si sa che le minoranze tanto più sono complicate quanto più sono dimensionalmente esigue…
Sul piano della riflessione storica colpisce che in pressoché simultanea alla confluenza dei sardo-autonomisti scompaia a Roma (aprile 1971) la nobile figura di Stefano Siglienti, già presidente dell’IMI e dell’Associazione Bancaria Italiana, già ministro delle (scombinatissime) Finanze nel primo governo di CLN dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944… ma già galeotto nelle mani delle SS naziste presso Roma, e – tornando sempre all’indietro – già negli anni ’30 fra i referenti clandestini di Giustizia e Libertà e dieci anni prima, a conclusione della grande guerra, anche lui reduce, fra i militanti fondatori del Partito Sardo d’Azione.
Siglienti, che aveva sposato Ines Berlinguer ed era quindi cognato di Mario Berlinguer, deputato aventiniano (allora amendoliano) e nelle tempeste postfasciste commissario aggiunto all’epurazione e consultore nazionale in quota – appunto come Siglienti, a Montecitorio – del Partito d’Azione, era stato presente e si direbbe coprotagonista, pur se sempre con la sua invincibile e paradossale riservatezza, nella infinita scena dei travagli azionisti. E quando Lussu riuscì ad imporre la sua linea socialista, al congresso di Roma del 1946 (dopo che a quello di Cosenza dell’agosto 1944) ed Ugo La Malfa, con Ferruccio Parri e molti altri, decise per la scissione e la formazione del gruppo di Democrazia repubblicana, Siglienti fu della partita. Siglienti nato sardista andò con La Malfa in Democrazia repubblicana (poi, alle elezioni del 2 giugno 1946, Concentrazione Democratica Repubblicana, infine Partito Repubblicano Italiano), i sardo-autonomisti quasi trent’anni dopo anch’essi migranti dal PSd’A al Movimento Sardista Autonomista al Partito Repubblicano Italiano…
Alle elezioni politiche del 1972
Il partito è chiamato a fronteggiare l’emergenza elettorale, dato che nei primi mesi del 1972 il presidente Leone scioglie le Camere incapaci di darsi una maggioranza stabile e coesa. Il che avviene in un contesto che permane assai rischioso per gli equilibri sociali e politici più generali, tanto più dopo che i gravi episodi di destabilizzazione (ripetuti attentati terroristici, rivolta eversiva di Reggio Calabria) hanno dato fiato alla reazione neofascista e al rafforzamento generalizzato, ma più massiccio nel meridione, del MSI di Giorgio Almirante (in formula di Destra Nazionale, assorbente cioè anche monarchici).
Alla competizione elettorale i repubblicani sardi partecipano con lista propria alla Camera e alleati dei socialdemocratici nei collegi senatoriali. Il quadro politico è, generalmente, in gran fermento e non piccola parte ha, fra le sue cause, l’accordo elettorale concluso fra il Partito Sardo d’Azione e il PCI che porterà alla elezione di Michele Columbu (colui che nel 1973 subentrerà all’on. Melis nella segreteria politica e perciò stesso, in qualche modo, porterà l’istanza indipendentista al vertice del PSd’A).
La scheda Edera non nasconde le sue velleità. Essa presenta al giudizio dell’elettorato tutti i suoi uomini elettoralmente più significativi (tranne Corona). Si punta su Ghirra nel Cagliaritano, Maccioni nel Nuorese e Saba – reduce da un doloroso e rischioso sequestro di persona – nel Sassarese. Ma la composizione della lista avviene curando molto la rappresentatività territoriale anche delle aree sub provinciali, fra la Gallura (con Cattrocci), l’Algherese (con Oliva) e l’Oristanese (con Uras) ecc., oltre ai personali accrediti professionali (Macciotta, Marcello, Marini, Pilato, Racugno ecc.).
La presenza sulla stampa della dirigenza e dei candidati concede la possibilità anche al PRI di raggiungere l’opinione pubblica informandola delle proprie analisi e posizioni. Fra gli interventi più efficaci è quello di Lello Puddu, ora segretario provinciale di Nuoro: in una lunga intervista a La Nuova Sardegna egli fa una rassegna di obiettivi programmatici su investimenti, consumi, occupazione, servizi ecc., aggiungendo l’opzione a favore del Parco del Gennargentu «strumento di elevazione civile e sociale delle classi popolari» e proponendo una domanda circa il modello di sviluppo affermato nell’Isola dall’industria sporca: «Siamo certi che l’industria petrolchimica sia l’insediamento industriale più idoneo per lo sviluppo della Sardegna centrale? Quale sarà il grado di inquinamento dell’eco-sistema rappresentato dalla media e bassa valle del Tirso? Che avverrà dei 20mila addetti all’agricoltura dell’Oristanese? La lotta per il possedimento di Ottana vinta dall’ANIC con sistemi “coloniali”… non dimostra il pericolo grave che la nostra comunità corre, di rimanere schiacciata dal gioco di forze economiche che travalica gli stessi confini nazionali?».
Sull’inopinato accordo PSd’A-PCI: «Credo che i militanti sardisti possano votare con serenità per il partito repubblicano. Noi abbiamo avuto col partito sardo lunghi anni di solidarietà e abbiamo condotto molte battaglie in comune per l’autonomia (che volevamo diversa). Con alcuni di essi abbiamo anche avuto motivi di dissenso grave nel 1968, quando [il PRI] riprese la sua libertà contestando metodi e indicazioni del gruppo dirigente. Ma di fronte all’innaturale accordo e alla marcia spedita degli stessi dirigenti col PCI e alla ferma, decisa reazione di altri sardisti specie nuoresi, i repubblicani sentono il dovere di rammentare all’elettorato sardista il grave momento che il nostro paese attraversa e che non consente fughe o rinunzie ma chiama tutti i democratici ad un coraggiosa assunzione di responsabilità. I legami che uniscono repubblicani e sardisti, la comune matrice ideologica, l’identica collocazione nello schieramento politico, la stessa mentalità democratica e laica, l’antidemagogismo e l’antitotalitarismo, le lunghe battaglie comuni, appartengono alla storia politica della nostra isola, sono patrimonio inalienabile tanto dei sardisti che voglio essere fedeli alle tradizioni, quanto dei repubblicani che non rinnegano le vecchie battaglie. Per questo sono convinto che i veri sardisti voteranno repubblicano». (Una lunga intervista ad Armando Corona in quanto segretario regionale, raccolta dal vice direttore Gianni Filippini, apre la edizione del 4 maggio de L’Unione Sarda. Titolo: “I repubblicani: ovvero la politica dei fatti”).
Il risultato delle urne soltanto corrisponde solo in parte alle previsioni o alle attese dell’esponente repubblicano: calano in percentuale (ma non in eletti) sia la DC che il PLI, migliorano i due partiti socialisti rispetto a quando si presentavano uniti, si dimezza il PSIUP lussiano (ora alla estinzione), quasi raddoppia la destra missina, manca il PCI di capitalizzare l’elettorato sardista, parte del quale si disperde; crescono di un mezzo punto percentuale, sempre rispetto al 1968, i repubblicani, che nell’Isola raccolgono 20.010 voti (meno di quelli raccolti sia alle regionali che alle amministrative), mancando comunque il quoziente e neppure piazzandosi nel collegio unico dei resti in posizione tale da poter eleggere un proprio candidato.
Sul piano delle preferenze, indice utile a letture di risultato territoriale e anche di talenti o potenziali da valorizzare in tornate successive, merita rilevare che sono ben sei su diciotto coloro che superano le duemila preferenze (Ghirra e Maccioni – con oltre tremila –, Marcello, Marini, Racugno, Saba), mentre altri cinque superano le mille (Pilato, Marletta, Cattrocci, Uras ed Oliva).
Intanto la legislatura regionale procede fiacca e condizionata dalla interna turbolenza dei partiti. Può ben dirsi che tutta la legislatura si giochi in un rapporto a due fra democristiani e comunisti. Questi ultimi hanno firmato un patto politico con il Partito Sardo d’Azione che, per parte sua, s’è dato disponibile a operare come “testa di ponte” fra le due maggiori formazioni, nelle intese surrettizie ma pur evidenti soprattutto nei lavori di commissione, in cui passa la parte prevalente delle leggi di spesa.
Alla caduta dell’esecutivo Giagu, ad esso è successo, reggendo però soltanto un semestre (fra marzo e ottobre 1972), un altro monocolore, stavolta presieduto dall’on. Salvatorangelo Spano, con il voto favorevole anche del PRI, ma che sconta quotidianamente le fibrillazioni interne alla DC e cade infatti in autunno. Ne viene, per la prima volta, un tentativo di quadripartito organico di centro-sinistra presieduto dallo stesso Spano. Il repubblicano Corona è destinato a reggere l’assessorato agli Enti locali. La giunta però non supera la prova della fiducia. Sono una decina i franchi tiratori individuati nella sinistra democristiana.
La perdurante lotta fra le correnti della DC e gli equilibri sempre instabili fra le maggiori forze del Consiglio divengono causa di nuove frizioni, prolungate crisi politiche e altri esecutivi deboli e senza prospettive: così, fra gennaio e luglio 1973 sarà ancora l’on. Giagu a dar vita ad una giunta di centro-sinistra, ma con i sardisti al posto dei repubblicani, e dunque con il voto contrario di Corona; da settembre a novembre dello stesso anno ecco poi un nuovo esecutivo, con la medesima formula e il medesimo presidente, ma con qualche ricambio democristiano alla guida degli assessorati; per ulteriori sei mesi governerà infine una settima giunta, riaffidata all’on. Del Rio, stavolta senza i sardisti e con l’appoggio esterno repubblicano.
Una certa crescente diffidenza insorta verso taluni dirigenti, in particolare quelli della sezione di Cagliari, consiglia Armando Corona a conservare per circa due anni la sede della direzione regionale in un edificio distinto a quello ove la sezione condivide gli spazi con la consociazione provinciale, la Federazione Giovanile e l’ENDAS. Uomini di fiducia del segretario sono incaricati di curare, per quanto possibile, l’organizzazione, tenere i rapporti con le sezioni periferiche e i rappresentanti del partito nei diversi enti locali. Di fatto ciò scava una mutua estraneità fra componenti rilevanti del partito e il leader, che ancor più prende consistenza allorché, pur accettando di riunificare gli spazi operativi, Corona impone come “funzionario organizzativo” una personalità lontana, per cultura personale e politica – data la lunga esperienza all’interno del PCI staliniano – dal mondo repubblicano. Si tratta di Umberto Figus, il quale diventa una sorta di dominus, o la longa manus di Corona che, nel bene e nel male, finisce per autorappresentarsi press’a poco come Giovanni Battista Melis presentava se stesso nel vecchio PSd’A: familista ed autoritario, soccorrevole paternalista e dirigista. E peraltro il potere reale nelle mani di Corona, facoltoso professionista, direttore di una importante casa di cura cagliaritana e investitore disputato dalle banche della piazza, consigliere regionale e patron delle fortune o delle ambizioni pubbliche di molti, rende il segretario regionale personalità rispettata anche da chi lo contraddice.
In vista del congresso che si vorrebbe convocare per l’inizio dell’estate, Corona cura attentamente, con i suoi “personali” collaboratori, gli adempimenti statutari. La direzione regionale del 4 febbraio 1973, allargata ai delegati sezionali e alla presenza del segretario organizzativo nazionale Antonio Duva ha stabilito norme per il tesseramento valido ai fini congressuali ed il censimento di tutti i militanti.
Da Giuffrè un lavoro importante del CNR (con un precedente nel 1965)
Esce nel 1973, prodotto dall’editrice Giuffrè, un importante volume che comprende le indagini compiute dal Gruppo di studio “sulle Regioni”, costituito presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, relativamente agli interventi in campo economico (settoriali e intersettoriali) compiuti dalle Regioni a statuto speciale fino a tutto il 1970.
Andando al suo esordio, appunto in quell’anno, il sistema delle Regioni a statuto ordinario, occorreva fare il punto dell’esperienza maturata nelle… periferie geografiche, anche nella considerazione che ormai un punto di svolta, per assicurare l’organicità degli interventi pubblici, sarebbe l’applicazione “estensiva” della politica di programmazione avviata dal centro-sinistra.
Merita peraltro di evidenziare che tale lungo (e prezioso) elaborato può ben combinarsi con il più datato intervento svolto al seminario di studi su “Programmazione nazionale e regionale”, promosso dal Centro regionale di programmazione in capo all’Assessorato alla Rinascita della Regione autonoma della Sardegna in collaborazione con la Segreteria tecnica del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno e con l’Ufficio del programma del Ministero del Bilancio ed in svolgimento ad Alghero dal 27 al 29 maggio 1965, i cui Atti (prefati da Giulio Pastore) sono poi stati pubblicati da Boringhieri editori nel 1967. Relatori principali della “tre giorni” Colavitti, Ruffolo, Scotti; interventi dei proff. Ruini, D’Aragona, Lombardi, Clemente e Carbonaro, presenti anche gli assessori al bilancio della Sicilia e del Friuli Venezia Giulia.
