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Giornalia

Mariannedda 'e sos Battor Moros, Marianna la pasionaria lussiana e cara, carissima voce di Montanaru

di Gianfranco Murtas

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C’è, da qualche tempo, un ritorno a Mariannedda ‘e sos Battor Moros, fra convegni e teatro o cinematografia, laboratori letterari, saggi e siti internet (tanto in lingua italiana quanto in lingua sarda) e ancora altre iniziative tutte valide, nel loro sforzo di rielaborazione, perché spinte da idealità generose. Per restituire a Mariannedda – portata a più larga conoscenza soprattutto dei giovani – il suo spazio di originalità e risarcirla dei patimenti di vario ordine che le toccò di soffrire nella sua vita consumatasi tutta prematuramente, perché se ne andò dopo tanta malattia nel 1947, a 43 anni di età.

Visse, Mariannedda, la sua esperienza, che fu di sentimento e di politica insieme, negli anni che, dopo la grande guerra, coltivarono il sogno di quel reducismo che voleva farsi soggetto politico progressivamente inquadrato nella organizzazione del Partito Sardo d’Azione ed anche, entro le coordinate del patriottismo isolano, tutte le inquietudini per un regime di dittatura impostosi, volgare (e violento) prima e marzialmente conformista poi, demolendo ogni fragile opposizione democratica di marca cattolica non meno che socialista o liberale, popolare o notabilare che fosse.

Morì quando, finalmente sconfitto il fascismo e tragicamente semidistrutta (anche materialmente) l’Italia tutta schiavizzata dalla guerra mussoliniana per un lustro pieno, l’Assemblea costituente cui attivamente partecipava, per il Partito Sardo d’Azione ed il Partito d’Azione e con Pietro Mastino, anche il “suo” Lussu, procedeva con i suoi lavori che a fine anno avrebbero portato alla approvazione della carta costituzionale della Repubblica entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Sarebbe stata, quella votata a Montecitorio, anche la “sua” costituzione e la costituzione della “sua” Repubblica, pur se, all’apparenza, tutto portava a credere che null’altro l’avrebbe interessata, nella vicenda civile, che la Sardegna, la Sardegna e basta.

Certamente la produzione poetica, sia quella di stretta sua genesi sia quella delle traduzioni dalle pagine di Antioco Casula Montanaru (dae su sardu a s’italianu), pareva rinchiuderla, come in un recinto difeso da ogni possibile assalto, in quel mondo che si credeva bastasse a sé quale era la Sardegna o forse, a stringere e stringere, la Barbagia con le sue numerose cattedrali di paese, diffuse fra Orani e Orotelli, Sarule e Olzai… delle cui intestine tensioni aveva riferito in una certa lettera-dossier datata giugno 1946 ed indirizzata all’avv. Pietro Mastino. È chiaro però – e Lussu fu lucido protagonista di quelle consapevolezze – che non avrebbe potuto godere delle sue libertà civili la Sardegna, la Sardegna di Mariannedda, se non nel contesto di quella repubblica alla cui faticata affermazione aveva partecipato proprio allora, con votazione maggioritaria, anche la sua Orani che lo spirito repubblicano aveva respirato già da quasi un secolo insufflatovi da Pietro Paolo Siotto Elias e da Bardilio Delitala Satta: e con Orani anche Lula e Orgosolo e Gavoi, Bitti asproniana naturalmente e Mamoiada e Fonni e Onanì, e quanti altri centri dalle più aspre Barbagie al Mandrolisai, fino alla Baronia ed all’Ogliastra tanto appassionatamente custodita ed educata da uomini come Anselmo Contu e Filiberto Farci… Sì, perché il Nuorese (che complessivamente aveva sfiorato il 46 per cento per la Repubblica nel voto del 2 giugno, contro il 39 del totale isolano) seppe, ben più di altre zone così del capo di sopra come del capo di sotto, far suo il vento della storia che respingeva i lasciti dinastici ed associava alla democrazia riconquistata un ordinamento repubblicano. E infatti ecco allora ancora le risposte di Loculi e Lotzorai, Osini e Nurri, Bolotana e Sadali, Arzana e Atzara, Oniferi e Orotelli… la Orotelli di Salvatore Cambosu, Seui e Seulo, Tertenia e Ulassai, Urzulei e Villanovatulo, Orroli e Sarule, Ussassai ed Escolca, Ierzu ed Esterzili, Teti ed Ovodda, Lodè ed Escalaplano, Dorgali e Gairo, Ilbono e Gergei, Ollolai… la Ollolai di Michele Columbu, Olzai… la Olzai di Carmelo Floris…

Io, di collocazione politica in quel repubblicanesimo teso storicamente fra Mazzini e l’azionismo antifascista, ma intensamente amico e buon compagno dei sardisti… che ci credevano (non certo mi potrei riferire agli attuali paraleghisti e terribilmente paganeggianti ritontiti dai luccichii berlusconiani!), m’incontrai con la figura di Mariannedda una quarantina d’anni fa, allorché gli sbandamenti nazionalitari e indipendentisti (pur mitigati dalla sapienza politica di Mario Melis) del PSd’A in grande spolvero elettorale e quelli secessionisti della Lega bossiana votata al dio Po mi suggerirono di avviarmi ad uno studio ordinato delle carte storiche del miglior sardismo repubblicano, così penosamente compromesso e prima e dopo del governo regionale presieduto dall’ultimo, forse, grande sardista delle stagioni costituenti: quel sardismo che, interno o associato al movimento di Giustizia e Libertà e poi all’azionismo socialista e mazziniano, spese ogni sua più calda energia per la Repubblica, prossima Repubblica “delle autonomie” nella intangibile unità politica della patria.

Ebbi allora corrispondenza anche con Ignazia Bussalai, che con purezza piena ancora viveva gli ideali dei migliori e, con essi, coltivava l’umano mito di sua sorella amata e perduta in Orani; per altre vie ero già stato anche ammesso piuttosto “interno” alla grande famiglia dei Bussalai che a Cagliari, di lato ai rami nuorese e romano (quello del famoso attore Ubaldo Lai), aveva piantato radici e sviluppato molte fronde (ancora nel segno del progressismo politico s’intende!) ormai già dall’immediato secondo dopoguerra.

Dunque a Mariannedda potei dedicare giuste attenzioni che ancor più mi parvero meritate dai contenuti di una sua lettera manoscritta che trovai negli archivi personali di Pietro Mastino, a Nuoro. Si trattava di una testimonianza di vivida cronaca circa la campagna elettorale che nel Nuorese aveva opposto, nella primavera 1946, al sardismo soprattutto il biancofiore democristiano con il sacrilego supporto del clero. Con me collaborarono Massimiliano Rais e Francesca Carta.

Alla sua ricca personalità, unitamente a quella di altre antifasciste del Nuorese e del Sassarese – dalla Sechi Giacobbe alla Maccioni Marchi, dalla Martini Musu alla Berlinguer Siglienti – mi fu chiesto di dedicare un approfondimento in occasione del convegno su Lina Merlin, tenutosi il 2 giugno dello scorso 2023, a Cala Gonone, ad iniziativa della benemerita associazione Raichinas e Chimas.

Ecco di quella relazione (che però tenni a braccio) due stralci riferiti proprio a Mariannedda ‘s sos Battor Moros.




Marianna Bussalai la lussiana

Tutto torna. Un intreccio di storie, questo invero appena accennato, che ben potrebbe ancora estendersi all’oranese Marianna Bussalai, se possiamo ricollegarne le idealità, in via più o meno remota, al mondo che fu di Bardilio Delitala Satta (classe 1848, cognato di Enrico Berlinguer e dunque zio di Ines, e poi anche suocero di Iole Berlinguer amica e compagna di scuola di Mariangela Maccioni, presente nel cennato “romanzo di famiglia” di quest’ultima con il nome di Mara), concittadino oranese, il direttore del popolare “La Squilla” e già prima, del mazziniano “La Giovine Sardegna”.

