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Gianfranco Murtas

Monsignor Pier Giuliano Tiddia, 70 anni di sacerdozio cattolico. La buona vita di un prete e vescovo sardo del Novecento e d’inizio del nuovo millennio

di Gianfranco Murtas

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Ho molte ragioni di affezione personale verso don Pier Giuliano Tiddia, arcivescovo emerito di Oristano. Lo stimo molto, pur nelle distanze che potrebbero elencarsi delle esperienze e, senza scandalo, anche di talune visioni etico-civili o circa il rapporto Stato-Chiesa. Distanze altresì nel giudizio su alcuni uomini di Chiesa che hanno speso il loro “servizio” in termini invece – a mio personalissimo parere – di “potere”, come è stato per il pessimo cardinale Camillo Ruini che negò, ateisticamente (mettendosi al posto di Dio), i funerali religiosi di Piergiorgio Welby.

Don Pier Giuliano è stato un prete di grande valore disciplinare nelle vicende della Chiesa sarda e italiana nel lungo tempo in cui gli è stato dato di spendere le sue energie, la sua intelligenza e la sua cultura, il suo spirito evangelico e la sua sensibilità sociale.

L’ho frequentato, in modi diversi e a più riprese, per cinquant’anni, e nel 2009 – in occasione del compimento del suo 80° compleanno – pubblicai un libro-intervista con lui dal titolo Il Vangelo, la Chiesa e la Sardegna: una esperienza di vita, in cui potei, potemmo anzi ripassare episodi remoti e prossimi del suo vissuto. Fra essi, certamente centrale, la sua ordinazione sacerdotale, nel dicembre 1951, giusto settant’anni fa.

Ecco di seguito quanto egli mi raccontò in proposito, a cominciare da un rapido cenno sulle figure dei parroci paesani della sua infanzia e adolescenza o primissima giovinezza…

Un nuovo prete, a Sarroch, per la diocesi di Cagliari

Don Tronci, poi fatto monsignore nel 1942 come fondatore di un nuovo canonicato nel nostro Capitolo cattedrale, era originario di Settimo San Pietro. Allora era un sacerdote già maturo, press'a poco quarantenne - un'età già di rispetto, soprattutto in quel tempo... Lui era del 1904 ed era stato ordinato nel 1930, conosceva molto bene l'ambiente di Sarroch.

Don Giovanni Serra, samassese, era più giovane di dieci anni: venne a Sarroch quando era trentenne e in forza, con pochi anni di messa. Rimase da noi sino al 1952, insomma fino a poco dopo che io fui ordinato sacerdote. Quando andò via gli successe don Mario Contu, cagliaritano di Castello, un sacerdote ancora giovane, con una dozzina d'anni di esperienza.

Di cosa si nutriva questa relazione di un adolescente fattosi poi seminarista, divenuto quindi giovane chierico?

Ciascuno con la sua personalità, erano dei modelli con i quali era facile la confidenza. Monsignor Tronci era molto sensibile alla problematica vocazionale, cui dedicava il meglio delle sue energie come direttore spirituale. Mi seguì da vicino non soltanto nel disbrigo delle pratiche per l'ingresso in seminario, ma soprattutto nella preparazione spirituale, nell'avvio del cammino vocazionale cioè. Ricordai questo quando celebrai la mia prima messa a Sarroch, all'aperto, allorché lo invitai per la predica, come avveniva allora.

Nel 1944 andò parroco a Quartucciu, dove rimase sino alla fine, vale a dire al 1980. Io lo assistetti negli ultimi giorni, anzi gli detti anche l'unzione degli infermi: glielo chiesi, e lui accettò volentieri, fu l'ultimo dialogo. Ero già vescovo allora. Veramente mi sono sentito molto legato a questo sacerdote. Egli si dedicava completamente alle vocazioni e alla formazione dei giovani, come ho detto. Allora era molto sentito questo.

A Sarroch c'era allora un pienone di vocazioni, e diversi siamo diventati sacerdoti: c'era stato Lauro Pinna, scomparso in un incidente d'auto a soli 47 anni. Poi Mosè Piroddi, che fu parroco a Villa San Pietro e attualmente vive a Sarroch, ordinato nel 1952. Poi ancora Gavino Pala, parroco di San Carlo Borromeo a Cagliari, ordinato nel 1955. E anche un frate cappuccino, sorto in quell'ambiente e deceduto qualche anno fa. Passò poi al clero diocesano e andò parroco - don Nino Pinna era il suo nome - nel Sarrabus. Naturalmente gli altri, pur se non diventati sacerdoti, vivono la loro vita cristiana.