Il contributo del Nostro – manco a dirlo – è, pur datato, e perciò strettamente collocato nel suo tempo (che è abbondantemente anteriore alla istituzione delle Regioni a statuto ordinario) e ancora rigorosamente “tecnico”, non privo però di quella spinta morale che è capace di aprire ad ampie riflessioni e proiettare… nonostante tutto, verso scenari futuri e auspicabili. Valgano, al riguardo, le conclusioni di Marcello:
Ci limitiamo, per coscienza dei limiti di prospettiva, a indicare un’ipotesi che sappiamo molto difficile da realizzare per l’arretratezza che pesa sul nostro paese e che rende difficile pensare in termini nuovi i rapporti fra Stato e Regioni. Noi riteniamo chela Legge 11 giugno 1962 n. 588, nonostante i limiti territoriali e teleologici della sua operatività, possa proporsi sul piano organizzativo come un modello degno della massima attenzione. Il sistema d’integrazione delle volontà statali e regionali induce a un accostamento non solo tra i due enti rappresentativi, ma tra la realtà economica e quella giuridica. Al di là dello schema binario esse cospirano a un unico scopo che dimostra la compatibilità dei due profili economico e giuridico, sia pure episodicamente e dentro un certo ambito territoriale. Il sistema instaurato con le sue molteplici occasioni d’incontro dimostrano come da un momento di separazione e di distinzione possa ricavarsi una sintesi capace di offrire, in termini di prospettiva, una visione organica dei problemi economici e delle istituzioni giuridicamente esistenti. Ma a questa legge si è giunti dopo rivendicazioni e conflitti che parevano dover sacrificare la possibilità di uno sforzo congiunto della comunità statuale e di quella sua componente regionale che è la Sardegna.
Per questo abbiamo voluto soffermarci prima di ogni altra cosa sui “diritti” della Regione – anzi delle Regioni – a partecipare a ogni fase della programmazione sulla scorta delle competenze costituzionalmente attribuite.
Comprendo come il richiamo a questioni di attribuzioni, competenze di vario ordine e grado di soggetti giuridici e organi amministrativi possa essere apparso inopportuno in un convegno che in fondo, con il confronto di diverse esperienze, ricerca attraverso la programmazione un nuovo tipo di unità politica nazionale. Abbiamo tentato di richiamare l’attenzione sul problema delle distinzioni e dell’articolazione dei poteri dello Stato-comunità alternandolo a quello della composizione e dell’integrazione, seguendo un filo logico pertinente a una evoluzione storica non ancora compiuta. Crediamo di aver puntato alcune luci di dubbio sul principio di unità dietro il quale nel nostro pase si cela frequentemente quello di uniformità. Si è forse voluto che il quadro delle funzioni regionali nella programmazione apparisse confuso e indistinto, perché nella confusione e nell’indistinzione potevano nascondersi gli interessi di Regioni e gruppi economici più forti, capaci di usare dello Stato più di quanto abbiano potuto fare il Meridione e la Sardegna.
Per concludere, programmazione e autonomie regionali sono entrambe, a nostro avviso, mezzi per realizzare un meccanismo autonomo di sviluppo nelle Regioni caratterizzate da una dinamica economica sfavorevole, non in termini meramente garantistici bensì funzionali, ai fini del progresso economico e sociale, come dimostrano le competenze attribuite alle Regioni, che sono prevalentemente di carattere economico-sociale.
Sarà l’esperienza futura a indicarci in qual misura siano compatibili e compenetrabili le due forme di espressione del potere pubblico. Perché tale compenetrazione possa essere effettiva è necessario che sia non solo rispondente alla varietà dei territori del nostro paese ma in armonia con le nuove forme di sovranità, cioè di partecipazione delle collettività locali che debbono affiancarsi – e non sottomettersi – alle forze economico-sociali della nazione.
Soltanto in questo modo sarà possibile realizzare un disegno che sfugga decisamente alle suggestioni corporativistiche.
Aggiungerei che, in anni molto avanti nel tempo – mi riferisco al 2005 –, un bel contributo di riflessione ex post sulla esperienza programmatoria della Regione negli anni ’60 Marcello Tuveri lo donerà a I limoni sono verdi di speranze. Scritti in memoria di Antonio Cossu, uscito appunto nel 2005 da Condaghes, Cagliari. (Si tratta di un testo su cui conto di tornare e al quale, per alcuni aspetti anche di “contenuto biografico”, vorrei affiancare Giovanni Marongiu. L’uomo e il suo progetto di cittadinanza democratica, pubblicato nel 1994 da Sergio Zoppi per i tipi del Mulino).
La bibliografia sul Piano di Rinascita è, può ben dirsi, sterminata. Mi evito qui un richiamo dei titoli, non necessario. Soltanto segnalo la pregnanza che quella “scommessa di civiltà” (di promozione culturale e politica) ebbe nelle vicende di vita e professionali di alcune delle migliori intelligenze della Sardegna del Novecento che vi si dedicarono negli uffici regionali. E seppure potrebbe concludersi, con una battuta liquidatoria e quindi anche ingiusta, che il piano “fallì” non potrebbe dirsi essersi trattato di una esperienza tutta negativa così come non si trattò di una esperienza tutta negativa quella della industrializzazione dell’Isola degli stessi anni ’60 e ’70, seppure possa dirsi che le cattedrali nel deserto della petrolchimica, con quanto determinarono in termini di inquinamento ambientale, di sradicamenti della manodopera dalle campagne, di condizionamenti della libertà di stampa per la concentrazione delle testate, ecc., non dovevano né potevano essere la risposta migliore ai bisogni di sviluppo socio-economico della Sardegna allora imprigionata dalla sua secolare arretratezza.
Il corposo volume Interventi settoriali e programmazione regionale nelle regioni a statuto speciale, curato da Vittorio Bachelet (autore del primo saggio) comprende i report offerti da Severi, Migliaccio, Visetti e Chervallard (rispettivamente per le attività pianificatorie del Friuli Venezia Giulia, della Sicilia, del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta) e da Marcello Tuveri (ovviamente per la Sardegna).
Lo studio di Marcello, di ben 182 pagine, è il più esteso e complesso, denso e corredato di tabelle esplicative. Titolo “La pianificazione economica regionale in Sardegna”: tre le parti in cui è articolato oltre l’introduzione (“Dagli interventi settoriali al Piano di Rinascita”, “La legge sul Piano di Rinascita e l’adeguamento dell’organizzazione regionale”, “L’esperienza concreta di programmazione”), venti i capitoli, 109 i paragrafi, 21 le fonti ufficiali e… indeterminata la pubblicistica richiamata in bibliografia (le note a corredo sono ben 464).
Soltanto per dare onore al lavoro con un richiamo simbolico, ripropongo la prima pagina di ciascuno dei tre capitoli come segue:
“La Sardegna all’inizio degli anni ’50: dati economici”:
All’inizio degli anni ’50 la Sardegna aveva una economia a carattere prevalentemente agro-pastorale (40% del reddito regionale e 51% della popolazione attiva). L’apporto degli altri settori produttivi era scarsamente rilevante. L’industria, limitata peraltro all’attività di estrazione dei minerali, era praticamente assente. Il sistema economico si configurava come tipico di un’area sottosviluppata. L’Isola era attanagliata dalla stretta del “circolo vizioso della povertà”. La situazione, meglio evidenziata dagli “indici di depressone”, può essere così sintetizzata:
-impiego di mezzi di produzione in agricoltura estremamente scarso;
-produttività agricola molto bassa;
-attività industriale limitata a quella estrattiva e inesistenza di industrie manifatturiere;
-livello di vita civile assai modesto;
-traffici ridotti al minimo;
-disoccupazione e sottoccupazione estese.
Il reddito per abitante, che oscillava intorno a livelli relativamente bassi (1951: £. 160.000 contro le 250.000 delle aree del Centro-Nord), era al limite della sussistenza.
Il prodotto netto globale dell’Isola, nello stesso anno, ammontava a poco più di 160 miliardi, sensibilmente inferiore alle risorse disponibili per uso interno.
Lo sviluppo economico dell’Isola si poneva in termini estremamente complessi giacché i problemi da risolvere erano strettamente connessi tra loro e non ammettevano, quindi, soluzioni parziali o di settore ma richiedevano un vero e proprio, anche se graduale, mutamento di struttura.
Quegli anni non erano ancora maturi per l’adozione, da parte dei pubblici poteri, di politiche di intervento rispondenti alle finalità di sviluppo globale del sistema economico delle aree depresse. I problemi dell’Isola pertanto venivano considerati settorialmente e secondo una visione prevalentemente assistenziale dell’azione pubblica […].
“La legge 11 giugno 1962 n. 588”
Il complesso degli interventi per lo sviluppo economico e sociale, comunemente noto in Italia come “Piano di Rinascita della Sardegna”, trae origine da un insieme di norme giuridiche, dotate di efficacia formale diversa, essenzialmente individuabili: a) nell’art. 13 dello Statuto speciale; b) nella legge 11 giugno 1962 n. 588, relativa al “Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, in attuazione dell’art. 13 della legge costituzionale 26 febbraio 1948 n. 3”; c) nella legge regionale 11 luglio 1962 n. 7 sui “Compiti della Regione in materia di sviluppo economico e sociale”.
Fin dalla prima formulazione dell’art. 13, il piano è concepito come strumento di coordinamento della volontà dello Stato e della Regione («Lo Stato col concorso della Regione…»).
Il sistema di relazioni tra Stato e Regione che si instaura per la produzione del piano e dei programmi s’ispira sostanzialmente ad esigenze di raccordo e di composizione degli interessi regionali e nazionali.
Alla radice di tale rapporto si ravvisa il proposito di determinare l’accordo ed il consenso tra Stato e Regione più che la conferma dell’attuale sistema di attribuzioni separate di competenze, di rigida demarcazione di funzioni e di controlli di un soggetto sull’altro. La normativa sul Piano di Rinascita, quindi, non si esaurisce nell’attribuzione alla Regione di un ruolo meramente consultivo nell’esercizio di attività proprie dello Stato, né in una sovraordinazione dell’ente maggiore nei confronti di quello locale.
Il legislatore della 588, superando precedenti esperienza normative, alla stregua delle quali il “concorso” regionale era stato inteso come partecipazione finanziaria, ha ricercato, in funzione di interventi straordinari complessi e articolati che comportassero l’impiego di competenze statali e regionali, una soluzione difforme da quelle proprie del sistema binario, convogliando entro uno stesso procedimento i poteri di entrambi, allo scopo di facilitare l’operatività degli interventi.
In verità la legge 11 giugno 1962 n. 588 è frutto di una stagione politica particolarmente felice, per i rapporti tra lo Stato-organizzazione e la Regione-istituzione, che si caratterizza per la volontà di sperimentare al livello nazionale indirizzi e propensioni maturate nell’ambito regionale. Lo stesso “iter” del disegno di legge, particolarmente tormentato, se ha ridotto, da un lato, l’incisività degli interventi, ampliandone il ventaglio verso settori non perfettamente compatibili tra loro, ha consentito, d’altra parte, una tale integrazione dei punti di vista dei sue enti, da far ritenere almeno superata in quel momento la tentazione statale di una legge finanziaria priva di esplicita finalizzazione verso determinati obiettivi economici e sociali. Questa integrazione ha fatto sì che la legge venisse accettata dalla collettività regionale e dall’ente esponenziale dei suoi interessi con più favore rispetto ad altri analoghi interventi.
L’art. 13 dello Statuto speciale, e specialmente l’inciso «con il concorso della Regione», esce dalle strette della interpretazione della dottrina, attraverso un processo transattivo, tra il Governo e le Camere, da un lato, e la Giunta ed il Consiglio regionale, dall’altro, provocando così un esempio pratico di un tipo di comportamento che anticipa il procedimento di formazione dei piani e dei programmi. Questo nuovo modo di porsi dei due enti è rivolto a superare la distinzione netta delle competenze che ridurrebbe la programmazione, in conformità al sistema dualistico, a una mera, per quanto razionale, previsione di spesa dei fondi di ciascuno; si rende, allora, possibile una più accentuata considerazione dei profili del coordinamento, inteso come collaborazione e solidarietà, necessarie al perseguimento di obiettivi comuni ed insieme propri di ciascuno dei diversi soggetti.
L’organizzazione della programmazione e attuazione degli interventi, prevista dal titolo I della legge 588 (artt. 1-9), non fa cenno alle competenze statali e regionali ed alla loro ripartizione in dipendenza delle diverse materie di intervento. In questo senso il sistema cerca di superare gli inconvenienti che in un intervento socio-economico deriverebbero dal frazionamento dei poteri tra la Regione e lo Stato. L’attività di promozione dello sviluppo economico mal si presta, infatti, ad essere inserita nel tradizionale sistema di ripartizione dei poteri propri dello Stato che svolge compiti di natura giuridico-amministrativa. Restano fermi, è vero, attribuzioni ed oneri dei Ministeri e della Cassa (art. 2) ma delle direttive di quegli interventi e dei «programmi di rispettiva competenza da eseguirsi nel territorio regionale, questi debbono dar notizia, ai fini del coordinamento, al comitato dei Ministri per il Mezzogiorno ed alla Regione» (art.2, II comma). Anche altre norme della legge accentuano la tendenza all’integrazione delle volontà dei due enti, per il fatto stesso che la legge non contiene il Piano di Rinascita, ma, dopo aver indicato i soggetti e gli organi che partecipano alle diverse fasi di esso (predisposizione, formulazione, approvazione e attuazione), si limita a stabilirne gli obiettivi ed a fissarne modalità e misure. Gli interventi sono condizionati alla «conformità» alle direttive stabilite dal piano e dai programmi (art. 10) e collocati, come si suol dire, in un contesto di coerenza, capace di subordinare distinzioni di funzioni e di competenze.