Se questo vale a portarci a Marianna l’oranese, va senz’altro evocata la semina dell’oranese Bardilio Delitala Satta – il padre del grande Mario Delitala – che, bambino rimasto orfano di padre ammazzato da un archibugio, frequentò a Sassari liceo e università, facoltà di medicina. Medico di base ma anche forense, grande esperto di veterinaria, per diletto e all’occasione professore di matematica e latino… Di Orani egli divenne il “grande padre”, il saggio cui molti ricorrevano per un confronto di idee od ottenere un orientamento, un consiglio di vita. E Marianna nacque e crebbe in quel milieu – nel mandamento di Orani veniva eletto al consiglio provinciale di Sassari Mario Berlinguer –, certamente di molto marcando un lussismo che ella apprese, nel 1943-44, essersi trasformato da quello conosciuto prima dell’esilio, un lussismo italianizzato, europeizzato, mondializzato… Un lussismo visto o rivisto insieme con fedeltà e criticamente, filtrato da criteri distinti dalle due amiche: ché se Mariangela Maccioni tirò un sospiro di sollievo apprendendo da una intervista rilasciata dall’antico e venerato capitano della Sassari ad un giornale continentale il suo completo rigetto dell’opzione separatista («Mi ha fatto piacere leggere che egli non è separatista… Quando penso l’Italia in ginocchio che chiede l’armistizio, un vuoto mi si fa nel cervello. A questo ci ha condotto il fascismo. Ma io non dispero, sono convinto che l’Italia risorgerà»), Marianna marcò il desiderio, fortissimo, che il sardismo degli isolani non fosse assorbito dall’azionismo dei continentali (così a Mariangela: «Dirai a Graziella che io spero di non dover discutere mai con Lui [Lussu], perché ho bisogno di rinvigorire la sacra fiamma alla sua fede e di seguirlo devotamente, in qualunque modificazione, in qualunque innovazione: ma purché sia nel partito nostro, nel Partito Sardo, come “sardisti”, non in un partito “italiano” (nazionale), dove saremmo forse ancora “autonomisti”, ma non saremmo più sardisti»: il suo ragionamento carezzava l’espansione autonomista come idea di riforma dello stato, ma le affiancava una specifica «questione sarda», una «passione Sarda, una coscienza Sarda da formare, sia pur per un lontano futuro»).

È poi nota la storia: Lussu, che era tornato dall’esilio (e prima dal confino, e prima ancora dal carcere) dopo due decenni pieni! ed aveva maturato dalle sue esperienze cosmopolite una visione socialista della politica, intendeva trasferire il suo conquistato dottrinarismo, come aveva fatto nel movimento di Giustizia e Libertà, anche nel Partito d’Azione, a livello nazionale, e nel Partito Sardo d’Azione, a livello regionale: quel Partito Sardo che a lui solo aveva consentito la doppia tessera. A Roma aveva trovato l’opposizione di compagni come Ugo La Malfa, Ferruccio Parri, Oronzo Reale – uomini di varia estrazione amendoliana e repubblicana storica –, ed in Sardegna di compagni del primo combattentismo e del primo sardismo come Pietro Mastino, Luigi Oggiano, Titino Melis e numerosi altri, fermi nel loro interclassismo. Mentre proseguì la sua battaglia interna all’azionismo che infine egli vinse, costringendo gli avversari ad abbandonare il campo, non riuscì invece a trasferire, socialistizzandolo, il Partito Sardo in quello d’Azione e derubricò l’intesa ad una sorta di patto federativo che spregiudicatamente spese a proprio favore, facendo credere che cinquantamila sardisti – in realtà se n’erano contati 37mila –, solo in quanto dogmaticamente lussiani, fossero di fede socialista. Nel 1946, alle elezioni per la costituente, accettò la candidatura sarda (e sardista) rinunciando a quella nazionale, seppure poi i due eletti – lui stesso e Mastino – fecero gruppo a Montecitorio con i sette azionisti (personalità tutte di altissimo livello, basti per tutti il nome di Calamandrei) e un valdostano. Nel 1948, alle prime elezioni parlamentari, astenendosi dal sostegno ai Quattro Mori e piuttosto incoraggiando il fronte socialcomunista che presentava l’effigie di Garibaldi, preparò le mosse della scissione sardista del luglio e la formazione del Partito Sardo d’Azione socialista poi confluito nel Partito Socialista Italiano.


Credo politico e fede religiosa

Dire di Marianna Bussalai (ma anche di Mariangela Maccioni e Graziella Sechi) impone si accenni anche alla sensibilità religiosa delle tre amiche che hanno attinto, nella formazione della propria personalità, ai valori della fede antica della gente barbaricina. Valori di religione segnarono anche la “laica” Ines Berlinguer, forse nonBastianina che, intesa con suo marito libero pensatore, non battezzò la figlia Marisa.

D’altra parte un filone religioso ha accompagnato il primo sardismo. E debbo, a questo punto, precisare – ove la cosa non sia già emersa chiaramente – due circostanze.

La prima: che non intendo monumentare nessuna delle donne antifasciste alle cui biografie mi sono approssimato: personalità diverse l’una dall’altra, contestualizzate in luoghi e ambienti sociali in parte tanto diversi, richieste di prove di coraggio e coerenza assai diverse e di diversa configurazione, esse hanno meritato, per lo specifico contributo recato alla causa, un riguardo lontanissimo da ogni gerarchia di merito. Furono intimamente, esistenzialmente democratiche e dignitosamente sarde.

La seconda: che pure mi è estranea la propensione, quasi deterministica, ad omologare le singolarità in una scuola di pensiero di stretti confini, ad un risorgimentalismo di tratto laicista italiano che evidentemente non si muove né intende muoversi, per quanto riguarda il filone barbaricino di chiave sardista, con intenti annessionisti.

L’intima religiosità coltivata, in particolare, dalle tre nuoresi, e che si preserva da contaminazioni politiche tanto nel prefascismo – penserei all’offerta del Partito Popolare Italiano (così come nei secondi anni ‘40 in tempo di referendum, di costituente e di turni elettorali, all’offerta democristiana, anzi fieramente rigettata) – quanto negli anni della dittatura, sol che si considerino le ricadute che i Patti del Laterano ebbero nella società anche sarda e nell’associazionismo parrocchiale, resta in campo come elemento di ricchezza dell’umanità delle Nostre, ripeto: tanto più delle nuoresi. Questo avviene a Nuoro dove, se temperamento vi fu fino al 1938, grazie alla pubblicistica ecclesiale riconducibile al periodico “L’Ortobene” e alla distinzione dell’episcopato Cogoni, tutto diverso divenne dopo di allora: ché monsignor Felice Beccaro non imitò il suo predecessore, e ché lo stesso monsignor Giuseppe Cogoni – a pensarla come ce l’ha raccontata Maria Giacobbe nelle sue “Piccole cronache” – ebbe motivo, dalle notizie giunte dalla Spagna in guerra, per attenuare il suo afascismo, di fatto rinunciando a quell’opera di educazione morale e civile che, pur in dittatura, o soprattutto in dittatura, e in una dittatura pagana quale fu il fascismo, doveva essere, a mio parere, nei doveri della Chiesa. (Raccomando sempre la lettura delle pagine di “Piccole cronache” dove i riferimenti al vescovo Cogoni che predica, nel 1938, a Santa Maria della Neve e lancia l’interdetto ai repubblicani anticlericali di Spagna sono un vero e proprio capolavoro letterario).

È ben vero che nel sardismo degli anni 1919-1920, e così fino al 1925, numerosi furono i militanti e i dirigenti che aderirono alle logge massoniche, ma non meno vero è che anche diversi esponenti del clero non mancarono di mostrarsi sensibili alle istanze autonomistiche propugnate da Bellieni e Mastino e Lussu…

Ancora potrebbero ricordarsi quegli articoli de “La Voce dei Combattenti” – “I preti sardi debbono essere con noi” e “Il nostro movimento è anticattolico?” – che Camillo Bellieni, idealmente ricollegandosi a Gio.Maria Angioy ed al basso clero antifeudale di fine Settecento, propose come tavola di discussione del movimento e dell’area di simpatia. E va anche ricordato che negli stessi “lineamenti di programma politico” approvati ad Oristano, in sede di congresso fondativo del Partito Sardo, nell’aprile 1921, si legge: «Convinzioni religiose di esso [popolo sardo], attaccamento alle virtù familiari, esaltazione delle caratteristiche di energia e di fierezza della stirpe, saranno da noi rispettati profondamente».

Di più ancora: in uno scambio epistolare ospitato da “Il Solco” nel marzo 1922, fra Fancello e Bellieni, quest’ultimo – che da giovanissimo aveva aderito al circolo Giordiano Bruno della sua Sassari – ancora ribadisce l’antico principio ma arricchendolo di una considerazione circa la pratica civile: «L’esaltazione del sentimento religioso non può essere mai, nel caso nostro, asservimento dello Stato alla Chiesa… [ma] deve essere giustificazione interiore dell’azione collettiva, che non può essere data se non da questo fattore religioso, l’unico sinora capace di condurre il solidarismo sino al sacrificio individuale».