Parteciparono anch'essi alla sua prima messa?

Certamente ve n'erano diversi fra i fedeli nella piazza. Sull'altare naturalmente v'erano anche altri compagni, preti e chierici. Quel giorno, con l'arcivescovo e numerosi sacerdoti, e con monsignor Tronci, c'era naturalmente dottor Giovanni Serra, che fu appunto il parroco della mia prima messa. Anzi ricordo che, al termine della messa, il vicario generale Lai Pedroni, presente anche lui, lo chiamò da parte e gli disse che si intendeva trasferirlo a Villasor. Andò, e da lì sarebbe poi andato a San Pantaleo, l'ex cattedrale di Dolianova - e a Dolianova fu anche preside delle scuole medie del seminario minore alla fine degli anni '50 - e dopo ancora a Sant'Ambrogio di Monserrato, per finire canonico del Capitolo metropolitano con le mansioni di archivista. Era un persona amabile, amica. Ecco, di lui m'è rimasto questo spirito d'amicizia...

Fra l'altro, negli anni sarrochesi, era un grande appassionato del gioco del pallone, e partecipava anche lui quando noi si giocava fra seminaristi, o in paese si facevano le partite studenti contro lavoratori, dopo i vespri... Aveva proseguito i suoi studi fino a laurearsi in lettere, dedicandosi molto anche alla ricerca storica ed ha anche pubblicato diversi libri.

Nel febbraio 1949 morì l'arcivescovo Piovella. Ad ottobre arrivò a Cagliari, dalla sua Liguria, monsignor Paolo Botto. Come si inserisce il nuovo presule in quella fase della sua vita tra conclusione degli studi a Cuglieri e ordinazione sacerdotale?

Sì, monsignor Botto giunse a Cagliari nell'autunno 1949, proprio quando io iniziavo l'ultimo anno di teologia. Il giorno del suo ingresso a Cagliari fu invitato dal padre rettore a visitare Cuglieri, e venne poi volentieri a conoscerci. Fui presente, a Cagliari, il giorno del suo arrivo, il 25 ottobre. Ascoltai la sua parola con attenzione e ammirazione, era un discorso vivo e vivace. Certo la sua voce e la sua immagine contrastavano nettamente con la voce pacata e ormai stanca e la figura dell'anziano monsignor Piovella, sempre più malato e decadente.

Appena entrato nelle sue funzioni, monsignor Botto, che era stato a lungo rettore di seminario lui stesso, a Chiavari, e dunque se ne intendeva, mostrò subito la sua esigenza disciplinare e di serietà nell'ambito degli studi e della formazione del clero. Giustamente, credo.

E parlaste anche della sua imminente ordinazione?

L'ordinazione gliela chiesi io la prima volta che venne a Cuglieri. Allora non avevo ancora 21 anni. Lui mi disse: «pazienta, devi aspettare».

E lei pazientò e aspettò. Vediamo un po' in dettaglio questo passaggio.

Intanto va detto che nel luglio 1950 conclusi il quarto anno di teologia con l'esame di licenza, presentando un lavoro su "L'infallibilità del Papa in Luca 22, 31-32". Pochi mesi dopo - forse erano i primi giorni di settembre -, quando cioè andammo a Roma per l'anno santo, l'arcivescovo mi chiamò da parte e mi disse che l'anno seguente mi avrebbe ordinato sacerdote.




Intanto io ero interessato a continuare a Cuglieri per la laurea, ne avevo anche parlato con il professore, precisamente con padre Bozzola. L'arcivescovo però mi disse: «desidero che tu venga a Roma a studiare diritto canonico». E naturalmente gli risposi di sì. Mi aveva anche già cercato il collegio, era il Nepomuceno, in via Concordia 1, dalla parte di San Giovanni in Laterano, quartiere Appio. E appunto cominciai a studiare, già alla fine di quel 1950, a Roma.

E l'ordinazione quando venne?

Per l'ordinazione dovetti aspettare circa un anno e mezzo. Mi riferisco adesso soltanto all'ordinazione sacerdotale, perché alla fine del quarto anno di teologia presi il suddiaconato - quella volta dell'ordinazione di don Lauro Pinna—, poi l'anno seguente a giugno presi il diaconato e il 16 dicembre, sempre del 1951, il presibiterato.