L’art. 8 della legge conferma la preminenza delle direttive contenute nel piano e nei programmi in rapporto ai diversi interventi e alle ripartizioni rigide di attribuzioni e competenze. Tale norma contiene un singolare meccanismo di rinvio inteso a richiamare, per lo svolgimento del piano, ogni tipo di strumento previsto da altre leggi nazionali e regionali. A prima vista la norma sembra un’occasione per imputare ai titoli della contabilità speciale spese diverse da quelle previste dalla stessa legge. Essa stabilisce, infatti, che «fanno capo agli stanziamenti di cui alla presente legge gli oneri per gli interventi di esclusiva competenza statale e regionale per lo svolgimento del piano straordinario previsto dall'art. 1». La prassi ha ampliato, peraltro, considerevolmente l’ambito degli interventi oltre gli strumenti previsti dal titolo secondo della legge. La norma è servita ad esaltare in massimo grado il principio della partecipazione pluralistica e del cumulo di più soggetti nell’esercizio delle attività pubbliche, contraddicendo così la tendenza all’esclusività delle funzioni per cui nel nostro ordinamento ogni struttura amministrativa sembra caratterizzarsi per scopi determinati. Inoltre la sottoposizione alle direttive del piano di un’ampia gamma di interventi settoriali, fin’allora non coordinati, fa sì che la partecipazione della Regione si qualifichi oltre l’ambito di azione amministrativa stabilito nei suoi confronti dalla legge.
Il sistema normativo, nel suo complesso, specifica il grado di partecipazione della Regione e dello Stato alle diverse fasi del procedimento di programmazione, fasi che si possono individuare nella attribuzione alla Regione della responsabilità dell'iniziativa, mediante la predisposizione del piano e dei programmi, per mezzo dei suoi organi tecnici che operano d’intesa con la Cassa per il Mezzogiorno (art. 4); si aggiungano a questa i compiti di partecipazione all’atto di approvazione attraverso la presenza nel Comitato dei Ministri, del Presidente e di un Assessore della Regione, con voto consultivo (art. 3) ed infine le funzioni di attuazione mediante l’attribuzione di poteri, contenuta nella delegazione prevista dall’art. 5.
La volontà dello Stato si esprime, al livello tecnico, nel momento della predisposizione del piano, attraverso la collaborazione della Cassa per il Mezzogiorno (art. 4): sul piano politico mediante la responsabilità decisionale del Comitato dei Ministri, che approva il piano ed assicura il coordinamento di tutti gli interventi previsti dalle leggi statali (art. 2); nella fase della esecuzione in quanto organi tecnici e amministrativi dello Stato possono ricevere in concessione l’esecuzione delle opere (art. 5); nel controllo tecnico della progettazione e dell’esecuzione delle opere assegnate agli uffici della Cassa per il Mezzogiorno (art. 9). Il controllo successivo di legittimità è esercitato dalla Corte dei Conti.
La legge lascia, cioè, alle strutture pubbliche dello Stato e della Regione la definizione del piano e dei programmi. Fissa, invece, determinati indirizzi relativi ad ogni tipo di intervento (formazione professionale, trasporti, edilizia e sistemazione ambientale, interventi per lo sviluppo agricolo, interventi per lo sviluppo industriale e interventi nei settori della pesca, dell’artigianato, del commercio e del turismo) e che insieme concorrono alla formazione del piano «organico», cioè caratterizzato secondo l’espressione usata dal Predieri dalla unitarietà nella globalità.
Il ruolo della Regione nel procedimento di formazione è tanto importante che, pur rientrando l’atto di approvazione nella potestà di un organo statale integrato con la rappresentanza regionale, il piano può considerarsi “concertato” (in senso tutt’affatto diverso da quello usato nella pianificazione francese) per significare che il procedimento è tendenzialmente e principalmente rivolto a realizzare un rapporto interorganico riconducibile alla figura dell’ «accordo normativo» tra Stato e Regione.
Di «accordo normativo» ha parlato, infatti, il Bachelet prima ancora dell’emanazione della legge 588, intendendo che una corretta partecipazione della Regione e dello Stato, nell’ipotesi che il «concorso» comportasse oneri finanziari per entrambi, dovesse essere formalizzata attraverso due leggi (una statale e l’altra regionale).
Tali fonti, che dovevano essere coordinate da un preventivo accordo tra Stato e Regione, avrebbero comportato «una approvazione legislativa di atti predisposti dall’Amministrazione con soggetti di diritto interno». In una linea non dissimile si era potuto ritenere che il raccordo tra le volontà dei due enti potesse esprimersi attraverso l’articolazione dettagliata con legge regionale di una legge statale di indirizzo (o legge cornice), ovvero mediante la determinazione legislativa del programma a cura dello Stato e una delega alla Regione per l’integrazione in sede normativa e di attuazione delle funzioni amministrative necessarie.
La legislazione sul Piano di Rinascita sembra confermare, come si diceva, che il piano è frutto di un accordo normativo. Ma, coerentemente ad una posizione da lungo tempo espressa in materia di accordi amministrativi, tale piano non si perfeziona attraverso atti ispirati al principio di formalità, di legalità e di tipicità in quanto il piano e i programmi, proposti nella fase di iniziativa, ne acquisiscono forma legislativa nel momento della statuizione finale che conseguono all’approvazione del Comitato dei Ministri.
Il problema della imputazione del piano, che aveva suscitato nella fase preparatoria della legge molte e appassionate discussioni, ha cessato di essere oggetto di rivendicazione per l’ampliamento del potere autonomistico della Regione. Il metodo di integrazione e di collaborazione tra la sfera statale e quella regionale ha comportato l’accettazione da parte dell’ente locale delle decisioni di un organo amministrazione centrale, quale è il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, anche per materie rientranti nella competenza esclusiva della Regione, accentuando così la tendenza a superare atteggiamenti formalistici in conseguenza della riconosciuta esigenza di raggiungere finalità economico-sociali comuni.
La Regione sarda si è trovata nelle sue relazioni con lo Stato a sperimentare e a confrontare tra loro due esperienze: una di puntigliosa contrapposizione all’esercizio di potestà normativa formale, l’altra di effettiva e concreta concessione di poteri in ordine alla formazione e realizzazione di interventi programmati. La prima caratterizza l’azione delle strutture centrali tradizionalmente legate ad uno schema gerarchico dei rapporti Stato-Regioni. La seconda sembra ispirare i più agili apparati che curano gli interventi pubblici nell’economia. Non è facile in questo momento prevedere quale delle due tendenze prevarrà, ma è certo che il parallelismo attuale difficilmente sopravvivrà a una estensione dell’esperienza di programmazione a tutto il territorio del Paese. […].
“L’esperienza concreta di programmazione”
L’esperienza di programmazione, in applicazione della 588, è ancora in piena fase di svolgimento, ed ha avuto concreto avvio alla fine del 1962, anno in cui venne predisposto il primo documento di programmazione, che porta il nome di “Schema generale di sviluppo e piano straordinario”. La sua predisposizione è quasi contemporanea alla redazione del “1° programma esecutivo” per gli anni 1962-63 e 1963-64. Il titolo dato al documento ed il contenuto riflettono la fase di trapasso tra due momenti della discussione nella politica di programmazione e cioè il momento rappresentato dallo schema Vanoni ed il rilancio dell’idea di programmazione dovuto alla presentazione della cosiddetta “Nota aggiuntiva” dell’allora Ministro del Bilancio La Malfa. Nonostante il documento della programmazione regionale sarda sia posteriore alla presentazione della “Nota”, l’ambito culturale in cui si forma è considerevolmente influenzato dalla esperienza precedente.
Infatti il documento nasce con due contenuti propri dei diversi momenti della programmazione.
Il primo momento attiene essenzialmente alla configurazione di ipotesi, di prospettive e di problemi dello sviluppo economico e sociale, attraverso il calcolo dei “trend” delle diverse grandezze macroeconomiche e comporta il raffronto fra i risultati delle proiezioni e gli obiettivi prefissati. Attiene alle previsioni e deve essere quindi in armonia con le «tendenze dello sviluppo nazionale» e con gli «indirizzi della programmazione».
Il secondo momento riguarda gli interventi fondamentali da condurre nel decennio per raggiungere gli obiettivi fissati nello “schema” e contiene la stima, nella misura possibile, dei mezzi reperibili in ambito nazionale e regionale, per il finanziamento degli interventi. Il piano introduce, da un lato, correttivi agli ostacoli del naturale procedere dello sviluppo economico dell’Isola, dall’altro vuole determinare, attraverso l’insieme degli interventi, modificazioni di struttura nello sviluppo economico.
La dizione «piano straordinario» si riferisce cioè all’utilizzazione dello stanziamento straordinario di 400 miliardi di cui alla legge 588. La dizione «schema generale di sviluppo» indicherebbe l’ipotesi globale di sviluppo economico e sociale cioè il Piano di Rinascita in senso vero e proprio.
Tuttavia, schema di sviluppo e piano straordinario vengono previsti in termini di stretta connessione e trasfusi in un unico documento, nel quale l’analisi conoscitiva e la proiezione delle tendenze di sviluppo sono accompagnate dalla individuazione dei settori-chiave di intervento e dalla previsioni di spesa per ciascun settore.
Il documento si articola in tre parti, tra le quali assume particolar rilievo quella dedicata alla fissazione degli obiettivi ed alle politiche necessarie a raggiungerli. Sono considerate «politiche» di coordinamento, l’aggiuntività e l’elasticità del piano. Col coordinamento si vuole conseguire un’armonica «finalizzazione dei programmi di intervento delle singole amministrazioni, sia di quelle ordinarie che di quelle straordinarie, e delle particolari scelte dei privati operatori in ordine al conseguimento degli obiettivi indicati dallo schema generale di sviluppo».
Con «l’aggiuntività» del piano, rispetto agli interventi ordinari e straordinari dello Stato, si intende assicurare che i finanziamenti non siano sostitutivi di stanziamenti stabiliti dallo Stato, sia in termini di generalità sia rispetto all’area meridionale.
L’elasticità dell’azione comporta la manovrabilità dei mezzi nelle determinazioni di investimento, in modo che i fondi del piano straordinario siano utilizzati in funzione strategica nel processo di sviluppo dell’Isola.
Il piano ripropone cioè le finalità della legge 588 in ordine al conseguimento della massima occupazione stabile e di più rapidi ed equilibrati incrementi del reddito. Giacché però l’economia regionale è aperta verso le altre regioni italiane ed europee si reputa necessario dar vita ad un processo di sviluppo capace di evitare l’attrazione verso zone più favorite. Bisogna, quindi, realizzare – secondo il piano – un sistema autopropulsivo.
Sulla base del bilancio economico regionale, si formulano una serie di ipotesi in materia di livelli di occupazione, reddito e investimenti, tali da assicurare nel futuro l’accostamento dell’Isola alle medie nazionali ed inserire la medesima nel processo di sviluppo economico e sulle sue risultanze.
Gli obiettivi specifici da conseguire risultano, pertanto, l’incremento della produzione, dell’occupazione e della produttività per addetto.
In questo quadro il settore industriale è posto al centro del processo di sviluppo in quanto esso è il più dinamico agli effetti dell’incremento del reddito e della occupazione.
I criteri e le direttive di intervento tendono a sviluppare le industrie manifatturiere, a dar impulso alle attività industriali connesse con l’agricoltura, a favorire l’evoluzione in forme industriali delle attività artigianali.
Il ruolo dell’agricoltura è connesso ad una profonda trasformazione strutturale del settore. Per tale motivo gli interventi nelle zone irrigue che presentano una maggiore suscettività di sviluppo, assumono particolare rilevanza rispetto a quelli da effettuare nel restante territorio, caratterizzato da una agricoltura a tipo estensivo.
Lo sviluppo delle attività terziarie è strettamente collegato ed in larga misura dipendente dai progressi nei settori agricolo e industriale.
Il piano considera preminenti tra le attività terziarie il turismo e il commercio. Ma interventi a carattere qualitativo devono essere realizzati nel settore delle infrastrutture, mentre la preparazione del fattore umano deve avere carattere generale e diffuso.
Il primo programma esecutivo è l’atti operativo del Piano di Rinascita ed abbraccia l’insieme degli interventi, i fondi per il finanziamento e le previsioni di spesa da realizzare nel periodo che va dal 1° luglio 1962 al 30 giugno 1964. Poiché il programma entra in vigore nell’agosto ’63 è scontato quindi un ritardo di oltre un anno rispetto ai tempi del finanziamento iniziale. Le dichiarazioni di intenzioni del primo programma esecutivo sono rivolte a chiarire che il documento assume una funzione di attesa e di preparazione in modo da lasciare il piano aperto agli elementi nuovi di una evoluzione nazionale ed europea tutt’ora in corso. Il programma risponde alla esigenza di ripartire la spesa tra i diversi settori di attività economica e le varie zone dell’Isola allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e gli operatori economici alle nuove prospettive che si andavano delineando.
Grande rilievo venne dato all’agricoltura, cui venne destinato più di un terzo dei fondi, per la difficile situazione di larghe zone e la necessità di avviare lo sviluppo di quelle irrigue. Il settore delle infrastrutture ed habitat ricevette una considerazione assai importante in quanto, con 13.500 milioni, si intendeva completare le opere in stato di notevole avanzamento e rimuovere le strozzature più importanti. Nel settore industriale i mezzi assegnati erano commisurati ad una analitica valutazione a carattere generale (infrastrutture per zone e nuclei di sviluppo industriale, ricerca mineraria, etc.) sia delle iniziative che dei singoli operatori.
Il programma divenne concretamente operante dopo alcuni mesi dalla sua approvazione in quanto fu necessario predisporre le procedure relative ai singoli interventi, molti dei quali avevano carattere di novità.
Il primo programma esecutivo – come il piano dodecennale – risente, come si è detto, dell’essere formulato a cavallo tra l’una e l’altra fase della programmazione e di contenere a fianco ad elementi di novità, valutazioni e criteri propri della precedente fase di intervento.