Sicché non deve sorprendere se nel 1929, all’indomani degli accordi Gasparri-Mussolini, Marianna Bussalai scrisse al giovane amico Gonario Usala: «Hai visto i clamori e le feste per il concordato fra cattolicesimo e fascismo? A me non ha causato nessuna sorpresa. Sono “due assolutismi ferrei” che si uniscono, due imperialismi che confluiscono nell’alveo comune: la romanità. Dio non v’è in quell’accordo, e Cristo molto meno». La lettera è bellissima. (L’ho riprodotta in un saggio breve sul sardismo e la Chiesa pubblicato molti anni fa nel volume “Questione sarda e dintorni”).

Insisto con Marianna Bussalai, la più giovane del quintetto proposto in questa galleria. Oranese figlia di famiglia “semirurale” agiata e rispettata, Marianna fu sfortunata: la cattiva salute per una forma di rachitismo che l’aveva imprigionata da bambina la portò a morte nel 1947, dandole tempo di godere della caduta della dittatura ma soltanto dei primi mesi del riavvio democratico o di quella “quasi democrazia” seguita agli eventi della guerra; non conobbe la pienezza della Repubblica voluta dalla maggioranza degli italiani il 2 giugno 1946 (anche ad Orani e in altri 39 comuni della provincia – e se non sbaglio fra essi fu anche Dorgali, con Bitti e Orgosolo, Lula, Mamoiada e Orotelli e Olzai, ecc. non Oliena purtroppo – fu la scelta repubblicana a vincere), e neppure conobbe il primo parlamento della Repubblica nel quale il suo Partito Sardo d’Azione poté farsi rappresentare da uomini come Pietro Mastino (senatore di diritto) e Luigi Oggiano (senatore eletto) a Palazzo Madama e Giovanni Battista Melis a Montecitorio: una triade tutta nuorese! Né poté godere, Marianna, di quanto poteva sperarsi, in termini di autonomia speciale, dall’approvazione dello statuto sardo da parte della Costituente nel 1948 e dall’avvio della prima legislatura regionale nel maggio 1949.

Autodidatta, deleddiana per un processo di immedesimazione con il suo modello di vita e letterario, visse intensamente, sul piano sentimentale e morale, la stagione di preparazione e resurrezione delle bandiere dei Quattro Mori - «Viva sos Battor Moros / in issos est s’ispera / in issos est s’isettu» -, ardentemente sperando che Emilio Lussu resistesse alle pressioni di Joyce di farne un «grande italiano» più che un leader interessato, in via prioritaria e forse esclusiva, alle cose sarde, così come testimoniò anche il suo miglior allievo e continuatore, Gonario Usala, intervistato da Massimiliano Rais per uno dei libri sul sardoAzionismo che produssi nei primi anni ‘90: Gonario Usala, oranese che aveva lasciato il paese da bambinetto alla volta di Ierzu, e tornatovi qualche anno dopo, ragazzo fatto, mettendosi all’ascolto devoto di Marianna, che pareva una saggia vegliarda seppure più di lui non avesse che cinque anni..

Direi questo (e mi sia concessa tale brevissima digressione): amiamo tutti la lingua sarda nelle sue varianti, ed anche noi che non ne facciamo una dottrina o un fondamentalismo rispettiamo ogni produzione di cultura realizzata nella lingua degli avi, ed in questo novero ammettiamo anche il bel quaderno che a Marianna Bussalai, nella collana “Omines e feminas de gabbale” per Alfa editrice hanno dedicato nel 2007 Frantziscu Casula e Zuanna Cottu. Non possiamo però non rilevare come l’appendice dei “documentos” rechi due lettere di Marianna – una a Gonario, l’altra a Mariangela Maccioni – scritte in italiano, non in sardo. Da oranese a oranese, da oranese a nuorese, ma in lingua italiana, la lingua non della nostra colonizzazione, ma della nostra emancipazione ad un largo concerto nazionale nel quale orgogliosamente (e patriotticamente) siamo, pur con tutte le nostre caratteristiche, da duemila anni.

Mi pare di una qualche rilevanza la confidenza docente, secondo la sua personalissima scuola, di “signorina Mariannedda ‘e sos Battor Moros” a Gonario, quando a lui raccontò dello scontro fra avvenuto fra la Maccioni ed il dottor Cottone nella scuola nuorese. La lettera è del 27 luglio 1928, i fatti sono dunque quelli di nove anni precedenti all’arresto di Mariangela, alla sua detenzione e sospensione dall’insegnamento. «Angela mi scrisse – riferisce Marianna – (molto triste di non aver potuto rispondere a quella gente dando le sue dimissioni, e riprendendo la sua libertà), assicurandomi che il pericolo era completamente scongiurato; invece, l’altro giorno persona ben informata di parte avversa, mi assicurò che quasi certamente verrà allontanata da Nuoro. Non gliene ho parlato ancora, ma pensa cosa significherà questo per lei, che deve vegliare su quella povera mamma cieca […]. Avrei voluto informarti subito di questo fatto, perché anche un saluto, in quei giorni di persecuzione, le sarebbe stato di conforto, perciò ti attendevo. Ho i saluti suoi da darti. Se le scrivi per posta non dirle nulla di compromettente».

Passa poi a commentare le letture utili al suo discepolo al quale invia alcuni dei propri canti sardisti: quelli del maggio-giugno 1923 (allora Marianna non ha neppure compiuto i venti), quello dell’estate 1925 e quello titolato “Ai Sardisti di Nuoro” ispiratole – scrive così – «in un’indimenticabile notte di veglia e di passione» dalla lettura, nei giornali della sera, della la lettera «in cui l’avvocato Oggiano descriveva l’assalto alla Sede Sardista, da parte dei fascisti, nella sera del 24 maggio».

«I muttos – aggiunge Marianna, concludendo e salutando con un sattiano “Hutalabì!” – vennero quasi insieme al canto, e furono diffusi assai, specie quelli dialettali, che diventarono la voce di Nuoro ribelle, in quei giorni». L’invito a Gonario è di riunire tutto questo materiale poetico «in una sola busta»: versi che potrebbe richiedersi di far sparire, ma che occorrerebbe però recuperare tutti insieme nel momento opportuno.

L’antifascismo di Marianna è puramente testimoniale e morale: la prigione fisica che al suo corpo è imposta dalla natura, anche l’isolamento materiale barbaricino, nonostante la vicinanza a Nuoro che non conforta però, non le consente altro, magari nella frequentazione della colonia estiva di Monte Gonare, di darsi a un insegnamento, giocoso e istruttivo insieme, ai bambini lì riuniti: mette in rima la cattiveria dei feudatarios, e i feudatarios sono i fascisti, e mussimussi è il Duce… Collabora a qualche rivista, il suo teatro è obiettivamente ristretto. Ma con Lussu esiliato in Francia, ed al quale ha indirizzato anche qualcuno dei suoi muttos ha un indiretto e rapsodico rapporto, mediatrice una compaesana – Giovanna Bertocchi (già allieva di Mariangela Maccioni) – pure lei emigrata oltrAlpe.

Tranquillizzata che il sardismo non sia assorbito dall’azionismo, seppure con esso mantenga una fraternità di slanci democratici per la nuova storia, riporta tutte le sue energie sentimentali e morali fra le bandiere e anche – detto al meglio – la retorica del Partito Sardo d’Azione che, tanto più nel Nuorese, i suoi avversari li incontra soprattutto fra i democristiani ed i preti che sostengono, talvolta senza pudore, la DC.

È in questo contesto che va colta la lettera – un autentico capolavoro in quanto “rapporto dal territorio nel postfascismo” – indirizzata il 10 giugno 1946 all’avv. Pietro Mastino, deputato costituente e già sottosegretario al Tesoro nei governi Parri e primo De Gasperi, uno dei leader – con Luigi Oggiano e Gonario Pinna – del tenace e coerente antifascismo nuorese sardo-repubblicano di vent’anni.

Vuol rappresentare, Marianna, la prepotenza di qualche esponente del clero che ha negato i sacramenti a coloro non abbiano abiurato al sardismo (che si associa all’ateismo di Lussu, al suo divorzismo ecc.) e non abbia assicurato l’intruppamento elettorale nel Biancofiore.

Ecco alcuni stralci di questa lettera (datata 10 giugno 1946), con l’esposizione dei fatti e le considerazioni della scrivente:

«Ill.mo Dottor Mastino. Alla gioia per la rielezione Sua e dell’On. Lussu, s’unisce l’amarezza infinita e la vergogna per questa sciagurata Sardegna che sarà rappresentata alla Costituente da F.cicu Murgia e dai suoi cinque compagni del nuovo “Listone” clerical-fascista e dal qualunquista Abozzi, anziché da uomini – da sardi – del valore di Luigi Battista Puggioni e Gonario Pinna, di Titino Melis ed Anselmo Contu, che riunendo le loro voci poderose a quelle degli altri due nobilissimi esponenti sardisti avrebbero potuto decidere vittoriosamente del destino del nostro popolo [...].