Un vero e proprio affollamento di ordini minori, prima di quest'ultimo, concentrati in poco tempo. Come li ricorda?

La tonsura mi fu proposta dal rettore che era ancora padre Bozzola il quale, siccome era annunciata una visita di monsignor Piovella alla fine del 1946, mi disse: «penso che l'arcivescovo sarà contento di darti la tonsura», e naturalmente fui d'accordissimo, anzi felicissimo. Sennonché monsignor Piovella si sentì poco bene e non venne, quindi la tonsura fu trasferita al 10 gennaio 1947 nella cappella del seminario di Cuglieri, e mi fu conferita da monsignor Nicolò Frazioli vescovo di Bosa, che era lì vicino. Venne infatti, quel giorno, monsignor Frazioli, e oltre alle tonsure conferì anche vari ordini minori fino al suddiaconato, e anche qualche diaconato. Così iniziai il cammino clericale. Ero in prima teologia. Invece i quattro ordini minori, prima ostiariato e lettorato, poi esorcistato e accolitato, mi furono conferiti tutti e quattro nella cappella dell'episcopio di Cagliari da monsignor Piovella, due per volta: il 28 giugno del 1947 ed il 28 giugno del 1948 rispettivamente, allorché iniziavo la seconda e la terza teologia. Dovrei aggiungere che il 28 giugno significava la vigilia della festa di San Pietro.

E il suddiaconato?

Per ricevere il suddiaconato, che richiedeva un impegno stabile legato al celibato, bisognava avere almeno 21 anni. Quindi dovetti aspettare qualche tempo ancora. Lo ricevetti alla fine del quarto anno di teologia, appunto al compimento dell'età minima. Fu il 16 luglio 1950, pochi giorni dopo la licenza in teologia. Con me erano don Giovanni Francesco Pala, che sarebbe diventato vescovo di Cassano allo Jonio, e don Bruno Prost, che aveva avuto una vocazione adulta (era stato impiegato di banca!) e sarebbe stato per molti anni economo della diocesi di Cagliari.

E dopo toccò al diaconato. Quando?

Per il diaconato dovetti attendere un altro anno, sempre per ragioni di età. Fu ancora monsignor Botto ad ordinarmi diacono, sempre in cattedrale, il 29 giugno 1951. Allora io studiavo già da un anno a Roma.

Ecco, prima di intrattenerci sugli studi romani, raccontiamo l'ordinazione.

La cerimonia fu fissata appena ottenni dalla competente congregazione vaticana la dispensa per l'età. Il massimo di dispensa allora era di un anno e mezzo rispetto all'età minima dei 24 anni. Ottenutala bisognava che compissi 22 anni e mezzo. Io li compivo il 13 dicembre 1951, e quindi l'ordinazione venne fissata il 16 dicembre 1951 in Sarroch. Sennonché capitò una difficoltà imprevista: ci fu l'alluvione, e anche la nostra chiesa parrocchiale di Santa Vittoria subì danni, si dovette puntellarla, ecc. E allora l'interrogativo che ci si pose era: in chiesa chi ci sta? Bisognava pensare di spostare la cerimonia fuori della chiesa e, trattandosi di dicembre, bisognava sperare che facesse bel tempo. Una bella scommessa. Ma fortunatamente quel giorno fece bel tempo, e sia l'ordinazione che la prima messa, l'indomani sempre di mattina, avvennero in piazza di Chiesa. Non ci fu nessun problema per i presenti. Fu montato un palco, mi pare proprio non ci fossero altoparlanti. Allora non c'era, di fatto, questo servizio... Peraltro monsignor Botto aveva voce, e così si procedette, io cercai di aggiustarmi, la piazza era raccolta. Purtroppo non ho documenti fotografici, né sonori, di quell'avvenimento. Conservo invece alcune fotografie, ovviamente in bianco e nero, della mia prima messa, che celebrai, come ho appena detto nella piazza di Chiesa a Sarroch. Le scattò padre Crescentino Greppi, ormai rettore di Cuglieri, che era un amante dell'arte fotografica.

Ho visto la cronaca di quelle due giornate - ordinazione e prima messa - sulle colonne del "Quotidiano Sardo". «Un'immensa folla ha seguito con commossa attenzione le varie fasi della cerimonia. In prima fila i genitori e parenti del neosacerdote con un folto gruppo di invitati». Fra i presenti, attorno all'altare, ad assistere l'officiante, oltre al canonico Lai Pedroni ed ai parroci Tronci e Serra, anche l'ex rettore del seminario minore monsignor Orrù e quel dottor Plinio Pia che l'aveva battezzata molti anni prima a Sant'Anna...