In primo luogo per l’amplissimo ventaglio di interventi e il loro articolarsi nei settori tradizionali dell’azione pubblica (infrastrutture e agricoltura irrigua). In questa logica si spiega la destinazione di una quota rilevante dei fondi al completamento di opere già avviate, specie nel campo stradale, e per il sostegno di iniziative già delineatesi nel sistema. Proprio della precedente esperienza è, pure, il ruolo determinante che viene attribuito al settore agricolo sul quale si fonda la possibilità di migliorare l’occupazione degli addetti e limitare l’esodo dalle campagne. […].
Al congresso regionale del 1973 ed una lettera di Corona
Ufficialmente all’ordinale XIV, il congresso va in scena domenica 1° luglio 1973 all’Auditorium di piazzetta Dettori a Cagliari: è il primo dopo la confluenza dei sardisti autonomisti. Sono 300 i delegati dei circa 3.000 iscritti alle sezioni riunite a loro volta in cinque consociazioni.
A svolgere la relazione politica è naturalmente il segretario uscente, che così la sintetizza forzando con lo slogan che vuol dare il tono a tutto il congresso: «I repubblicani per la soluzione del problema sardo inquadrato nel più vasto contesto dell’azione per la redenzione del meridione e con assoluta priorità delle nostre esigenze rispetto a tutti i problemi della collettività nazionale». Sintesi che comunque intende rimarcare due concetti che recuperano entrambi la tradizione politica del partito: la missione regionale che da sola giustifica, anche moralmente, la fatica dell’impegno, e il respiro nazionale della questione sarda. La sfiducia nei confronti della DC è totale, significativa è l’apertura al PCI ma a condizione di una intesa programmatica e di modalità alternative nel “fare governo”. Evidentemente tale disponibilità include tutte le forze di democrazia intermedia e anche – seppure con maggior criticità – i sardisti.
Quella di Corona è una relazione di opposizione decisa al quadro politico di concertazione fra democristiani e comunisti di cui Nino Giagu De Martini – esponente della sinistra di base della DC – costituisce la personificazione. Negli orientamenti ormai affermatisi Corona non scorge una strategia di sviluppo ma soltanto un piatto scambio di favori, nella legislazione di spesa e nell’amministrazione, fra i maggiori partiti.
Analizzate le cause dei perduranti ritardi nello sviluppo socio-economico, egli rilancia proponendo priorità alternative nella spendita dei mille miliardi (saranno poi seicento) dell’atteso nuovo piano di Rinascita. Dice: «E’ intrinseco nel metodo delle incentivazioni che la Regione rinuncia ad ogni disegno programmatico e si fa sostituire nelle scelte, sia ubicazionali che settoriali, dai privati generalmente di estrazione continentale e quindi lontani, se non estranei, alla realtà sarda, portati spontaneamente e legittimamente ad impostare le proprie decisioni in rapporto a previsioni di mero profitto. Di qui lo scollamento tra la realtà socio-economica dell’Isola e il tipo di sviluppo fin qui conseguito. Ma vi è di più: il meccanismo delle incentivazioni troppo frequentemente ha attirato in Sardegna industriali improvvisati, incapaci e spesso spregiudicati, le cui scelte operative erano determinate dalla possibilità di ottenere finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto. E’ quindi del tutto naturale che, in assenza di qualunque ruolo guida della Regione, l’iniziativa privata si è concentrata su settori industriali ad alta intensità di capitale e a basso livello occupativo, e si è insediata in quelle zone più favorite per preesistenti infrastrutture e per favorevole posizione geografica. Ciò ha contribuito a creare fenomeni di congestione a Cagliari e a Porto Torres e ad aggravare lo spopolamento delle zone interne, sottraendo energie all’agricoltura e ad altri settori, compromettendo quindi gli equilibri sia territoriali che settoriali».
Segue, nella analisi del segretario, una lettura attenta della condizione di vita e delle prospettive delle zone interne sia del capo di sopra sia soprattutto del Nuorese. L’obiettivo repubblicano è di superare le strettoie della industrializzazione per poli, favorendo una diffusa industria manifatturiera, di standing medio-piccolo. Così anche nel settore agricolo, da emancipare con logiche produttivistiche e di reddito remunerativo dell’investimento.
Conclusivamente, pare necessaria la «elaborazione di un inventario delle risorse regionali disponibili e la costruzione di una matrice delle interdipendenze settoriali. Tali strumenti dovranno costituire – aggiunge Corona – la base per la futura reimpostazione dell’intera politica regionale di programmazione» e l’approvazione immediata del V programma esecutivo del piano di Rinascita «che da una parte blocchi tutti i finanziamenti pubblici agevolati non ancora deliberati a favore delle attività produttive ad alto rapporto capitale-lavoro, e dall’altra indirizzi i fondi residui del vecchio piano di Rinascita al finanziamento di attività produttive a basso rapporto capitale-lavoro, nell’ambito delle quali dovranno assumere prioritaria importanza le attività produttive del settore agricolo e quelle ad esso correlate».
Fra gli interventi alla tribuna si segnalano quelli del presidente regionale di Italia Nostra, il prof. Antonio Romagnino, che dà atto ai repubblicani della consonanza di vedute e di partecipazione attiva alle battaglie ambientaliste combattute, in campo nazionale e nell’Isola, dalla sua associazione, e del vicesegretario nazionale Emanuele Terrana. I delegati procedono quindi alla votazione di alcuni ordini del giorno – uno a sostegno del Movimento Federalista Europeo, uno sulla libertà d’informazione, un terzo infine di carattere organizzativo interno – ed alla votazione della mozione politica conclusiva, nonché alla elezione dei nuovi organi dirigenti.
Pochi giorni dopo Corona diffonde fra i dirigenti neoeletti una lettera in cui motiva la propria indisponibilità a proseguire nel mandato di segretario regionale. E’ anche un’occasione, questa, per “confessare” con tratto anche palesemente confidenziale le motivazioni del suo impegno politico, tanto più nel difficilissimo avvio promozionale di una formazione sostanzialmente nuova, priva di quella organizzazione e di quelle finanze su cui pure un partito importante dovrebbe poter contare. Fuor di diplomazia Corona denuncia la sottovalutazione, da parte della dirigenza nazionale, delle necessità sia politiche che organizzative e finanziarie del partito in Sardegna. Sottotraccia è comunque rilevabile un messaggio di rinnovata disponibilità a condizione però del superamento di alcuni vincoli per lui non oltre sopportabili.
Data anche la storia politica del leader, il testo, datato 5 luglio 1973, merita d’esser citato integralmente:
«Caro amico, il XIV Congresso Regionale svoltosi a Cagliari il 1° luglio c.a. ti ha eletto fra i membri della direzione che il 15 luglio eleggeranno il nuovo segretario regionale. Poiché non intendo riproporre la mia candidatura sento il dovere di dartene una giustificazione.
«Il nostro Partito soffre, come tutte le strutture della Sardegna, del triste fenomeno dell’insularità che hanno reso rari ed episodici i contatti tra la direzione sarda del partito e quella nazionale. I viaggi a Roma richiedono una disponibilità di tempo che chi oltre a reggere il Partito lo deve rappresentare in solitudine al consiglio regionale (in aula, nelle commissioni, nelle riunioni dei gruppi ed in tutte le articolazioni della vita consiliare) non riesce assolutamente a trovare.
«Ho inoltre fondata certezza che in provincia di Sassari e di Nuoro il Partito si muova poco o nulla, il che porrà ancora una volta l’eletto nella provincia di Cagliari a rappresentare il Partito al consiglio regionale in drammatica solitudine – con l’aggravante che un partito che non cresce è un partito malato – e destinato al discredito nell’opinione pubblica e delle altre forze politiche.
«Nell’aderire al PRI ho considerato prevalenti la affinità ideologica e programmatica, nonché il grande rigore morale con cui esso ha sempre affrontato, nel paese, i problemi della libertà, della democrazia, della giustizia sociale e del laicismo. Né ho mancato di considerare che l’ingresso in un partito nazionale ci avrebbe potuto aiutare a crescere fino a diventare una componente importante delle forze politiche sarde. Noi abbiamo compiuto ogni sforzo per raggiungere tale obiettivo.
«Privo o quasi di mezzi finanziari, mancante di strutture organizzative efficienti (ciò in gran parte dovuto alla deficienza di mezzi), non inserito in alcun organismo di potere o di sottogoverno (nessuna presidenza né alcun consigliere d’amministrazione nei 40 enti più importanti operanti in Sardegna), senza alcun membro nella direzione nazionale, senza eletti al senato e alla camera, il Partito ha finora combattuto la sua battaglia per la sopravvivenza in condizioni eroiche.
«Ha difeso la linea nazionale del PRI, ne ha mantenuto integro il prestigio con un’azione quotidiana seria, responsabile e rigorosa senza mai nulla concedere, in nessun angolo della Regione, ad interessi che non fossero quelli del popolo sardo.
«Di ciò va dato merito a tutto il Partito ed alla sua dirigenza ai vari livelli e nelle varie consociazioni. Ne è stata significativa e testimonianza l’unanime approvazione della linea politica seguita e la riconferma della struttura dirigenziale uscente.
«Ma a questo impegno come ha risposto la dirigenza nazionale? In occasione dell’ultima crisi regionale c’è stato un marcato disinteresse della nostra situazione e dei nostri problemi. E’ stato infatti consentito alla DC di bocciare in consiglio la giunta di centro-sinistra organico con la nostra partecipazione e la immediata ricostituzione di una nuova giunta con la nostra esclusione e la partecipazione del Partito Sardo d’Azione. La nostra presenza in giunta ci avrebbe consentito l’espansione del Partito e l’elezione di almeno un altro consigliere, e perciò avevamo sollecitato la Direzione Nazione ad un impegno tenace.
«In quel momento il PRI faceva parte della maggioranza e secondo l’on. La Malfa la richiesta a Forlani od Andreotti di un intervento a nostro favore avrebbe immediatamente provocato la sollecitazione all’ingresso nel governo dei repubblicani. Poiché tale richiesta poteva mettere in imbarazzo la segreteria nazionale non fu fatto alcun passo con la conseguenza che siamo stati umiliati senza nessuna possibilità di difesa.
«Poiché sono convinto che anche ora che siamo al governo non mancheranno giustificazioni per continuare a pensare in termini distaccati al Partito in Sardegna, come è avvenuto per il passato (vedi il caso UIL, ENDAS, AGCI), desidero non essere rieletto segretario regionale nella speranza che altri sia più fortunato di me».
Nonostante le insistenze dell’interessato, Corona viene però confermato nella sua carica. E così procedendo, la direzione rinnova anche la richiesta di una «sollecita liquidazione della Giunta Giagu», contestandone «il vuoto del contenuto programmatico e l’ambiguità della formula». (Va ricordato che fra agosto e settembre la II giunta Giagu - un quadripartito DC-PSI-PSDI-PSd’A durato appena sei mesi – lascia spazio a un nuovo esecutivo che, ancora con il voto contrario del PRI, ottiene la fiducia per conservarla… per appena cinque settimane! e passa quindi il testimone ad una nuova presidenza Del Rio).
Nel pieno della crisi politica riaffacciatasi a fine anno, il settimanale Il lunedì – pubblicazione periodica diretta da Manlio Brigaglia con redazione costituita in prevalenza da giornalisti de La Nuova Sardegna (in rotta con la propria testata per l’opprimente peso della proprietà rovelliana) – dedica una ampia inchiesta agli orientamenti dei diversi partiti politici. Queste la parte riguardante i repubblicani: «I repubblicani applicano al caso sardo il loro rigore lamalfiano: “Noi condanniamo severissimamente l’incredibile perdita di tempo di questi ultimi mesi – dice l’on. Armandino Corona –. La situazione è drammatica, e la soluzione della crisi si presenta difficile. Si sono persi tre anni a discutere sulla distribuzione dei dc alla presidenza di vari enti. Ora dovrebbe bastare. Noi siamo favorevoli al centro-sinistra organico, cioè alla stessa formula del governo di Roma, perché questa formula, dopo i fallimenti degli Anni Sessanta, ha mostrato di avere uno spirito nuovo. Il problema è di vedere se anche in Sardegna siamo capaci di creare questo “spirito romano”, senza demagogia, senza tatticismi, senza degenerazioni assembleari come quelle che si son viste nella discussione sul piano della pastorizia, con un emendamento votato dalla DC e dai fascisti, e un altro votato dai DC e dai comunisti. Noi repubblicani chiederemo che si facciano subito alcune cose particolarmente urgenti anche perché la crisi energetica minaccia di riportare in Sardegna migliaia di emigrati di ritorno dall’Italia e dall’Europa. Ecco le nostre proposte: trasformare il quinto esecutivo in piano di emergenza, con particolare attenzione al rifinanziamento dei mutui edilizi e il rilancio delle provvidenze per il risanamento igienico delle abitazioni; procedere alla forestazione diversificata di 100-150mila ettari al di sopra dei seicento metri; per i terreni al di sotto di quella quota, che si mettano in esecuzione i 20 miliardi di progetti di miglioramento fondiario che ora sono fermi nei cassetti degli ispettorati agrari» (cf. Il lunedì, 10 dicembre 1973: “Dentro una crisi più grande”).
A livello nazionale, Il Partito Repubblicano vive, nel 1973, una stagione importante. A luglio il IV governo Rumor, organico di centro-sinistra, dà il cambio al II Andreotti, o Andreotti-Malagodi di centro (e privo della partecipazione repubblicana). Dopo aver recuperato il rapporto con il segretario socialista De Martino, La Malfa si impegna in prima persona alla testa del ministero del Tesoro; sono nell’esecutivo anche Pietro Bucalossi, senza portafoglio alla Ricerca scientifica, ed i sottosegretari Compagna e Cifarelli. La direzione del partito quindi, pregando il suo segretario politico di conservare la sua leadership anche nominale, propone al Consiglio nazionale di dar vita ad un comitato di segreteria, con i due vice Battaglia e Terrana e la partecipazione, dei neodeputati Aristide Gunnella ed Oscar Mammì e, in veste di presidente, di Oddo Biasini. E le federazioni territoriali del partito sono interessate a costituire dei centri di studio «per i problemi della ricerca scientifica» la cui guida sia affidata a competenti acquisiti dal comitato nazionale come “membri corrispondenti” del comitato nazionale».