«Scrivo oggi, dietro espresso incarico dei sardisti e delle sardiste d’Orani per farLe sapere ciò che qui succede, ma soprattutto, detto incarico mi venne da Maria Are moglie del Suo cliente Andrea Borrotzu, che venne a contesa col Parroco, in Chiesa, per la sua fede sardista. Tutte le nostre donne son bersagliate dal Parroco, anche in confessione; ma nessuna è disposta a sostenere pubblicamente l’accusa per una documentazione. Questa Maria Are Borrotzu invece è venuta a dirmi di scriverlo a Lei, perché agisca come crede.

«Le cose si sono svolte così: la Are si recò a confessarsi dal Parroco – lo scorso Venerdì 7 Giugno; ma siccome io avevo detto a tutte che se il voto al partito sardo fosse stato un peccato, io non le avrei consigliate di darlo; e che se non era peccato non dovevano confessarlo – essa – per risparmiar incidenti e scandali, non confessò affatto, d’aver votato per Lei e per l’Avv. Pinna; ma il parroco, truce e fiero... chiese: “Per qual partito hai votato?”. La donna dispose con calma: “Stia sicuro che ho votato secondo coscienza, per persone buone e oneste”. Ma il parroco replicò: “Ti chiedo se hai votato per la democrazia cristiana; altrimenti c’è la scomunica e non ti posso assolvere”. Maria Are disse allora: “Ma perché lasciavate far le elezioni, e non mandavate senz’altro i democristiani, giacché si posson votare solo quelli?”. Il parroco gli sbatté lo sportellino del confessionale sul muso e buonanotte! Allora l’Are l’attese in mezzo alla chiesa piena di gente per dirgli che il voto era segreto – e nessuno poteva entrarci; e ch’essa non aveva assassinato nessuno, come certi democristiani: che l’On. Mastino era, in confronto ai preti, un santo che faceva miracoli. E se n’andò! Poi venne da me, a pregar d’informare Lei e l’avv. Pinna, per sapere che cosa deve fare. Se anche Lei non volesse agire — ad ogni modo Maria Are è una donna così decisa, così fedele – ed oggi così presa di mira – che merita una parola Sua e dell’avv. Pinna, che la rinfranchi. Il nostro parroco, e tutti i preti dei dintorni, mirano a piegar le ribelli, fecendole andare a Canossa, dai Vescovi, che toglierebbero la scomunica a condizione d’abbandonare il Partito Sardo e passare alla Democrazia Cristiana. Per fortuna qui quasi tutte vanno a confessarsi col vecchio don Brundu, che non chiede mai per chi si è votato: e le nostre donne – rassicurate anche da mia zia (che pur nei suoi ottant’anni è perfettamente lucida ed è Maestra del Terz’Ordine) si guardano bene dal confessare il voto sardista; ma a Saruli, ed anche qui col parroco non è così [...].

«Oltre la deposizione dell’Are – e quella di pochi animosi che attesteranno quanto il Parroco disse in Chiesa, domenica 2 Giugno — il sardista Salvai Antonio (Carrapreda) mi mandò a dire che informassi Lei, del fatto che il parroco dì Orani niegò l’assoluzione ad una giovane di 15 anni, perché si rifiutò di dirgli a qual partito appartenesse la madre! Se non si potrà sollevar la protesta alla Costituente – per mandar via quei vili, il successo li renderà sempre più pazzi – e noi dovremo desistere dalla lotta politica, e rassegnarci ad un ritorno al medioevo! [...].

«Ed ora ecco il resoconto ordinato dei fatti, che potrà esserLe utile, perché quanto accade qui, accade (anzi peggio) a Saruli, Olzai, Orotelli, ecc.

«Il giorno dopo la Sua venuta, quando il paese era ancor vibrante per il Suo discorso — furono sparsi, casa per casa – i foglietti azzurri con la condanna dei vescovi al Partito Sardo, portati da una ventina di propagandiste, che simili ad ennui, annunziavano la scomunica! Ma l’avevano detto tante volte da prima, che non furon credute quasi da nessuno: anzi in molte case furon messe alla porta!

«Le donne ridevano, e tutto finì in un clamoroso fiasco, anche quando la signorina Cambosu d’Orotelli (presentata ed accompagnata dal cognato prediletto di Puntorgiu – Michelino Pirisino, democristiano dannato) parlando al pubblico, dove parlò Lei, espose alle donne, gli errori della scomunica ecc. ecc,! Poi – siccome quest’imbecille, si permise d’attacccar Lussu e la Signora, con le accuse più oscene – e di demolire il nostro partito, mia sorella, mentre poche megere applaudivano, gridò: “Viva Lussu! Viva il Partito Sardo!”. Grido subito raccolto e ripetuto senza fine, da sardisti e comunisti. Ed ecco la Cambosu, inviperita – e tosto iniziata dalle energumene che aveva intorno, gridare, mostrando a dito mia sorella – “che le dirigenti sardiste erano irreligiose; che andavano in Chiesa solo per le grandi occasioni; che erano ribelli agli ordini della Chiesa ecc. ecc.”. Allora protestarono tutti i presenti [...]. Ma quando l’oratrice fu andata via, una trentina d’erinni accerchiarono mia sorella, pretendendo di discutere in trenta contro una – e assordandola d’urli, perché sosteneva che i vescovi che avevano bruciato Giovanna d’Arco erano cattolici non eretici! Dovemmo liberarla con l’intervento dei carabinieri – e ne ebbe una raucedine per otto giorni— e le tasche del soprabito lacerate! [...].

«Ma il Parroco aveva in serbo la grande sparata, per Domenica mattina 2 Giugno: ed alla messa, disse allora, col tono truce e spaventoso d’un profeta d’Israele, che erano colpiti da scomunica tutti coloro che avrebbero votato per altri partiti, e non per la Democrazia Cristiana: che conseguenza della scomunica era il diniego dei sacramenti, anche in punto di morte; i bimbi senza battesimo, i funerali senza prete; le nozze senza rito religioso; le case senza acqua santa, finché i Vescovi non avessero perdonato! Perciò dovevano votar tutti per la Democrazia Cristiana. Questa proclamazione fatta con tanta solennità e con tanto impeto, non fu creduta più – pel momento – un sotterfugio elettorale, e fu così – in preda al panico – che le donne andarono a votare! Ne consegui che i nostri 419 voti, furono certo in prevalenza d’uomini (sebbene vi siano state donne coscienti e coraggiose, come la moglie e le figlie del Dottor Marchioni che vanno in Chiesa col distintivo sardista per vedere di farsi mandar via; come mia zia e le terziarie giovani e vecchie, che si recarono a votare con lei, o come le inquiline delle loro case – che Lei andò a trovare nel Marzo [...]; e ciò che è peggio, furono di donne terrorizzate – come esse stesse dicono ora, maledicendo – le numerose schede in bianco – e di 500 e più voti democristiani d’ora – contro i miserabili 176 che presero nel Marzo!!! E sarà sempre così, purtroppo, finché i preti useranno un tal metodo! [...]».




A futura memoria: Mariannedda o della dolce intransigenza

Partecipa al congresso nuorese del Partito Sardo convocato per il 15 e 16 settembre 1945, Marianna Bussalai. Il numero speciale de “Il Solco” ne riporta l’intervento, ancorché in sintesi, associandolo a quello di Italo Aru. Eccolo: «Italo Aru, a nome della cooperativa agricola di Orani, e Marianna Bussalai, a nome della lega dei lavoratori agricoli pure di Orani, forte di 247 iscritti, protestano per le lungaggini burocratiche hanno finora frustrato le richieste di terre da semina avanzate dalle loro organizzazioni, mentre preme l’urgenza dei lavori preparatori e l’incubo della disoccupazione e della fame pesa su centinaia di famiglie. Marianna Bussalai, con ardente parola, esprime la decisa volontà dei contadini di Orani di farsi giustizia da sé, ove le loro legittime aspirazioni, per cattiva volontà o incuria degli organi responsabili, vengano ancora respinte o conculcate».

È sempre lei, Mariannedda’e sos Battor Moros, a dirsi rivoluzionaria, mostrandosi sarda e universale, a rifiutare le diplomazie del detto e non detto. Evangelicamente donna del “sì sì, no no”, così è stata sempre, tanto più negli anni bui della dittatura, manifestando la nettezza dei suoi giudizi affidati alla carta, documento a futura memoria.