Sono momenti indimenticabili. Ricordo l'omelia dell'arcivescovo che aveva innalzato un inno al sacerdozio cattolico ed esortato tutti a sostenere le vocazioni. Quello era veramente un periodo in cui sia da Cagliari che un po' da tutti i paesi dell'hinterland e del Campidano, come anche dalle zone del Sarrabus-Gerrei o della Trexenta, venivano ogni anno numerose iscrizioni al seminario minore.

Leggo poi, sempre sul "Quotidiano Sardo" del 18 dicembre 1951: «Ieri lunedì Don Tiddia ha celebrato all'aperto sullo stesso piazzale, la sua prima Messa alla presenza dei parenti, degli invitati e di tutti i parrocchiani. Per l'occasione egli ha ricevuto molti magnifici doni e numerosi telegrammi augurali». Seguivano «gli auguri fervidi di un fecondo apostolato» da parte del giornale. La cronaca magari era un po' enfatica, però rifletteva bene lo spirito del tempo.

C'era un'atmosfera di grande affetto nei miei confronti, la avvertivo ovunque. D'altra parte c'era proprio la considerazione del ruolo del sacerdote nel contesto sociale di quel tempo, ben più rilevante che non oggi.

Debbo però dire che sempre ho sentito, attorno a me, la vicinanza del paese, dei miei compaesani che conoscevano bene la mia famiglia e avevano fiducia in me. Ne avrei avuto infinite manifestazioni, tanto più quando, alla metà degli anni '70, fui ordinato vescovo...




C'è materiale documentario più che sufficiente su questo punto, oltre alle memorie.

Su "Orientamenti" uscì proprio un articolo sulla mia parrocchia di paese in festa per me... Potremmo rivederlo...

Lo faremo senz'altro. L'arrivo a Cagliari di monsignor Botto aveva portato nell'archidiocesi una ventata di novità, gradite o meno che fossero. Ho trovato la notizia che il giorno precedente l'ordinazione fu riaperta l'antica e bellissima chiesa castellana di San Giuseppe Calasanzio, già officiata dagli scolopi, di fianco alla torre dell'Elefante...

E dove alcuni anni dopo sarei stato anch'io con il gruppo della FUCI. Il dinamismo impresso dal nuovo arcivescovo era impressionante. Lui aveva un grande carisma, ovviamente un carisma molto diverso da quello di monsignor Piovella. Aveva dato la scossa all'ambiente.

A lei che era tifoso del Cagliari dispiacerà che ricordi che nella domenica della sua ordinazione la squadra perse 2 a O ad Empoli. Comunque, con la vittoria 3 a 0 sul campo del Pontedera, poche settimane dopo, e dopo tutta una serie di successi in casa e in trasferta, s'era conquistata lo scudetto d'inverno.

Allora giocavamo in serie C e ottenemmo, a fine campionato, la promozione in B. L'allenatore era Allasio, che poi avrebbe allenato per molti anni la Torres, e il direttore tecnico era Vincenzo Soro, oggi più che novantenne ma in perfetta salute.

Chi ama il genere - ma allora il calcio non era business e il cambio maglia non così frequente - forse ricorda quel Cagliari domestico; di professionisti con lo spirito dei dilettanti. Allora giocava già Torriglia, che era un attaccante che quasi quindici anni dopo ci avrebbe portato in serie A!

Mio cugino Mario giocava forse con l'Olbia, sarebbe arrivato a Cagliari alla fine degli anni' 50.

Però c'era anche altro, oltre alle partite del Cagliari. L'ha accennato lei prima, l'alluvione, nell'ottobre e anche dopo del 1951.

Fu una tragedia grande per la Sardegna centro-meridionale, con morti e devastazioni inimmaginabili, crolli di case, edifici pubblici, ponti e strade, paesi isolati. Furono coinvolti soprattutto il Sarrabus, l'Ogliastra il bacino del Flumendosa. Venne allora lo stesso presidente della Repubblica Einaudi a visitare le zone più colpite. Ma anche altre zone, compresa quella di Sarroch, come ho detto, fecero la loro parte.

Un evento bello di quel periodo difficile fu, invece, la canonizzazione del beato Ignazio da Laconi: beatificato nel 1940, proprio nei giorni dell'entrata dell'Italia in guerra, e canonizzato undici anni dopo…


Fonte: Gianfranco Murtas
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