Al rinnovo del Consiglio regionale nel 1974
Il 1974 è, per il PRI sardo, anno di elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale (a giugno) e di congresso regionale (a novembre). Fra l’uno evento e l’altro un lutto colpisce tutta la famiglia repubblicana sarda per la morte, a ferragosto, dopo un anno circa di malattia, dell’ex segretario regionale Bruno Josto Anedda. Di speciale soddisfazione è, fra i fatti più rilevanti, è la nomina governativa del repubblicano Tancredi Pilato all’ufficio di Provveditore alle Opere Pubbliche della Sardegna.
La scommessa elettorale è giocata dal PRI con il massimo impegno ed il fattivo sostegno della dirigenza nazionale e dello stesso Ugo La Malfa dimessosi in primavera dal governo per dissidi con il collega ministro del Bilancio Antonio Giolitti.
Il partito compie tutti gli sforzi per raggiungere, nelle settimane di campagna elettorale, ogni segmento di opinione pubblica con comizi, incontri personali e presenza sulla stampa. Di tanto fa efficace riassunto una lettera che lo stesso segretario nazionale indirizza ai sardi, datandola da Alghero il 10 giugno, e diffondendola sia con volantini sia pubblicandola sui giornali regionali oltreché su La Voce Repubblicana.
Il coraggio di essere andati controcorrente rispetto alle due questioni d’interesse regionale che hanno segnato gli ultimi mesi la volontà della politica nazionale, vale a dire il rifinanziamento della legge di Rinascita (la cosiddetta 509, poi legge 268/1974 approvata all’indomani delle elezioni) e l’istituzione della provincia di Oristano (il che avverrà a luglio, con 75 comuni), dà ai repubblicani l’orgoglio di aver difeso, pur fra incomprensioni, una linea rigorista della spesa ed essi ne attendono il pubblico riconoscimento.
Nel 1972 i repubblicani avevano aderito, non senza riserve, al disegno di legge 509 che recepiva alcune conclusioni della nota commissione parlamentare d'inchiesta: ci si proponeva di rifinanziare (con mille miliardi di lire), integrare e modificare la legge del 1962, riformando l'assetto agro-pastorale della Sardegna. Avevano però rilevato l’inadeguatezza dei poteri regionali nella rapidità (e magari nella convenienza) della spesa. Il sen. Luigi Mazzei lo aveva detto nel dibattito a Palazzo Madama: «Se è vero che sono mancati programmazione e coordinamento, è anche vero che il lamentarsi del mancato carattere di aggiuntività delle somme stanziate dal primo piano di Rinascita diventa incomprensibile quando si pensi che su 400 miliardi ne sono stati impiegati solamente 218. E’ evidente che mancavano progetti sui quali impegnare gli stanziamenti del piano e che c’è stata una grave responsabilità da parte della classe dirigente». Il voto favorevole dei senatori repubblicani intendeva essere comunque manifestazione di una doverosa «solidarietà nazionale».
Proprio nei giorni, a cavallo fra febbraio e marzo, in cui decisivo si fa la sollecitazione del Consiglio regionale e della stessa deputazione sarda (e perfino del sindacato che proclama infatti uno sciopero generale) per l’approvazione, da parte del Parlamento, del rifinanziamento della legge di Rinascita, La Nuova Sardegna (cf. 1° febbraio 1974) apre una tribuna di confronto fra le forze politiche che danno diffusamente conto del loro giudizio sulla materia. Per il PRI interviene il vice segretario nazionale Adolfo Battaglia. Ecco alcune delle sue osservazioni critiche sull’impianto della legge:
«I repubblicani diedero due anni fa la loro firma al disegno di legge n. 509. Poteva essere uno strumento per rianimare il dibattito sulla Sardegna. Ma è poi mancata alle forze politiche sarde… quel che era sperabile avessero almeno come ultimo sussulto, avendone grandemente difettato fino allora: la capacità di approfondire e articolare il discorso in termini più validi e più specifici. Ed è subentrata, insieme, una situazione che è completamente nuova dal punto di vista economico, finanziario, monetario. Vale perciò la regola che in situazioni nuove è un errore continuare ad impostare i problemi in termini vecchi, o superati. Tutto il discorso sullo sviluppo della Sardegna, e sui finanziamenti che ad essa sono necessari, deve essere perciò impostato diversamente, per cavare davvero qualche ragno dal buco.
«Guardiamo al modo come sono stati utilizzati i 400miliardi del piano di Rinascita stanziati per la Sardegna nell’ormai lontanissimo 1962. In dodici anni ne sono stati “impegnati” 292 e ne sono stati spesi effettivamente solo 241; deve ancora essere programmata la spesa di oltre 150 miliardi (il residuo di oltre 100 miliardi sullo stanziamento iniziale, più i 50 miliardi circa che sono venuti attraverso gli interessi bancari). E guardiamo anche al tipo di spesa frammentaria, dispersiva, improduttiva clientelare che in questi dodici anni è stata realizzata, non in favore ma ai danni dell’isola. Guardiamo al mondo come son stati amministrati i fondi del bilancio regionale ordinario, che presenta vasti residui passivi. Guardiamo al modo in cui la classe politica ad egemonia democristiana, non senza pesanti collusioni “conciliari” con il partito comunista, è riuscita a non sviluppare la Sardegna, a mettere in crisi la autonomia, a logorare la rinascita, a creare un vasto senso di sfiducia in tutta l’isola. Guardiamo a tutto questo e poi sarà facile stabilire che è poco sensato che questa classe politica, in questa situazione economica del paese, senza alcuna garanzia alle sue spalle di capacità e di fattività, senza alcuna autocritica, senza proporsi alcun coordinamento con la politica economica del Governo e con la politica delle altre Regioni, continui a chiedere 1.000 miliardi, quando ancora ne ha pronti e disponibili 150 che non sa spendere. Non è neppure questione di cifra: è questione che, in mancanza di una chiara presa di coscienza delle responsabilità passate, non modificandosi i meccanismi che hanno determinato esperienze così negative, non impostandosi il problema dello sviluppo in termini sostanzialmente diversi dai vecchi moduli, il continuare a chiedere puramente e semplicemente, ostinatamente, la approvazione del disegno 509, equivarrebbe ad autorizzare la classe politica sarda a proseguire tranquilla su una linea di errori e dissipazioni che tanto più nelle attuali condizioni nessuno potrebbe accettare: non le regioni settentrionali, che si sono messe un terreno operativo, non le Regioni meridionali, che non potrebbero ammettere uno stanziamento straordinario per la sola Sardegna equivalente a quello per l’intero Mezzogiorno, non il Governo e il Parlamento, che hanno il problema di realizzare in termini concreti e rapidi la politica antirecessiva e antinflazionistica».
Controcorrente anche l’opinione circa la istituzione della nuova provincia di Oristano, espressa in commissione Interni della Camera. E’ lo stesso Ugo La Malfa, parlando nel corso della campagna elettorale ad Oristano, a motivare la contrarietà dei repubblicani. Le ragioni sono state espresse, con grande nettezza, in sede parlamentare: l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario impone di «adottare forme diverse di decentramento, più efficaci dei vecchi consigli provinciali e più utili alle popolazioni interessate». Parrebbe più serio affrontare globalmente la materia determinandosi lo Stato, ove non voglia rinunciare ai consigli provinciali, a darsi «un assetto possibilmente definitivo» riguardo alle circoscrizioni territoriali.
Il programma elettorale repubblicano è molto concreto: «rinnovare l’assetto agro-pastorale dell’Isola e quello delle zone interne; approvare celermente la legge sulle comunità montane; invertire le priorità nella programmazione industriale, dando la precedenza a quelle manifatturiere di trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli; considerare l’agricoltura settore primario d’intervento; incrementare il turismo e la salvaguardia del patrimonio naturale dell’Isola; affrontare il problema delle fonti di energia, con particolare riguardo alle miniere; compiere un’indagine conoscitiva sulle disponibilità di acqua, affinché si realizzi un piano idoneo a fornire l’Isola dell’acqua necessaria alla sua economia ed alla sua popolazione; servirsi del “quinto esecutivo” come anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo piano di Rinascita, concepito senza la demagogia che sta caratterizzando il dibattito sulla 509».
Un bel libro fotografico, con titolo La Sardegna non è un’isola e un editing molto curato, aperto da un messaggio dell’on. La Malfa e con testi che “leggono” la realtà sarda nei suoi ritardi ma più ancora nelle sue potenzialità ancora inespresse, viene diffuso in occasione degli incontri con gli elettori. Per parte sua, La Voce Repubblicana, con i suoi speciali sardi, viene anch’essa distribuita in occasioni delle pubbliche manifestazioni. Idem il mensile dei giovani repubblicani Oggi come, che a giugno pubblica un supplemento regionale di quattro pagine.
E’ forse attribuibile a Bruno Josto Anedda un lucido articolo firmato “Salvatore Frassu” – per lui, gravemente ammalato, l’ultimo – che La Voce pubblica con grande risalto nel suo numero dell’8 giugno. Titolo “Sarabanda demagogica”. Si tratta di una riflessione sugli indirizzi della politica autonomistica portata avanti da una Regione che ha molto da farsi perdonare ed è in qualche modo delegittimata, agli occhi dello Stato e della opinione pubblica, stanti soprattutto i capitali che essa non sa spendere e dati gli sprechi di risorse che è dato rilevare in ogni settore della vita economica.
Politicamente di rilievo, nel contesto della campagna elettorale del 1974, è il documento di adesione al PRI a firma di Salvatore Leoni, per trent’anni esponente di primo piano del sardismo barbaricino ed in particolare di Lula, dove il PSd’A conta su un radicato elettorato. La svolta separatista impressa al Partito Sardo e più ancora un massimalismo nazionalitario associato ad una cointeressenza politica con la sinistra democristiana di Nino Giagu che egli duramente contesta, induce Leoni ad uscire dal PSd’A e a diffondere un suo manifesto politico nel quale, in breve, sostiene che l’autentico autonomismo vive nelle fila del Partito Repubblicano Italiano. Ecco un breve stralcio del testo indirizzato ai «Cari amici ex sardisti»:
«Io che ho potuto seguire per tanti anni la linea di questo partito, nella lettura costante della “Voce Repubblicana” ho constatato gli indirizzi di carattere politico, morale che i repubblicani perseguono; ho apprezzato la loro voce nella cultura più elevata del paese, il loro equilibrio, l’aderenza ai problemi di ogni giorno e alle cose, il rifiuto dell’astrattismo; un giornale che è “un libro”, che ti dà una cultura, che a me ha dato una cultura.
«Nella considerazione di quanto ho detto e nella convinzione che non bisogna mai darsi per vinti, vorrei invitarvi ad un incontro per trovar il modo di aderire, in veste di simpatizzanti, al Partito Repubblicano: per ritrovare il posto che ci spetta – come civico dovere – nel lavoro politico al servizio della libertà e della democrazia come già abbiamo fatto e oggi più non possiamo fare nel nostro ex partito.
«Porteremo al Partito Repubblicano un contributo di onestà, di conoscenza dei problemi della nostra terra con indicazioni capaci di avviare a soluzione questi problemi. Senza nulla chiedere, per convinzione morale per il nostro onore e per l’onore dei nuovi amici».
Consapevoli della posta in gioco e nella convinzione di poter strappare un secondo seggio a Nuoro o a Sassari, i repubblicani preparano una lista “competitiva”, per quanto si conosca il potenziale elettorale dei candidati. A Corona è assicurata la capolistura in tutti e tre i collegi provinciali, ma per buona parte della campagna elettorale egli resta escluso dalle iniziative pubbliche a causa di un infarto che due mesi prima lo ha colpito e di cui però, onde evitare malevole speculazioni, nessuno parla.
Non mancano, come detto, le presenze di grande rilievo sui palchi dei comizi pubblici. Intanto è in Sardegna Ugo La Malfa, che parla nel capoluogo ed in vari centri del capo di sopra ed in ultimo ad Alghero, Nuoro, Oliena ed Oristano; incontra i giornalisti nella sede del partito, a Cagliari, ribadendo le riserve del PRI sugli indirizzi della nuova legge di Rinascita e sulla istituzione della quarta provincia (ampio spazio la stampa regionale riserva ai giudizi minuziosamente argomentati del leader). Viene anche Giovanni Spadolini, per la prima volta in veste di esponente di primo piano del partito, che conclude la campagna elettorale, venerdì 14, a Cagliari.
Nonostante l’impegno profuso e le attese, il risultato è, ancora una volta, deludente, soprattutto per le penalizzazioni cui costringe la legge elettorale, non consentendo essa alle piccole formazioni di sfruttare appieno, in termini di seggi, i voti raccolti nei tre collegi. Sicché i 20.596 suffragi complessivi, pari al 2,6 per cento, concedono appena la conferma del solo eletto nel collegio di Cagliari, vale a dire Armando Corona (con 3.519 preferenze personali).
Il dato è relativamente uniforme nei vari territori, perché a fronte del 2,7 per cento di Cagliari (dove si raccolgono 11.897 voti, che sono circa 500 in meno che nel 1969), si pongono i risultati di Sassari (2,4 per cento per 5.326 consensi), e di Nuoro (pure il 2,4 per cento per dato assoluto di 3.380, che marca però quasi un dimezzamento rispetto al 1969).