Nell’archivio familiare di Pietro Mastino mi occorse, molti anni fa, di trovare fra il molto altro anche questo testo dattilografato, datato febbraio 1929, al quale più sopra ho fatto fugace riferimento, ma che merita una ripresa più compiuta: si tratta di una lettera di Marianna al fedele Gonario Usala. Eccola qui:

«Hai visto i clamori e le feste per il concordato fra cattolicesimo e fascismo? A me non ha causato nessuna sorpresa. Sono due assolutismi ferrei che si uniscono, due imperialismi che confluiscono nell’alveo comune: la romanità. Dio non v'è in quell'accordo, e Cristo molto meno. Nel profilo tracciato dal Chiminelli in “Conscentia” hai visto quale sia la religiosità del Duce (ricordi? sognava di far dell’Italia un popolo imperialista, paganeggiante, chiamava l’idea religiosa una “malattia” del cervello) e ti ricorderai pure da quali sentimenti fosse animato verso il Cattolicesimo: non era sospinto verso questo che dalla sua passione imperial-romana – inquantoché Roma se conserva ancora un’importanza mondiale – ai tempi nostri, è solo come capitale spirituale del Cattolicesimo ed il papato quindi continua a conservare per la sua Roma il prestigio che le veniva dai Cesari.

«Sicché Mussolini capisce che dalla sua unione col Papa grande lustro ne verrà alle sue mire imperialiste politiche. Il suo potrà chiamarsi come ai tempi andati “Il Santo Romano Imperio”. Il duce rivela questo suo pensiero nei suoi discorsi: “Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma è oggi rappresentata dal Cattolicesimo... L’unica idea universale che oggi resta a Roma è quella che irradia dal Vaticano... I 400 milioni di cattolici che in tutte le parti della terra guardano a Roma, sono di orgoglio per noi che siamo italiani”.

«Nessuna traccia di religiosità, di misticismo, di cristianesimo, in questi suoi amori col papato. Romanità, romanità, null’altro. E “romanità” tu lo sai — è l’opposto di Cristianesimo. II duce infatti, ci rivela pure in un altro discorso, - 26 settembre 1922 – il suo pensiero intorno al cristianesimo. A Roma: “fra questi sette colli così carichi di storia si è operato uno dei più grandi prodigi che la storia ricordi, cioè si è tramutata una religione orientale da noi non compresa in una religione universale che ha ripreso sotto altra forma quell’imperio che le legioni consolari di Roma avevano spinto fino all’estremo limite della terra!”. “La religione orientale da noi non compresa” è il Cristianesimo ed è chiara l’intonazione sprezzante con cui viene ricordato; egli lo apprezza solo quando si muta in cattolicesimo Romano – quando eredita – cioè organizzandosi – le forme –l’assolutismo – i metodi di Roma imperiale.

«Il duce capisce il “papa” perché è “Romano” ma Cristo che è Divino (egli lo chiama “orientale”) non può capirlo, e lo dichiara candidamente! L’unico valore e merito che secondo lui ha il Cristianesimo è quello di avere quando diventò cattolicesimo – continuato l'opera delle legioni consolari – tenendo genuflesso il mondo davanti a Roma! Ha forse altro merito Cristo? Ciò non mi sorprende. E non mi sorprende neanche il fatto che il Papa lasci oggi ricordare ed esaltare queste frasi – il brano di discorso su riportato lo copiai da un giornale di queste sere – così poco riverenti pel Cristianesimo! Abbiamo un papa diplomatico, non un papa ispirato e illuminato: ecco tutto. D’altra parte all’assolutismo cattolico (assolutismo tale che giunge a proclamare come dogma ossia come articolo di fede indiscutibile l’“infallibilità” non già di un sistema o di una dottrina, ma di un uomo: il papa) non poteva che riuscire simpaticissimo un governo ferreo, assoluto, come l’attuale, antidemocratico, chiedente del pari una cieca obbedienza! E comprese che sull’appoggio di questo alleato, poteva stare la rinascita della potenza cattolica e gesuitica, il ritorno – chissà? Oh dolci sogni! — all’Inquisizione – alla persecuzione di protestanti, d’eretici, alla distruzione d’ogni culto, d’ogni filosofia che non abbia l'approvazione del papa! Per ciò a costui parve dolce anche l’asservirsi al governo italiano (perché si capisce, se vuole che il governo non gli tolga ciò che gli ha dato, dovrà esserne l’umilissimo servitore) ed il perdonare i sette anni di persecuzioni e distruzioni sferrate sui cattolici italiani militanti nel Partito Popolare e nelle associazioni giovanili! Mi duole di tutto ciò solo per le migliaia di anime ingenue – che in quest’ora verranno conquistate ed illuse. Per altro noi restiamo col Cristo “orientale” chi vuole vada col papa “romano”, vero?

«Quanto più illuminato, quanto più infallibile in quest’ora, il nostro Lussu, di Achille Ratti!».


Ancora Mariannedda nella riflessione biografica di Michele Columbu

Fa bene il paio, questa riflessione del 1929, con quanto Marianna stessa avrebbe scritto diciassette anni dopo all’avv. Mastino denunciando gli abusi clericali contro i militanti sardisti privati dei sacramenti dagli autoreferenziali “padroni” dell’altare e del confessionale…

Ma accanto alla donna di pensiero è la donna di letteratura che è però anche e soprattutto la donna di vita, cresciuta fra le difficoltà, ma volta ad una stella polare che era sua, ispiratrice, e ben poteva essere anche di altri (anche mia!), e Michele Columbu (genero di Dino e Graziella Giacobbe perché marito di Simonetta-Titì), compagno delle migliori idealità, ne scrisse in un lungo articolo uscito sul numero doppio 28-29 dell’inverno 1983-primavera 1984 del periodico cagliaritano “La grotta della vipera” fondato e diretto da Antonio Cossu.

Riporto qui, in… ultima conclusione, il testo (e soltanto mi permetto di evidenziare, sul piano prettamente politico, come – giusto in conclusione d’esso – si faccia riferimento ad una confidenza malinconica, e forse ad uno sfogo, di Marianna con Graziella Sechi Giacobbe, circa una più larga “italianità” azionista entrata nelle scelte della comune amica Mariangela Maccioni, come in superamento del sardismo puro: la circostanza diventa curiosa nel momento nel quale si pensi che proprio Graziella lascerà, lei stessa, nel 1948, il Partito Sardo per aderire agli scissionisti lussiani tutti ormai d’obbedienza socialista…).

«Ho sempre intuito la vigoria dell'intelletto e l’eccezionale temperamento Marianna Bussalai. Ora scopro, non senza sorpresa, che sono impreparato a giustificare in modo razionale questa intuizione. Provo sentimenti di ammirazione e di rispetto. Anche di amore, certo. Ma non ho mai pensato di renderne conto. Perciò scriverò un saggio brevissimo, o piuttosto una modesta introduzione a un saggio, nella speranza che altri, con più chiarezza e meglio di me, voglia illustrare la tormentata figura di questa donna fortissima e al medesimo tempo timida e schiva, e voglia anche indagare su taluni aspetti quasi sconosciuti della resistenza alla dittatura fascista, sul sardismo “naturale”, sulla cultura sommersa, per così dire, fra gli Anni Venti e gli Anni Quaranta in una remota zona della Sardegna.

«Ho sotto mano una parte dei suoi scritti, ma sono un po’ sgomento al pensiero che altri, o io stesso, possa cedere alla tentazione di misurare la sua opera letteraria, di soppesarne il valore, secondo prepotenti schemi scolastici e di confrontarla ai grandi modelli di altre culture. I suoi componimenti, infatti, sono come percorsi da un oscuro e profondo sostrato di sardità che affiora ma rimane prevalentemente inespresso e direi soffocato dalla fedeltà, s’intende formale, a taluni ritmi e accenti della poesia italiana dell’Ottocento. Marianna scrive efficacemente in prosa italiana e già a sedici anni compone dei buoni endecasillabi, armoniosi e scorrevoli; le sue traduzioni da Antioco Casula (Montanaru) sono generalmente eccellenti e in taluni casi sovrastano la bellezza dell’originale. Eppure sarebbe ingiusto, e persino sleale, limitare la nostra attenzione a questa sua attività, perché lei non si pone come letterata né come poetessa; lei si pone soltanto, o soprattutto, come militante e combattente per un ideale politico.

«Nacque a Orani nel 1904. A Orani mori nel febbraio del 1947. Non fu mai all’università, non frequentò scuole superiori, non viaggiò per le capitali della cultura europea. Ma la sua casa era ricca di lettere e di storia, e conserva tuttora i segni di un’antica nobiltà: le architravi e gli stipiti di alcune porte, scolpiti in trachite rossa, ricordano l’arte pisana in Sardegna, forse del Trecento, e poi aragonese, forse del Cinquecento. Non era un palazzo – impensabile, del resto, nel cuore della Barbagia, povera e selvatica – ma ebbe dignità signorile come sede estiva dei vescovi di Ottana fino ai secolo XVI, quando fu acquistata dalla famiglia Angioi. (Da questa famiglia nel Settecento nacque Gio’Maria Angioi, l’Alternos rivoluzionario e ribelle, per il quale Marianna ebbe un’ammirazione grandissima). In quella casa vennero al mondo e dimorarono magistrati e medici illustri, necessariamente di lingua italiana, dopo la dominazione spagnola, ma anche di lingua sarda e saldamente legati alla cultura locale e alle tradizioni pastorali. In questo ambiente la Bussalai, che fu Angioi in linea materna, trovò le sue appassionanti radici e, ancora giovanissima, visse un’intensa vita Intellettuale fra molti libri, specialmente di poeti e di filosofi, e fra memorie orali favolose che sono la storia incerta e senza date delle zone interne ne costituiscono lo strato più profondo dell’anima sarda.

«Sulla breve conca di Orani incombono ripide colline, ora verdi di boschi, ora devastate da incendi feroci, e si chiamano Santu Bernardinu, Santu Frantziscu, S’Ispiridu Santu, Nostra Sennora de Gonare. L’intero territorio è fittamente punteggiato di luoghi del culto cristiano, che una volta l’anno richiamamene folle di devoti; ma nelle cerimonie che vi si celebrano è facile rintracciare sopravvivenze di riti precristiani. Né si direbbe che il cristianesimo, in seno a una società generalmente mite e pietosa, abbia saputo rimuovere tutti i semi dell’antica ferinità. Non di rado infatti vi esplodono fosche tragedie e vendette impenetrabili.

«Di là da quelle colline ci sono i pascoli e i boschi e le montagne; c’è altra saggezza e altra violenza, il sacro rispetto della “parola” e la sacra ospitalità, la rapina e la razzia del bestiame per pura “balentia”, l’ira omicida e il perdono, ci son le fraterne “tribù”, si può dire, di Sedilo Olzai Fonni Orgosolo Gavoi, tante altre piccole comunità, povere generose pericolose. Più lontano si estendono gli sconfinati mondi, leggendari e belli, del Logudoro e del Campidano, che parlano ancora di Giudicati, di resistenza, di guerre, e insomma di Sardegna tribolata. Questo è il clima che fin dalla prima infanzia alimenta la fantasia di Marianna Bussalai.

«Le suggestioni della vita semibarbara della Sardegna, e soprattutto della Barbagia, i sacrifici e le ingiustizie fatali, i banditi “innocenti” e indomabili, le “altere” spose vedovate dai fucili e le cento e cento “madre dell’ucciso” – tristi fino all’immobilità del bronzo di Francesco Ciusa – nella mente e nel cuore di Marianna giovinetta assumono i contorni di una saga dolorosa e gloriosa, in cui ormai si possono iscrivere la realtà e il mito degli intrepidi della Brigata Sassari. Siamo, romanticamente, alla premessa epico-eroica della coscienza nazionale dei sardi. Con impeto risorgimentale, nasce ora il Partito sardo, d’azione, che sarà il grande amore e la speranza di Marianna fino alla morte.

«“Barbaricina altera”, comincia un suo componimento giovanile, tra cronaca e fiaba, che potrebbe dirsi emblematico. La barbaricina è “al fuso intenta” quando passa a cavallo “un gagliardo e bellissimo pastore”, “in sella eretto”, e la trafigge “con le pupille nere”. “Da quel meriggio” nei due cuori nasce una tacita e dolce promessa d’amore. Ma il destino ha deciso diversamente: egli infatti sente una voce arcana “più forte del suo stesso amore”, “e fu ribelle all’ingiustizia umana”. “Ai deboli fu scudo; come belva / cercato a morte, errò di selva in selva”. Presto è la fine, e la ragazza, “esangue il volto ne la benda bruna /, non chiese più sorrisi alla fortuna”.

«Anche senza la gentile nota amorosa, che accresce il fascino del pastore, il tema vuole essere nobilitato da quell’improbabile “ai deboli fu scudo” (come sarebbe piaciuto a Marianna); ma nella realtà, di rado o mai si ebbero casi di consapevole banditismo sociale. Tutto al più accadde qualche volta che un bandito, vendicando offese private, fosse anche vendicatore di pubbliche offese; come colui che tolse la vita a un esattore delle imposte, disonesto e crudele, e perciò da tutti esecrato.

«La Bussalai conosce così bene i limiti del suo “eroe” che in una nota sente il bisogno di dichiarare: “Il protagonista è un antico campione di quel banditismo sardo che, in un popolo primitivo e abbandonato a se stesso, poteva essere ancor nel secolo scorso – e nell’anteguerra – l’espressione individualistica d’una generosa – sebbene cieca – rivolta all’ingiustizia”. In altre, parole, nel momento stesso in cui celebra e compiange il destino dei pastore, che è bandito per sete di giustizia, essa deplora la sua azione “individualistica” e “cieca”; ma è una deplorazione sommessa, tra il sì e il no, perché nel suo cuore, non ostante l’acquisito sentimento civile della legge e dello stato, la ribellione di chi paga con la vita è un gesto generoso. “Poteva essere nel secolo scorso e nell’anteguerra”; ora siamo nel dopoguerra, siamo nel 1920-25. Ebbene, che cosa cambiato in Sardegna? Forse non ci sono più ingiustizie? No, le ingiustizie e le sofferenze ci sono; ma è stata aperta or ora una nuova via per la “rivolta”, una via politica, civile, non-violenta, non-individualistica.

«Marianna crede fin dall’infanzia nei principi ispiratori della nuovissima lotta. In una lettera all’avvocato Luigi Oggiano racconta: “Il mio sardismo data da prima che il Partito sardo sorgesse, cioè da quando, sui banchi delle scuole elementari, mi chiedevo umiliata perché nella storia d’Italia non si parlasse mai della Sardegna. Giunsi alla conclusione che la Sardegna non era Italia e doveva avere una storia a parte”.

«Ora dunque “l’antico campione” non potrebbe più considerarsi l’espressione di una generosa rivolta. Però ne parliamo, e bisogna parlarne, sia per ricordare le tristi condizioni della Sardegna nel passato e sia per risvegliare antichi valori positivi – fierezza, impeto, coraggio – non importa se frammisti a tratti barbarici, secondo l’intramontabile schema di tutte le lotte risorgimentali. La ricerca di questi valori è anche esplorazione delle radici, che sono il fondamento e alimentano, diremmo oggi, la nazione o l’“etnia”, dei sardi.

«Allora ecco rivivere gli eroi e le imprese, la resistenza e le sanguinose lotte contro gli invasori romani: “Roma passò predando / e tu siccome fiore / losto gentil cadesti (da Muttos in italiano, 1920); e soprattutto, più che mai splendente, l’amata figura di G. M. Angioi: “Oh quella primavera / in cui per valli e per monti / l’inno echeggiò d’Angioi!” (ancora da Muttos, 1920).

«Nell’ambito di analoghe rievocazioni va collocato un passo tradotto dal limpido sardo di Casula: “E nel mio sogno vedo quivi ancora / Dei forti di Arborea sfilar le schiere / Salutando con l’aste e le bandiere / La bella e valorosa Eleonora” (Le belle di Cabras, 1925).

«L’adesione alla poesia del poeta di Desulo è totale e rivela una sorta di simbiosi letteraria e “sardista”, fra l’uno e l’altra, che si andrà affinando negli anni successivi; ma, formalmente, la musa di Marianna è dominata da reminiscenze della poesia risorgimentale italiana. (Anche la Sardegna deve risorgere!).

«Nel 1927 la sua tristezza è immensa: la dittatura ha spazzato via ogni forma di libertà, il Partito è perseguitato e disperso, Lussu è in esilio. Allora, in un impeto di nostalgia e di autoconsolazione, ripensa l’emozionante ritorno dei combattenti, la passione del riscatto, le speranze di appena pochi anni addietro, e traduce ancora da Montanaru: “Eroici cuori / scuoton oggi dal sonno i tuoi villaggi”. Il componimento comincia così: “Salve, Sardegna, dolce madre mia, / terra di uomini forti...”. E questi uomini forti sono appunto “i prodi figli tuoi, giovani e belli” che “or vogliono giustizia e libertà”.