Sotto il profilo delle performance personali, sono degne di nota quelle di due giovani leader in ascesa: Salvator Angelo Razzu (1.383 preferenze nel collegio di Sassari) ed Antonio Catte (1.356 nel collegio di Nuoro). Apprezzabili i risultati anche di Alberto Mario Saba, Antonio Oliva e Gianni Cabizzosu nel collegio di Sassari, e di Lello Puddu in quello di Nuoro.
Al nuovo congresso regionale arrivano i socialdemocratici
L’estate serve per smaltire la delusione e preparare il congresso regionale – il XV della serie – convocato ai primi di novembre a Cagliari (salone Casmez della Fiera Internazionale). Anticipato rispetto alla consueta biennalità esso intende dare visibilità ad una operazione politica che potrebbe – ma poi non avrà – conseguenze rilevanti anche sul piano elettorale: la confluenza nel PRI di un’ala cagliaritana del Partito Socialdemocratico Italiano. Si parla di millecinquecento iscritti – ma il numero è senz’altro esagerato – che lasciano le loro sezioni scorgendo nella politica repubblicana una più credibile prospettiva di sviluppo dell’Isola. A guidare l’operazione (che si tende a qualificare “di sinistra”) sono l’ex segretario regionale del PSDI Ignazio Cella e uno dei più rispettati dirigenti, Franco Farina, avvocato e docente universitario.
La linea del partito rimane quella del centro-sinistra, contraria agli accordi nascosti fra democristiani e comunisti, ma meglio definendo programmaticamente l’area cosiddetta intermedia. In verità, a giudizio di diversi osservatori, il PRI è ancora incerto nella sua strategia, quasi che i suoi numeri lo scoraggino dal forzare gli altri protagonisti della scena politica ad “inventare”, con esso, il nuovo.
L’intervento del vicesegretario nazionale Adolfo Battaglia vale a collegare l’impegno che il partito chiede a se stesso, prima che agli altri, nell’Isola a quello che si vede espresso dai ministri repubblicani nel nuovo governo Moro-La Malfa. A dimostrazione che non sono mai i numeri, per quanto limitati essi appaiano, ad impedire ad un partito di tanta storia di offrire un contributo positivo allo sviluppo civile e sociale della comunità, nazionale o regionale che sia.
Due notazioni. Sul piano programmatico si distingue nel dibattito l’apporto degli esponenti ex socialdemocratici che chiedono anch’essi l’abbandono delle «illusioni miracolistiche dei grandi insediamenti industriali ad ogni costo» e «la valorizzazione delle risorse locali, particolarmente quelle dell’agricoltura, della zootecnia, della forestazione, del turismo, dell’artigianato, della pesca e dell’acquacoltura, delle miniere». Su quello prettamente politico si rileva la presenza, insistita ed attenta, di due altri esponenti politici che guardano con simpatia al PRI: l’ex consigliere Armando Zucca, lussiano della prima ora, che con Corona ha collaborato all’interno del gruppo misto nella precedente legislatura regionale, e l’ex parlamentare socialista/MPL nuorese Cesare Pirisi, che presto si darà disponibile a candidarsi con il PRI.
La conclusiva mozione Corona raccoglie 2.300 voti congressuali che infine significano 18 eletti nella direzione regionale, quella di minoranza 550 voti ed elegge i soli Merella, Massaiu e Pau.
Riunitasi il 22 novembre ad Oristano, la nuova direzione conferma Corona alla segreteria (con Bulla vice e nell’esecutivo un rappresentante per ciascuna provincia). Mentre conferma l’appoggio repubblicano alla giunta Del Rio, essa delibera di convocare «una conferenza politica in cui, oltre a problemi di carattere generale, sarà discusso e messo a punto un programma di lavoro capace di consentire al PRI di dare un apporto costruttivo alla attuazione delle linee programmatiche della legge 268 ed al raccordo tra il nuovo piano di rinascita ed il quinto programma esecutivo e il piano della pastorizia; l’obiettivo sarà quello di promuovere investimenti rapidi nei settori portanti dell’economia isolana per favorire intraprese economiche a produttività crescente, capaci di elevare progressivamente i livelli occupativi».
All’indomani delle elezioni, la politica regionale cerca nel patto di centro-sinistra di sviluppare quanto impostato nell’ultima parte della VI legislatura, tant’è che è stato affidato allo stesso ex presidente Del Rio il compito di ripartire con il tripartito DC-PSI-PSDI appoggiato dal PRI. Il quadro complessivo dell’assemblea vede un rafforzamento dell’area socialista (da 9 a 12 seggi) e ciò costituisce un vincolo per la DC, a sua volta scesa da 36 a 32 seggi, come alternativa a cedimenti verso il PCI (passato da 15 a 22 seggi, con un incremento evidente pur se in parte riflesso della scomparsa del PSIUP). In tale quadro non sembra neppure più valida la “carta” sardista, atteso che il PSd’A s’è anch’esso ridotto ad un solo seggio, di carattere testimoniale, per l’on. Giovanni Battista Melis.
La nuova giunta Del Rio durerà giusto venti mesi. Il PRI s’accontenta di accordi sul programma e di essere coinvolto in un interpartito di maggioranza, così da seguire da presso l’attività dei diversi assessorati. In realtà tanto gli impegni programmatici quanto le intese prettamente politiche non trovano, col tempo, adeguata attuazione inducendo il partito a manifestare, in Consiglio e sulla stampa ed in termini sempre più critici, la propria insoddisfazione.
Tale posizione all’apparenza ancillare, in realtà di responsabilità – perché tutto dà senza nulla ricevere – si incrocia con il protagonismo che lo stesso PRI mostra sulla scena nazionale tra la fine del 1974 e l’inizio del 1975. Ciò sia per la partecipazione diretta, e con funzioni di primo piano, nel governo presieduto da Aldo Moro, sia per l’eco che il congresso nazionale di Genova suscita all’interno dei partiti politici e nella prospettiva delle prossime coalizioni.
Il bicolore Moro-La Malfa – in cui il leader repubblicano ha funzioni di vicepresidente – entra in carica a novembre, sostenuto dall’esterno anche dai due partiti socialisti. La formazione ministeriale repubblicana è di alto livello: oltre La Malfa vi figurano Oronzo Reale alla Giustizia, Bruno Visentini alle Finanze, Pietro Bucalossi ai Lavori Pubblici, Giovanni Spadolini all’istituendo ministero per i Beni Culturali e Ambientali, mentre i sottosegretari sono Battaglia (agli Esteri), Pinto (alla Sanità), Gunnella (alle Partecipazioni Statali) e Compagna (agli interventi straordinari nel Mezzogiorno e nelle zone depresse del nord Italia).
L’atteggiamento costruttivo del PCI in sede parlamentare, in specie sui provvedimenti di politica economica, e l’atmosfera di rispetto per l’alto profilo del ministero concedono a questo di lavorare efficacemente per un anno e tre mesi, fino a che sarà il segretario socialista De Martino, proponendo la sua strategia degli “equilibri più avanzati”, a determinare la crisi, ottenendo le elezioni anticipate che, preparate da un monocolore dc, puniranno duramente il PSI aprendo la strada alla leadership di Craxi.
1975, anno elettorale per comuni e province
E’ nel contesto temporale del governo bicolore che si svolge, tra febbraio e marzo 1975, il congresso nazionale del PRI. I delegati sardi sono guidati dal consigliere nazionale uscente Puddu, che svolge un intervento a sostegno della linea della segreteria: «Anche in Sardegna – dice attraverso l’opera intelligente dell’amico Corona si è fatta strada nella pubblica opinione l’immagine di un partito vivo, pulito, estremamente rigoroso nel combattere le degenerazioni istituzionali, le sacche del parassitismo, le pratiche di sottogoverno e di clientelismo».
Fra gli ordini del giorno approvati dall’assemblea uno è presentato dagli isolani. Recita così: «Il XXXII Congresso nazionale del PRI, rilevato che la situazione economica della Sardegna risulta aggravata rispetto alla pur seria crisi nazionale per le condizioni di isolamento per mare, per il massiccio riflusso di emigrati, per il dissolvimento della antica e recente struttura industriale con riflessi di deterioramento nei settori tradizionali, invita la Direzione nazionale che sarà eletta, a realizzare un incontro tra gli organi dirigenti regionali del partito e i rappresentanti repubblicani nel governo al fine di determinare gli strumenti più idonei per consentire la ripresa economica e sociale della Sardegna».
Con Puddu confermato nel Consiglio nazionale, Armando Corona viene eletto nel Collegio dei probiviri di cui assumerà presto la presidenza. In una conferenza-stampa appositamente convocata i due illustrano le ricadute isolane delle decisioni congressuali: ribadito il sostegno al tripartito Del Rio (dati anche i chiarimenti nel frattempo intervenuti nella maggioranza) si insiste per una più puntuale attuazione del programma concordato: V programma esecutivo, piano della pastorizia, riforma burocratica e degli enti (con l’abolizione di quelli inutili). Fra le priorità: moralizzazione amministrativa e maggior autonomia degli enti locali nella rinnovata formula delle aggregazioni territoriali (comunità montane e comprensori).
Restituita a Lello Puddu la segreteria regionale, l’obiettivo è il rinforzo organizzativo del partito che ancora si presenta a macchie di leopardo. Sono in particolare le consociazioni provinciali che cercano di coprire i vuoti, individuando dei referenti di territorio così da realizzare una rete coerente, capace di iniziativa sui singoli territori, tanto più a livello amministrativo comunale, ed insieme di veicolare – in un rapporto biunivoco – la proposta politica generale del partito, i suoi valori e la sua tradizione.
Ciò è particolarmente importante in vista delle elezioni amministrative fissate per giugno, in uno a quelle regionali nella penisola. Elezioni il cui risultato complessivo, pur non eclatante, finisce comunque per consolidare la presenza del partito nelle diverse amministrazioni locali, sia attraverso liste Edera sia per il tramite di liste civiche.
Alle provinciali il dato complessivo regionale è di 23.842 voti, pari al 2,7 per cento. Il consenso repubblicano si spalma come segue: 7.048 voti in provincia di Cagliari (1,8 per cento), 3.989 in quella di Oristano (4,4), 7.834 in quella di Sassari (3,3) e 4.964 in quella di Nuoro (3,3). Si mantengono sostanzialmente le posizioni in queste ultime due, mentre è da precisare che dai dati di confronto della provincia di Cagliari vanno scorporati quelli della nuova provincia di Oristano, che esordisce adesso con un suo Consiglio. Peraltro, la conseguenza diretta di tale scorporo è che il consigliere repubblicano viene eletto ad Oristano (è Giuseppe Bonomo, per la più alta percentuale nel suo collegio di Arborea) e non a Cagliari, confermandosi i due seggi nelle altre province (uno a Sassari – Salvator Angelo Razzu, vincitore a Sorso – e uno a Nuoro – Antonio Catte, che vince ad Oliena).
In quanto alle comunali, Cagliari registra 4.030 voti, con percentuale del 2,9, in miglioramento e rispetto al 1974, ma in leggera flessione rispetto alle politiche del 1972 e alle regionali del 1974. L’eletto è l’ex consigliere (e assessore) provinciale Marco Marini (con 811 preferenze personali), che avvicenda così il collega Vincenzo Racugno. In forte crescita è il partito ad Oristano, dove i voti sono 753, con percentuale il 4,6 e due eletti gli eletti: Tonino Uras e Piero Carloni (con 270 e 199 preferenze rispettivamente). Ottima la performance di Sassari, con 2.022 voti pari al 3,1 per cento e un eletto (l’uscente Nino Ruju che raccoglie 334 preferenze). Buono, pur se in flessione, anche il risultato di Nuoro con 823 voti, il 4,3 per cento e un eletto (l’uscente Salvador Athos Marletta con 226 voti personali). Significativa riuscita anche nelle altre piazze di tradizione, da Olbia (eletto Cattrocci) a Sorso (con 740 voti vengono eletti Razzu, Addis e Murineddu).
Certo, l’elettorato del PRI risponde più ad una tipologia urbana che non rurale, ma ciò deriva non dalla marginalità che l’agricoltura e il suo sviluppo hanno nel programma repubblicano, ma dalla incapacità che finora la dirigenza ha mostrato di coinvolgere la militanza e l’area di simpatia presente nelle campagne nella battaglia politica propriamente detta. Così come un punto di debolezza permane nella dispersione dei repubblicani sindacalizzati fra le tre confederazioni, mentre si riterrebbe più rispondente ed efficace – dati i piccoli numeri della sua partecipazione – una presenza organizzata nella sola UIL.
Sono molte le realtà sociali presenti nella pur minoritaria famiglia dell’Edera sarda. Fra esse non mancano certamente quelle scolastiche ed accademiche oltre a quelle, forse più abbondanti, professionali ed impiegatizie. Si tratterà di sviluppare il rapporto con le nuove generazioni, per il che si fa molto affidamento sulla Federazione Giovanile che, attraverso l’impegno universitario e la partecipazione alle elezioni di rappresentanza, darà grandi soddisfazioni soprattutto a partire dai primi anni ’80.
Tanto a livello nazionale quanto a livello regionale le urne registrano un forte spostamento (nell’ordine del 6-8 per cento) verso le formazioni della sinistra, il che comporta che anche nell’Isola diverse maggioranze si possono costituire attorno al PCI non meno che attorno alla DC. L’indirizzo generale seguito dal PRI è di favorire, ove se ne diano le condizioni, le intese di centro-sinistra, comunque non negandosi pregiudizialmente all’incontro maggioritario con PCI, meglio se “federando” fra loro i partiti laici.