«Libertà e giustizia, giovani belli e prodi, terra di uomini forti eccetera, oggi possono sembrare espressioni e concetti ingenui, o anche banali, dopo il gran glorificare che s’è fatto di Brigata Sassari, di sacrifici e di nostri diritti violati e sopraffatti, ma testimoniano la volontà di opposizione al fascismo e la determinazione, già tanto pericolosa e difficile nel 1927, di continuare la lotta per la Sardegna. Facile e comoda, invece era la via del consenso al governo, che molti seguirono, o per interesse o per paura.

«Nel 1925 Marianna scopre “Cantigos d’Ennargentu” e vi ritrova l’anima segreta, forte e sofferente, della Sardegna che più ama. Non so, propriamente, perché si risolva a tradurre in italiano le liriche del Casula. E certo che aderisce con tutto il cuore ai temi e alla musica di componimenti celebri come “La fontana dell’elce”, “La madre dell’ucciso”, “Il ritorno dei pastori” e tanti altri, e che la difficile impresa di ricantarli in un’altra lingua le procura un piacere non privo di orgoglio; ma la più vera ragione di questa fatica, a mio parere, è di natura politica: la conoscenza della cultura sarda più segreta e della poesia contribuirà a dimostrare agli italiani che non siamo solo “eroici” e “fedeli”, ma anche poeti e letterati e perciò meritevoli di rispetto e di considerazione. L’ipotesi appare probabile ove si tenga conto che il primo sardismo, in grande parte, era proteso alla conquista dell’italianità a pieno titolo attraverso una sorta di rappacificazione e di abbraccio affettuoso.

«Domando scusa al lettore se, a questo punto, sono portato a osservare, forse inopportunamente, che gli italiani – anche i governi – conoscevano e conoscono bene queste nostre qualità; le quali però non incidono nel rapporto fra la Sardegna e lo Stato italiano, poiché la nostra emarginazione economica e politica – l’ “abbandono” – è dovuta a ben precisi interessi e ostacoli che non si possono rimuovere facendo appello a gentili sentimenti di amore e di gratitudine.

«Marianna mandava i suoi versi a Lumen (“Rivista per la gioventù femminile”), che si stampava a Chieti, e a Cordelia (“Rivista piacevole ed educativa; deve entrare in tutte le case, deve essere letta da tutte le Signorine italiane”), edita a Firenze e diretta con grande entusiasmo dalla Nobildonna Rina Maria Pierazzi. Nel 1932 alcune sue poesie furono lette durante un simposio a Firenze e, le scrivono, “Marianna Bussalai fu applauditissima”. Ma il successo più grande, unitamente al poeta di Desulo, forse Io ottenne quando Cordelia pubblicò “La madre dell’ucciso”. La Pierazzi ne fu travolta e poté scrivere: “Queste fiere tempre di isolani conoscono la nuda bellezza dell’amore e del dolore. Oh, la poesia sarda, di cui ogni parola è un’immagine, ogni strofa un poema! Poesia fatta di semplicità [...] che reca in sé i colori di tutte le tanche, il profumo delle selve Antioco […]. Casula è il maggior poeta sardo vivente che canta nell’idioma logudorese [...] una sua lirica stupenda tradotta da una giovanissima sarda, nostra cordeliana, Marianna Bussalai, una creatura che terrà presto e degnamente il suo posto fra i poeti di Barbagia”.

«Il mio articolo non può concedere molto spazio alle citazioni; tuttavia debbo riportare qualche verso da “La madre dell’ucciso” nella traduzione della Bussalai, per spiegare la calorosa accoglienza di Cordelia: “II cuor t’inaridì l’immane duolo / e cupa or siedi accanto al focolare / né farti più potrai sul limitare / chiedendo – Sei tornato? – al tuo figliolo. / Come quando ei soleva giù dal monte / venire sul cavallo imbandierato [...]. Somigli a un vecchio tronco desolato / d’ilice, che perduto abbia le foglie! E non sei sola, o Madre, ma altre cento / consumate dal pianto [...]”.

«Se Marianna, per sé, per Montanaru e per la Sardegna, mirava a un riconoscimento, ebbene, in qualche zona d’Italia (la rivista Cordelia, dico) un po’ appartata, forse anche per motivi politici, ma sensibile e civile, essa lo consegui pienamente. (Già nel 1923, Fanny Manis e Nella Ciapeti Assagnoli si erano occupate della sua poesia: “Una piccola poetessa sarda: Marianna Bussalai di Orani, in Lux, “bollettino delle portatrici di lampade”, Firenze, a. III, n. 1-2, 1923, pag. 13-19). In Sardegna riceve incoraggiamenti e lodi affettuose dagli amici di Nuoro (ma più dalle amiche); da Cagliari le scrive Emilio Lussu il 2 settembre del 1925 per assicurarle che “tranne imprevisti di sequestro, la Sua corrispondenza verrà pubblicata domani. Il Solco La ringrazia” eccetera; del 1926 ho una lettera in cui l’avvocato Guido Scano le riferisce i complimenti del direttore della rivista II Nuraghe – Raimondo Carta Raspi – e soggiunge: “Tanto il mio babbo che io abbiamo sinceramente ammirato La Fontana dell’Elce”.

«Qui non importa ricordare il ruolo apertamente politico di Il Solco né il ruolo culturale e, più sommessamente, politico di II Nuraghe; basterà dire che non ebbero buoni rapporti col Regime, e il primo dovette tacere per vent’anni e il secondo ebbe vita avventurosa e difficile. A Marianna, così, tranne qualche rara comparsa nei quotidiani sardi, non restarono che Cordelia e Lumen.

«Negli Anni Trenta coltiva segretamente il gruppo degli antifascisti di Orani, li incontra alla spicciolata, li visita con lunghe lettere che fa circolare da una casa all’altra, discorre di libertà e di Sardegna futura. Si tratta di manoscritti che assumono il carattere di piccoli giornali clandestini, di cui si fa distributore e interprete Gonario Usala, un giovane intelligente e generoso al quale Marianna ha trasfuso il suo spirito ribelle.

«In questo microcosmo – una remota cellula della resistenza al fascismo – si accendono dibattiti, si affacciano dubbi e dissensi, serpeggiano insidie come nelle grandi città. La polizia ne è a conoscenza e vorrebbe cogliere in flagrante la famiglia riunita, ma a Orani non esistono spie (da secoli o da sempre). Un’incursione a sorpresa in casa di Marianna non fornisce prove sufficienti per arresti e condanne al confino: la bandiera sarda, i distintivi di partito, le fotografie di Lussu, varie carte e messaggi compromettenti risultano introvabili, perché sono interrati in attesa di libertà e di riscossa, o perché vengono raccolti prontamente sotto un’insospettabile finestra da persone fidate che passano lì “per caso” al momento opportuno. Con Marianna vivono la sorella lgnazia e la zia Grazietta Mureddu Angioi, terziaria francescana. Insieme fronteggiano impavidamente la polizia. “Sappiamo che questa è una casa di antifascisti” la informa il brigadiere. “Lo sanno tutti, non è un segreto” replica Marianna.

«È spesso malata. Le traduzioni dei “Càntigos” vanno a rilento, ma la corrispondenza col poeta è sempre molto fitta. In italiano, s’intende, e può sembrare strano ove si pensi che l’uno e l’altra non solo conoscono e parlano perfettamente e quotidianamente il sardo ma sono anche consapevoli del suo valore di lingua nazionale. Su questo tema, al tempo della pubblicazione di “La Filatrice”, Marianna aveva inviato alle sorelle di Lumen una lunga lettera, quasi un saggio, in cui ricordava “il mirabile Codice” di Mariano IV e della figlia Eleonora, tutto scritto in sardo, e Francesco Ignazio Mannu che, in sardo (“sacro idioma”), cantò il suo ribelle e poderoso inno lanciandolo come rabbiosa sfida in faccia ai feudatari”. Ebbene, in circa vent’anni di rapporti epistolari, i due barbaricini non si discostano mai da “Illustrissimo Signore», “Egregio Signore”, “Gentile Signorina” e “La prego», “La ringrazio”. Non so, forse mancavano modelli attuali di lettere in sardo; i modi della “cortesia”, dell’“urbanità”, della “civiltà” introdotti dalla scuola italiana esercitavano un loro fascino autorevole, quasi autoritario, presentandosi anche con carattere di maggior “finezza” (Scrivere in sardo non sta bene? Oppure, non esiste la scrittura del sardo?). Forse governa la stessa regola per cui ogni giovane pastore, o contadino, divenuto soldato, si cimenta per la prima volta a scrivere, e scrive in italiano ai parenti, e io stesso, nel 1925, prigioniero del ginnasio di Nuoro, sentii di dover scrivere “cara madre” e “caro padre”, e i miei poveri genitori, con i quali mai avevo scambiato una sola parola in italiano, molto imbarazzati ma certamente un po’ orgogliosi di me, dopo la fatica di leggere le mie lettere, si tormentavano a rispondere “caro figlio” eccetera.