Non mancano le proposte, anche sperimentali, tese a mediare fra gli interessi dei maggiori partiti che si disputano, qua e là, la maggioranza. A Cagliari e in altri centri si ipotizzano schieramenti-ponte di “centro laico”, quanto meno per stemperare le tensioni ed evitare troppo bruschi cambiamenti di scena. Ma anche fra le forze dell’area intermedia le differenze (e le diffidenze) sono tali che l’ipotesi non procede come si sarebbe sperato.
Nel novero è da segnalare anche la proposta che la consociazione nuorese del PRI avanza per sbloccare l’impasse fra i partiti alla Provincia ed nel capoluogo: la soluzione indicata è quella di un esecutivo “laico”, costituito cioè soltanto dalle forze socialiste, dal PRI e dal PLI, con l’appoggio esterno tanto di DC che di PCI, al fine, come detto, di far decantare la tensione politica che blocca le istituzioni rappresentative.
Peraltro è da rilevare che in alcune realtà particolari in cui il PRI continua ad appoggiare amministrazioni monocolore o a prevalenza democristiana – come avviene ad Oristano – da parte del maggior alleato non viene adeguato rispetto delle funzioni di chi a quelle maggioranze contribuisce: ciò finisce per sfilacciare intese collaudate, seppure mai tranquille. Le circostanze in cui tali disarmonie si verificano, indebolendo il quadro politico, sono diverse. Ad esempio, proprio ad Oristano, accadrà sia negata ad alcuni repubblicani la partecipazione alla gestione dei comprensori istituiti con legge del 1974.
Sotto altri profili, investe ormai la consapevolezza dell’intero partito il nuovo ruolo che, anche nella maggior concorrenzialità delle formule politiche spendibili sulla scena delle amministrazioni locali, il PRI può giocare come pedina necessaria alla formazione delle maggioranze. Ciò comporta un nuovo sforzo organizzativo proprio in capo alle consociazioni provinciali che assistono le sezioni locali a darsi più efficienti assetti e ad inserire progressivamente nelle responsabilità di direttivo i nuovi iscritti.
Va detto che la stampa regionale offre sempre più spazio alle ragioni repubblicane (nel periodo sarebbe da segnalare specialmente una lunghissima intervista dell’on. Corona a L’Unione Sarda; cf. “Con chiarezza e responsabilità”, 16 settembre 1975) e che, anche con l’associazione di Nino Ruju al Comitato regionale della programmazione (in quanto esperto sanitario ed economista) si aprono per il PRI isolano le porte di una nuova stagione destinata a presto maturare: quella della “unità autonomistica”.
Alla riunione della direzione regionale che si convoca il 6 novembre, il segretario Puddu rileva che la forza politica e morale del PRI, pur nella evidente esiguità della sua consistenza elettorale o nella rappresentanza, è data dalla sua capacità di darsi, unito e pragmatico, ad analisi e a proposte programmatiche di cui è facile cogliere la serietà e l’adeguatezza. Intervengono nella discussione tutti o quasi i maggiori dirigenti, portatori ciascuno di esperienze e conoscenze approfondite delle maggiori materie sul tappeto, dall’economia produttiva ai servizi, dalla finanza all’urbanistica. Parlano così Puligheddu, Merella, Maccioni, Uras, Massaiu, Martignetti, Corona, Oliva, Carloni, Uda, Bonomo, Tronci, Cella, ecc. – e da tutti si ribadisce come l’impiego dei fondi pubblici esiga criteri severi di programmazione e calcolo dei costi, «impegnando le finanze regionali nel sostegno di imprese attive e autosufficienti, capaci di dilatare l’occupazione ed incoraggiare settori, quali l’agricoltura, in grado di utilizzare le risorse locali e di assorbire un numero crescente di lavoratori».
Il comunicato finale segnala ancora una volta la necessità di una rapida e complessiva ristrutturazione degli enti regionali, della riforma agro-pastorale, della ricerca idrica e dello sviluppo minerario-metallurgico, del rilancio delle piccole e medie imprese anche nel settore artigianale, ed ancora di una nuova politica di trasporti interni ed esterni, di una più oculata politica urbanistica. Ad avviso della stessa direzione «la Sfirs deve diventare un organo promozionale di assistenza e sostegno della piccola e media impresa», e deve superarsi l’attuale fisionomia della Cassa per il Mezzogiorno, da trasformarsi in «strumento di assistenza tecnica»; riforme non meno incisive esigono i regimi della finanza regionale e quella degli enti locali.
Proprio di “Autonomia e finanza locale” – come s’intitola la sua relazione – parla Puddu all’assemblea degli amministratori repubblicani convocata ai primi di febbraio 1976 a Cagliari, presente il dirigente nazionale dell’Ufficio enti locali Carlo Di Re. Si succedono alla tribuna Nino Ruju, che parla di ”Enti locali e programmazione regionale”, Pietro Tronci, segretario della consociazione provinciale di Cagliari, Gabriella Martignetti, segretaria della sezione di Cagliari, Marco Marini consigliere comunale di Cagliari e sub sindaco di Elmas, Antonio Oliva, assessore di Alghero, Giovanni Cattrocci, vicesindaco di Olbia, Pietro Deledda, consigliere comunale a Bitti, , Ponziano Onnis e Ignazio Podda, sindaco e vicesindaco di Ussaramanna, ed altri ancora (Serra consigliere di Isili, ecc.).
E’ tempo di convegni. Ai primi di dicembre se ne è svolto uno a Roma, promosso dalla commissione Economica della direzione nazionale e dal CEEP (Centro studi di politica economica di Torino, che fa capo all’on. Giorgio La Malfa), dedicato alle partecipazioni statali (fra i partecipanti isolani sono Bruno Arba, Mario Tuveri e Giorgio Tuveri).
Un mese dopo, a Cagliari, ci si è confrontati sulla materia scolastica (tanto più con riferimento alla nuova legislazione sui decreti delegati), dandosi anche l’occasione per presentare il libro Una scuola di nuovo modello, frutto del lavoro della apposita commissione Scuola della direzione nazionale.
Importante il decreto di nomina, a fine anno, da parte del ministro Bucalossi, di Lello Puddu alla presidenza dell’Ente Autonomo Flumendosa, da molti anni ormai… appannaggio della socialdemocrazia. Protestano gli uomini del PSDI, ma senza risultato.
1976, elezioni: bene i candidati, male il partito
Per diversi aspetti il 1976 è un anno che marca un consolidamento del PRI sardo chiamato a superare la difficile prova elettorale di primavera e ad affermare al congresso d’autunno una maturità piena. Concorrono al rinforzo alcune adesioni di rilievo, fra cui quella dell’ex parlamentare socialista/ MPL Cesare Pirisi, a Nuoro. Concorre l’affiancamento di Bruno Fadda, subentrato in Consiglio regionale a Giovanni Battista Melis, deceduto, ad Armando Corona, nella prospettiva della confluenza del suo MAPS, il movimento da lui fondato dopo la sua espulsione dal PSd’A.
La sfiducia notificata a Roma dai socialisti al bicolore DC-PRI crea disorientamento sull’intero schieramento politico, data anche la difficoltà di ipotizzare soluzioni più rispondenti ai bisogni reali della nazione. Anche i repubblicani sardi, naturalmente, accompagnano con deliberati di direzione ed interventi sulla stampa il tramonto intempestivo del gabinetto Moro-La Malfa. Così scrive il segretario Puddu, dopo aver ricordato alcuni meriti generalmente riconosciuti all’esecutivo ora sfiduciato (dal riordino della politica fiscale al riequilibrio dei conti con l’estero, l’attenuazione della spinta inflattiva, il varo della legge sul regime dei suoli, l’avvio della difesa e promozione dei beni culturali, il piano di riconversione delle attività industriali, il rilancio della politica degli interventi straordinari del Mezzogiorno): «i motivi della apertura della crisi dovrebbero ricercarsi nell’appoggio sostanziale che il PCI ha dato al Governo Moro-La Malfa e nel rifiuto dei ddl sulla ristrutturazione delle attività industriali e sul Mezzogiorno. Sul primo punto la proposta del PSI raggiunge i vertici del paradosso: bisogna varare un nuovo Governo, che ottenga l’appoggio o l’apporto del PCI in contrapposizione al vecchio che già – a detta dei socialisti – l’aveva ottenuto».
Mentre nella capitale un monocolore democristiano porta il paese alle elezioni, a Cagliari il tripartito Del Rio (che nel tempo ha perso due suoi assessori prematuramente scomparsi: il democristiano Paolo Dettori ed il socialista Giuseppe Catte) consuma anch’essa le sue ultime energie. Le imminenti elezioni politiche inducono la DC a candidare al Parlamento il presidente Del Rio, provocando così il suo avvicendamento con una personalità “forte” del partito quale è Pietro Soddu, assessore alla Programmazione (competenza che egli mantiene ad interim). E proprio la programmazione economica diventa lo snodo politico più delicato del momento, essendo ad essa sensibile, per le ricadute immediate nella politica degli investimenti ed occupativa ch’essa comporta, anche l’opposizione comunista.
I repubblicani con interventi in Consiglio regionale e nelle tribune dei giornali fanno la loro parte: «Bisognerà collegare con un rapporto di immediatezza e continuità momenti sinora distinti e divaricati come quelli dell’indirizzo e della esecuzione degli interventi. Per questo – scrive Corona in un articolo su Tuttoquotidiano (cf. 18 febbraio) – la partecipazione dei sindacati e delle forze sociali nel comitato della programmazione ha un valore di controllo e di stimolo “dall’interno” dell’azione pubblica regionale».
La descrizione dello stato economico isolano è efficace, appartenendo ai «mali nuovi ed antichi» elencati da Corona «la gracilità delle industrie “bambine” e il fatto che altre industrie sono nate vecchie prive di forza, ma ricche di capacità di intrallazzare e manovrare; i limiti dell’agricoltura, che è venuta perdendo incidenza economica e rilevanza sociale nel contesto sardo percorso da quindici anni dalla febbre dell’industrializzazione; la carenza dei servizi sociali che ci assimila ai paesi del terzo mondo prima che emergessero dalla crisi del colonialismo».
L’urgenza di provvedimenti capaci d’essere di propulsione allo sviluppo non ne può, per se stessa, generare di «estemporanei ed abborracciati. Non si debbono finanziare industrie da riconvertire magari tra due anni. Non si devono accettare i ricatti di imprenditori di pochi scrupoli che in cambio della scarsa occupazione promessa pompino miliardi dai fondi pubblici. Non si può tornare alla pioggerellina di opere pubbliche, magari una per ogni paese, cara agli Anni Cinquanta… La programmazione è coordinamento dell’attività economica pubblica e privata nei vari settori in cui si rivolge. Esige rigore di metodo e chiarezza di obiettivi. Richiede anche un minimo di rispetto per chi a livello di responsabilità di impresa si fa carico di realizzare gli interventi. Esige soprattutto riflessione e studio».
Ma come contemperare emergenza e tempistica programmatoria? Per Corona «Non è detto che il superamento dell’attuale modello di sviluppo debba essere preclusivo di ogni iniziativa prevista ed elaborata in altre fasi. Alcuni esempi. L’utilizzazione del carbone Sulcis sembra uscita dalla fase di indagine e di studio per avviarsi verso prospettive concrete. Mentre si vanno rivelando certi insuccessi economici nella produzione dell’alluminio, la ripresa del carbone potrebbe essere un’iniziativa utile a migliorare la bilancia dei pagamenti con l’estero ed a compensare le mancate occasioni di lavoro nel bacino del Sulcis». E ancora: «Vi sono attività industriali che non comportino inquinamento e non siano caratterizzate dall’alto tasso di investimento per addetto? Si pensi all’agro-industria, alle iniziative di trasformazione dei prodotti della terra. In agricoltura vanno maturando iniziative cooperative per lo sviluppo della zootecnica capaci di correggere l’attuale squilibrio isolano causato dalla importazione delle carni. Non vi è solo la superporcilaia approvata dal CIPE. Il comparto della edilizia pubblica e abitativa, la cui crisi ha raggiunto nel 1975 punti di riduzione del 40-50 per cento rispetto all’anno precedente, aspetta ancora interventi, e vi è fame di case e di opere sociali. Anche in questi comparti non mancano certo progetti e proposte valide da eseguire».
A marzo è a Cagliari – città dove ha insegnato nella metà degli anni ’60 – Giuseppe Galasso, preside di Magistero a Napoli ed esponente di punta del PRI campano (fra breve anche parlamentare e sottosegretario ai beni culturali). Partecipa a un convegno degli iscritti repubblicani. Rilascia una lunga intervista a Tuttoquotidiano (cf. 17 marzo) – da cui sembra interessante trarre, all’interno di un più complessivo giudizio sul “chiaroscuro” della Cassa per Mezzogiorno, alcune considerazioni più pertinenti alla Sardegna: «In realtà un’altra dimensione negativa della politica per il Mezzogiorno quale si è venuta concretando in questi 25 o 26 anni, è data dal fatto che, accanto all’accentuata differenziazione fra le due Italie, si è andata producendo anche una differenziazione profonda all’interno dello stesso Mezzogiorno, fra alcune poche isole di concentrazione di un certo sviluppo o semisviluppo, e la stragrande maggioranza dell’area meridionale assalita dalla degradazione conseguente all’emigrazione, alla crisi agricola, alla scomparsa della piccola industria e dell’artigianato tradizionali, alle penetrazione del grande commercio e delle grandi ditte nazionali. Mi pare che la Sardegna abbia risentito di entrambi gli aspetti negativi di questa dimensione negativa. Non è progredita rispetto al complesso del restante Mezzogiorno e, nello stesso tempo, ha fatto registrare al suo interno sviluppi antitetici fra i più gravi e preoccupanti. Basti pensare alla crescita abnorme di Cagliari e alla crisi sempre più grave del centro e della periferia dell’isola».
In vista dell’imminente rinnovo parlamentare, il realismo politico obbliga i repubblicani a cercare alleanze per i collegi senatoriali, puntando ove possibile su candidature terze rispetto alla appartenenza partitica, magari su personalità di prestigio estranee al mondo stretto della politica, così da richiamare al voto anche settori della opinione pubblica più sfiduciata nei confronti dell’imperante… partitocrazia. Ciò in realtà avviene, nell’Isola, soltanto a Cagliari; per gli altri collegi si punta, dai vari partiti, forse per necessità, su uomini certamente di valore ma militanti. Così i repubblicani propongono alla coalizione PLI-PRI-PSDI (chiamata “Alleanza Democratica” e presente nella scheda con i tre simboli associati: Bandiera, Edera, Sole nascente) le candidature di Giovanni Cattrocci nel collegio di Tempio-Ozieri e di Salvador Athos Marletta in quello di Nuoro. Negli altri quattro collegi isolani i socialdemocratici ed i liberali propongono Paolo Macciotta Ad Iglesias, Elio Meloni a Oristano, Giovanni Fiore a Sassari e Beniamino Piras a Cagliari.
Relativamente alla Camera dei deputati, ancora una volta il PRI si sforza di compilare una lista che abbia realistiche possibilità di successo, inserendo nominativi di iscritti o simpatizzanti titolari di larghe relazioni e ascendenza in ambiti prevalentemente professionali. In stretto ordine alfabetico, si tende ovviamente a coprire tutti i territori in cui il radicamento del partito è maggiore, dall’Algherese (Selva) alla Romangia (Razzu), dalla Marmilla (Tronci) alla Barbagia (Nuoro città e Oliena, con Marletta, Pau, Puddu e Catte), dall’Oristanese (Carloni e Greco) al Sassarese (Ruju), al capoluogo (Frongia, Martignetti, Musio) ecc.
L’antivigilia del voto in una nuova intervista a Tuttoquotidiano (cf. 18 giugno) Corona fornisce una rappresentazione a tutto tondo della visione politica del suo partito “ago della bilancia” in molte situazioni, nonostante la esiguità delle sue forze numeriche, ribadendo la centralità delle politiche programmatorie nelle opzioni repubblicane e l’europeismo modernizzatore come stella guida degli indirizzi di governo: «I repubblicani – dice – sembrano in grado di diventare l’embrione di quel nuovo partito che oggi manca: di ispirazione europea ed occidentale, di ideologia risolutamente democratica e liberista e insieme sensibile ai problemi sociali, pragmatico, concreto. Un grande partito di questo genere permetterebbe di superare la bipolarità cattolica e marxista e certo in esso si riconoscerebbero molti elettori dell’Italia più moderna».
Di rilievo è anche, in tale contesto, l’intervento registrato per la RAI dal segretario Puddu.
I risultati personali, alla conta delle schede, sono complessivamente molto positivi, rivelando quanto anche in un partito d’opinione come è il PRI contino i nomi. Così, se la lista raccoglie complessivamente 18.642 voti, con una certa flessione rispetto al 1972 (ma anche al 1974 ed al 1975), e il 2 per cento tondo, i candidati che intercettano oltre mille preferenze sono dieci su diciassette, mentre altri cinque superano le settecento. In testa a tutti risulta Lello Puddu con 2.458 voti (di cui le metà nel Cagliaritano), a seguire sono Salvator Angelo Razzu con 2.237 (di cui i due terzi raccolti nel Sassarese), Josto Musio con 2.157 e Pietro Catte (medico, fratello di Antonio consigliere comunale e provinciale e prossimo consigliere e assessore regionale) con 1.913.
Deludente, data la polarizzazione DC-PCI che assorbe il 70 per cento del voto, il risultato senatoriale, a conferma di come le aggregazioni non avvantaggiano (per quanto poi possa obiettarsi anche che la legge elettorale per il Senato non concede alternative alle forze di minoranza, a meno che non si voglia puramente fare testimonianza). Così le percentuali dei consensi alle schede dell’uninominale vanno dal 7,1 a Cagliari al 2,6 ad Iglesias. I due candidati repubblicani raccolgono il 3 per cento a Nuoro ed il 4,6 a Tempio.
Ancora 1976: congresso (“la Sardegna è italiana!”)
Il XVI congresso regionale è convocato, come i precedenti tre, a Cagliari (salone Casmez della Fiera Internazionale), il 6-7 novembre 1976. Esso si svolge alla vigilia di un evento che, per il partito in Sardegna, è storico: l’ingresso per la prima volta (dopo l’esperienza mancata del 1972) di un proprio esponente nella giunta di governo. Sarà ovviamente Armando Corona in un esecutivo quadripartito di centro-sinistra, ma in un quadro di “unità autonomistica”, a presidenza Soddu ed a pariteticità di partecipazione negli assessorati fra esponenti democristiani ed esponenti delle forze laiche e socialiste.
Prendono parte all’assise – presieduta dall’on. Giuseppe Puligheddu – 159 delegati in rappresentanza di 3.960 voti congressuali, 86 sezioni e 134 nuclei organizzati, ed il dibattito è molto partecipato, la volontà è unitaria ma le idee, le analisi e le proposte sono le più (liberamente) variegate.
Dalle sedici dense cartelle della relazione Puddu può essere interessante, dati i precedenti, estrapolare la parte riguardante alcune tematiche lanciate nel dibattito politico dal PSd’A e condivise, o non condivise, dai repubblicani. Dice il segretario: «I nostri rapporti col PSd’A si sono di fatto interrotti nel 1968. Da quella data i sardisti hanno percorso senza esitazione la strada del trasformismo realizzando l’alleanza elettorale col PCI, partecipando a governi regionali di centro-sinistra e, in sede locale, dovunque gli fosse consentito l’accesso a qualche leva di potere, portando avanti nel silenzio di coloro che non ne hanno mai condiviso l’indicazione, il mito dell’indipendentismo e della Repubblica Sarda.
«Come avevamo lucidamente previsto nel 1968, la tendenza separatista ha prevalso sull’antica vocazione autonomistica del partito che oggi non rappresenta altro che qualche irriducibile clientela e qualche gruppetto di farneticanti lo Stato Sardo, alimentato da una specie di tropical-comunismo in cui si dimenano motivi castro-guevariani, basco-catalani e islamico-mediterranei conditi con un mao-separatismo quasi razzista dove non sai mai discernere il paradosso fine a se stesso dalla precisa proposta politica. Tuttavia dobbiamo dare una risposta alle tesi che confusamente vengono dal PSd’A o da gruppi ad esso vicini, non perché esse trovino largo spazio nel dibattito politico quanto per meglio identificare la nostra chiara e mai discussa posizione autonomistica e il senso profondo di attaccamento che sentiamo verso la nostra Isola.
«Repubblica Sarda. Per quanto la tentazione separatista abbia trovato spazio nei dibattiti del PSd’A, essa è stata storicamente ridotta in condizioni di minoranza. Chi dunque vuole il separatismo, non rappresenta né la tradizione politica né quella ideologica che ha guidato la storia del partito sardo. La richiesta di una espansione delle prerogative autonomistiche fino alla realizzazione di uno stato indipendente non tiene conto della necessità di mettere a profitto completamente, almeno fino alla verifica della sua inutilità, delle possibilità di crescita autonoma contenute nello Statuto sardo. Se non siamo capaci, cioè, di esprimere una diversa classe dirigente con l’autonomia che abbiamo, perché dovremmo averne una migliore con l’autonomia totale?
«Zona Franca. La creazione di una zona franca in Sardegna appartiene, questo è vero, ai punti programmatici del sardismo. Ma i periodi erano diversi: si viveva in tempi di protezionismo doganale e le regioni meridionali scontavano sulla loro pelle le condizioni di privilegio delle industrie settentrionali. Per sfuggire al progressivo impoverimento, il meridionalismo democratico proposte la caduta delle barriere che consentisse il libero commercio dei prodotti in più vaste aree. Oggi che le barriere cadono, bisogna continuare in questa direzione, non erigendone altre tra la Sardegna e l’Italia, come accadrebbe con la zona franca, per farci controllare dalla dogana ogni volta che sbarchiamo a Civitavecchia. Una “tangerizzazione” dell’Isola, a facile strumento del grande traffico del contrabbando e dello smercio della droga, allontanerebbe la Sardegna dalle possibilità di una ripresa economica non artificiale.
«Lingua Sarda. Terzo tema portato avanti dai separatisti è la diffusione, lo studio, l’insegnamento e l’introduzione della lingua sarda come seconda lingua della nostra vita pubblica. La proposta, quella riguardante la diffusione, lo studio e l’insegnamento ci trova consenzienti perché attiene ad un fatto di tutela delle caratteristiche peculiari della nostra comunità isolana e come tale va inquadrata. Ma quando la lingua e l’uso di essa nei pubblici rapporti vuol di significare il segno distintivo della nostra nazionalità che poi deve essere tutelata dallo Stato ecc., allora non siamo d’accordo, per tacere della necessità di stabilire quale è la lingua che dovrebbe essere nel nord e nel sud della Sardegna…».
Politicamente più significativi, dati i ruoli ricoperti, gli interventi di Corona, Razzu, Puligheddu e Martignetti. Per il primo, il patto autonomistico costituisce la sola risposta alla emergenza sociale ed economica vissuta dall’Isola, che esige un allentamento della normale e corretta dialettica maggioranza/minoranza; per Razzu, la funzione del PRI sfugge ad un rigido incasellamento in ruoli di governo o di opposizione, ma si esprime come coscienza critica dei comportamenti di tutti gli attori sulla scena; per Puligheddu, è nel rilancio del settore primario rafforzato da supporti industriali il miglior futuro della Sardegna; per Martignetti, è l’emergente protagonismo femminile a determinare i nuovi parametri di modernità della società quale si va costruendo. Restano agli atti gli interventi anche di Marini, Zanata, Massoli Novelli, Serra, Minasso, Bonfiglio Berri, Cossu, Mascia, Bandiera, Ruju…
Quel che resta in silenzio, tanto nelle relazioni introduttive quanto nel dibattito, è il giudizio sulla mancata confluenza (pur insistentemente annunciata) del Movimento autonomista popolare sardo cui ha dato vita il consigliere regionale Bruno Fadda, espulso dal PSd’A all’inizio dell’anno e presentatosi in rinforzo alle liste socialiste alle politiche di giugno. La mancata compatibilità, per varie ragioni, con il milieu del PSI dedotta in occasione delle elezioni ha posto al Movimento il problema di una collocazione nello schieramento politico e, tanto più per la collaborazione, in Consiglio regionale, di Fadda con Corona, tale collocazione era sembrata nel PRI. Gli accordi erano parsi conclusi, perfino con la copertura nominativa di una decina di caselle nella eligenda direzione regionale e di quattro nell’esecutivo. Incomprensioni dell’ultima ora hanno consigliato però di rimandare quel tanto di ufficialità doveroso complemento della confluenza.
Guidata da Corona e Puddu, ecco la lista completa dei rinnovati organi di vertice del partito, in cui finalmente si riaffaccia anche Marcello Tuveri. In Direzione: Michele Bandiera, Giuseppe Bonomo, Giuseppe Cabras, Antonio Catte, Pietro Deledda, Aurelio Ferroni, Benito Follesa, Giuseppe Losito, Sebastiano Maccioni, Luigino Marcello, Marco Marini, Gabriella Martignetti, Antonello Mascia, Antonio Masia, Giannetto Massaiu, Gavino Massidda, Nino Mele, Giovanni Merella, Gonario Murgia, Franco Murtas, Angelino Olmeo, Annico Pau, Mario Pinna, Pietro Pischedda, Giuseppe Puligheddu, Salvator Angelo Razzu, Luigi Rivano, Marco Rombi, Nino Ruju, Pietro Tronci, Marcello Tuveri, Gianfilippo Uda, Pierluigi Zanata. Nell’esecutivo: Corona, Puddu, Catte, Demontis, Massaiu, Pinna, Razzu, Ruju, Tronci, Tuveri, Uras, Zanata. Nel collegio dei probiviri: Giovannino Fele, Agostino Granara, Antonio Oliva, Alberto Mario Saba.
Il 27 novembre la direzione si riunisce, ad Oristano, per l’elezione del nuovo segretario: con 19 voti su 30 la scelta cade su Salvator Angelo Razzu. Incaricati dei vari uffici sono: all’agricoltura Benito Follesa, all’amministrazione e bilancio Antonio Masia, agli organismi collaterali Mario Pinna, agli enti locali Raffaello Puddu, ai problemi sanitari Gabriella Martignetti, ai problemi del lavoro Antonello Mascia, all’ufficio stampa Pierluigi Zanata. A Marcello Tuveri è affidata la responsabilità dell’ufficio “programmazione e problemi dell’autonomia”. Presto si completerà con gli incarichi dell’organizzazione, dell’urbanistica ed ecologia, della scuola e cultura, dei rapporti con la FGR.
Nell’intento di rendere operante la formula del “partito aperto” si delibera anche di cooptare in direzione alcune personalità, iscritte o no al partito, di grande e riconosciuta dottrina e competenza: gli ingegneri Eolo Belardinelli e Giomaria Casu, i professori Francesco Cesare Casula, Mario Lomonaco, Antonio Maccioni, Aniello Macciotta, Sergio Massenti, Raniero Massoli Novelli, Vincenzo Racugno, Ilio Salvadori, Guido Sforza, Achille Tarquini, il dottor Tancredi Pilato, l’avvocato Alberto Mario Saba.
***
Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).
Fonte: Gianfranco Murtas
Autore:
Gianfranco Murtas
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