«Marianna si rivolge a Montanaru con rispetto e devozione da alunna; il poeta la stima e le esprime gratitudine quando legge “con viva commozione la sua opera amorosa. Lei mi ha pienamente capito perché anche in diversa veste mi riconosco tutto”. Da allora Marianna non più gli chiederà timidamente l’autorizzazione a tradurre, ma sarà lo stesso Casula a pregarla gentilmente. Come quando le comunica di aver mandato a Fontana Viva una nuova poesia, “S’istella Diana” (“stella de su merie / chi torras a su manzanu”), “e ora vogliono anche la traduzione con una certa premura. Potrebbe, Signorina, accontentarmi?”.

«Nelle lettere in mio possesso non trovo riferimenti alla comune fede politica. Casula infatti era stato sardista, e certamente lo è tuttora, ma lavora alle Poste di Desulo, è povero, ha moglie e figli, come suol dirsi, e deve badare a non perdere l’impiego. Perché politicamente, bisogna ammettere, una cosa è l’esaltazione lirica di poveri pastori che vanno e vengono dal monte alpino per sfuggire alla siccità e al maltempo, e hanno antiche “leppe” alla cintura e portano speroni gavoesi e magari sono davvero “intrepidi e fieri”, chissà, altra cosa sarebbe riparlare di autonomia, democrazia e libertà, di sardismo insomma. Marianna, certo, si trattiene a stento; e gli scrive che le traduzioni sono “una battaglia che conduco per la Sardegna e vincerò con l’aiuto di Dio”. I canti dei poeti “fanno parte del sacro patrimonio della nostra gente”. Dunque ritiene che la poesia di Montanaru non si esaurisca tutta nei suoi valori estetici, poiché svolge anche una funzione civile e politica – sardista appunto – quando contribuisce a risvegliare la sardità e l’amore dei sardi per l’Isola. Ma bramerebbe che il poeta ponesse mano a un’opera di più largo respiro e di specifico impegno storico-politico.

«Siamo nel 1938 e da poco ci sono state le “celebrazioni sarde”. Marianna ribolle di sdegno perché la commemorazione di Sebastiano Satta è stata affidata a Marinetti e perché G. M. Angioi è stato escluso dalla lista dei sardi illustri. Forse per questo motivo, polemicamente, alla “gagliarda musa” di Montanaru suggerisce di cantare “l’epopea angioiana, degna di Omero”, con tutti i suoi eroi, le speranze, il dolore, gli esili e gli atroci patiboli. “Scrivere un poema nella lingua del nostro popolo sarebbe un’impresa molto bella! Non ci pensa?...”. Montanaru forse ci pensò, ma non scrisse il poema. O un tema così arduo e vasto non gli era congeniale, oppure, or ora insignito dal Re del titolo di Cavaliere, non giudicò opportuno glorificare il grande ribelle, la cui memoria, oltretutto, era notoriamente cara ai sardisti.

«Intanto è scoppiata la guerra. Si ascoltano gli esaltati bollettini dello stato maggiore italiano, che danno notizia di vittorie strepitose; ma segretamente si ascolta anche Radio-Londra, in italiano, che ridimensiona le “vittorie” fasciste. Alla fine del ‘42, ognuno capisce che, nei vari fronti di guerra, i ripiegamenti strategici per raggiungere posizioni prestabilite sono disastrose ritirate; e, quando, ai primi del ‘43, gli Alleati avanzano da ogni parte, nella coscienza di molti italiani già si configura l’umiliante conclusione del conflitto.

«In quei primi mesi dell’anno, poco prima che venissero arrestati Ennio Delogu di Bitti e Salvatore Mannironi di Nuoro, tra gli antifascisti sardi corse voce che Emilio Lussu (con Dino Giacobbe e altri) sarebbe sbarcato presto in Sardegna, anzi, era già sbarcato, per organizzare, proprio in Barbagia, la guerra partigiana contro i tedeschi. Questa voce, smentita poi dai fatti, giunge a Orani e Marianna, commossa emozionata smaniosa, sente che è giunta l’ora dell’azione. Si prospetta la necessità di un rifugio per Lussu; il quale rifugio dove potrebbe trovarsi mai se non a Orani nella casa angioiana delle Bussalai? Qui debbo rammentare che Marianna, nell’ormai lontano ma sempre vivo novembre del 1926, in un Mutto aveva scritto: “O Lussu, pro sos sardos, / non b’at locu plus santu / de sa presone tua!”. La zia Grazietta ne è atterrita: “lza mea, no mi nde ghetes sa domo!”. Infine si rassegna: “Venga pure l’eroe liberatore, e accada quel che deve accadere”. Ma non accadde nulla.

«Credo che sia questo il periodo in cui la Bussalai approfondisce le sue cognizioni su Marx e sul marxismo. Se ne può desumere che anche a Orani, mettendo in crisi una parte dei sardisti, comincia a diffondersi la propaganda del PCI. Caduto il fascismo, riprende la libera attività dei partiti democratici; nel corso dell’anno seguente, 1944, dopo il ritorno di Lussu, “sardista” ma dirigente del Partite italiano d’azione, si accendono aspre polemiche non solo fra sardisti e comunisti, fra sardisti e democristiani, ma anche fra sardisti e sardisti. Marianna elabora allora gli “Appunti sul marxismo”, per uso dei suoi compagni di partito, e ne affida la diffusione, ancora una volta, a Gonario Usala. Vi sono messi in luce, in modo schematico e divulgativo, i concetti di classe, di capitale, di lavoro, di plusvalore. Non manca di esprimere la sua ammirazione per il genio di Marx, i cui principi sono veri e inoppugnabili, ma rifiuta l’unificazione universale della lotta per la liberazione del proletariato e per un’unica soluzione dei problemi. “Sappiamo bene”, dice, “qual beffa amara sarebbe per la Sardegna una rivoluzione socialista italiana, se prima non si ottenesse l’autonomia” e se i sardi non partecipassero a quella rivoluzione con un loro preciso ruolo e con un proprio programma.

«Non è questo il luogo – anche, ma non solo, per motivi di spazio – di approfondire il discorso su questi interessanti “Appunti”. Dirò soltanto che gli stessi argomenti portati per rifiutare il PCI le serviranno per tenersi distante dal Partito italiano d’azione quando sul Partito sardo si avventerà, dall’interno, per così dire, la proposta di unificazione. Questa resistenza, alla quale certo non fu sola, le procura subite molti dispiaceri. Si sentirà dire infatti che il chiudersi dentro il PSd’A era un segno di grettezza, e persino di egoismo, era una miope insufficienza di orizzonti universali (“Gli universalisti!”, esclamerà con amarezza). Siamo all’inizio della seconda crisi ideologica, in campo sardista, che culminerà con la scissione del 1948; la prima si era avuta nel 1923, quando un buon numero di sardisti, con motivazioni sostanzialmente identiche, passarono dal “piccolo” Partito sardo al “grande” Partito fascista.

«Ora Marianna, tanto più addolorata in quanto le accuse le venivano mosse da persone a cui voleva bene, reagisce vigorosamente. In una lettera a Graziella Sechi Giacobbe (“Graziella cara”), nel settembre del 1945, dà libero sfogo alla polemica contro la comune amica A.: “Mi spieghi A. perché ci voglia un cuore più capace per militare nel Partito italiano d’azione e un cuore più limitato: per militare nel Partito sardo d’Azione. Indubbiamente l’Italia ha una superficie maggiore della Sardegna; ma la vastità e la grettezza dello spirito non si misurano a metri o a chilometri quadrati”. Da questa polemica tiene fuori Lussu (che è poi il capo degli “universalisti”), perché nel suo cuore è sempre “l’eroe”, l’idea stessa del sardismo, e non è pensabile che egli abbandoni il Partito. Qualche anno dopo invece accadrà anche l’impensabile. Marianna non c’era più.

«Nella casa antica, tuttavia, si agitavano ancora i suoi sogni, impersonati e rivissuti intensamente dalla sorella Ignazia. Essa, in una dolorosa rievocazione espressa in versi, ricorda tra l’altro: “Sorre cara volada dae manu, / cando mancu passavo m’as lassau /... In custa domo a tibe tantu cara, / ube as tantu sognadu e suffridu / vivo su sognu tuo preferidu /... a su cale tue fis votada, / pro su cale sa vida is pronta a dare”. Quest’ultimo verso a mio parere va inteso alla lettera e più di ogni altro discorso rivela il temperamento eroico e tragico di Marianna».


Fonte: Gianfranco Murtas
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