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Gianfranco Murtas

Ottone Bacaredda, il suo Bovio e la loggia Sigismondo Arquer. Fra le piste di nuove ricerche biografiche

di Gianfranco Murtas

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Mentre sono in corso purtroppo (causa covid) soltanto gli anticipi delle celebrazioni bacareddiane motivate dal centenario della morte del grande sindaco, datosi giusto in questi giorni, mi sembra siano piuttosto frequenti e felicemente diversificati gli interessamenti alla sua vicenda umana. Dico alla vicenda privata oltre che a quella pubblica, di docente, di avvocato, di amministratore, di parlamentare, direi anche di letterato e saggista. A me stesso è capitato, in queste tribolate settimane, di riversare elementi nuovi o inediti della sua biografia, portarli agli scambi sempre cordiali con studiosi competenti ma anche con diversi appassionati alla nostra storia municipale cagliaritana. Di questi ultimi, anzi, mi è risultato gradito l’accompagnamento in mirati “viaggi” nel camposanto monumentale di Bonaria, ove riposano diversi dei Bacaredda che erano Baccaredda, ma anche dei Poma, dei Ravot, dei Marini, forse anche dei Parma, dei Manca, certamente dei Boy e dei Leonardi ecc. né oltre i colombari degli smottati gradoni del Cima sono escluse dal novero dell’accoglienza le fosse così come le cappelle delle confraternite religiose fra cui eccelle quella liapolese del SS. Sacramento.

Mi è stato chiesto di individuare e proporre piste di ricerca nuova, giacché si tratta di cogliere l’occasione del centenario per evitare la ripetitività, i percorsi nella mitologia infine generica, pur se vada riconosciuto anche a quest’ultima la sua giustificazione. Si tratta di entrare, ancorché per sintesi, nell’umanità viva e larga del sindaco per accostarla e incrociarla con quella della città che egli ha servito per un trentennio e più, con compiti diversi ma tutti volti, secondo il sentimento borghese del suo tempo, a dare, con gradualità, corpo forte e solido ad una comunità stretta nelle sue complessità e nelle sue contraddizioni. Giusto come anche la videro alcuni dei viaggiatori italiani e stranieri che la visitarono negli anni di passaggio di secolo lasciandone traccia nei loro libri. (Nel 1921 arrivò da noi David Herbert Lawrence con la sua Frieda, e seppe ben raccontare del mercato “del ventre”, ma prima di lui quanti altri ne attraversarono vie e piazze e anche budelli e si fecero un’idea, oltreché della festosa pratica della tradizione, delle modernità in continua conquista e della sofferenza resistente nel suo sottoproletariato confinato nei bascius).

Ho segnalato alcuni finora inesplorati filoni di ricerca sulla vita di Ottone Bacaredda: la sua relazione di cagliaritano stampacino con Sassari (variamente vissuta nell’adolescenza e nell’età matura, direi perfino estrema); il suo mazzinianesimo giovanile (che per certi versi lo avvicinava al suo “rivale” – tale almeno fino al 1906 – Francesco Cocco Ortu e che, come nel caso di Cocco Ortu ma anche di numerosi altri liberali sardi e nazionali, ebbe maturazioni, non dico se evoluzioni o involuzioni, nell’accettazione monarchica); il suo rapporto con la fede e la Chiesa (ben sapendo di quanti ecclesiastici si incrociarono nella sua stessa famiglia); la sua prossimità alla Libera Muratoria, su cui molto si è scritto, non sempre però, a mio avviso, centrando la questione.

Mi sono impegnato – salute (precarissima) permettendo – di coprire, almeno secondo le mie capacità, questi vuoti, portando elementi nuovi o finora tralasciati nello studio biografico del nostro Bacaredda. (E spiace quanto una raffazzonata, per alcuni aspetti incredibilmente volgare, recente manifestazione del premio Alziator – divenuta una vetrina per i libri di Capezzone circa la destra economica targata forza italia, che nulla c’entravano né con Alziator né con Cagliari o la Sardegna, e una esibizione da televendita strillata direttamente in faccia all’arcivescovo da una signorina in inopportuna minigonna inguinale – abbia impedito di dire quanto pure era stato preparato proprio su Alziator e Bacaredda!).

Certamente conteranno le duecento pagine manoscritte di ricordi familiari che il prefetto Efisio Baccaredda (primogenito del sindaco) scrisse nella sua più tarda età – aveva allora superato i 90 anni – e che i discendenti mi hanno, con spirito d’amicizia, donato, ma conteranno anche le esplorazioni dell’emeroteca (e quotidiana e periodica) che talvolta anche dalle colonnine all’apparenza più trascurabili sanno ricavare notizie importanti. Ma per adesso, poiché mi si è chiesto se Ottone Bacaredda sia mai stato iscritto ad un piedilista di loggia massonica, e rinviando ad altra circostanza un inoltro nella materia, mi piace comunque ricordare come i tre medici che lo assistettero, giorno dopo giorno, negli ultimi cento giorni della sua vita, curandolo (purtroppo non guarendolo) da una cancrena, furono tre Fratelli della loggia Sigismondo Arquer: Roberto Binaghi, Francesco Putzu e Luigi Cocco Serreli. Essi provvidero all’intervento chirurgico (o al doppio intervento chirurgico) approntato nella sala operatoria di quell’ospedale del quale Bacaredda era stato presidente per due anni, prima dell’avventura sindacale, essi si avvicendarono mattina e sera nella sua camera di degenza, essi lo accompagnarono e ancora assistettero negli ultimissimi giorni a casa, un villino nella parte terminale di via San Giovanni, quasi a Is Stelladas.

Roberto Binaghi, che sarebbe stato anche rettore dell’Università dal 1915 al 1931 (successore di Oddo Casagrandi, microbiologo anche lui appartenente alla loggia cagliaritana), venne iniziato 27enne, nel 1893, fra le Colonne della Sigismondo Arquer allora ancora in via GesùMaria, dal Venerabile Eugenio Pernis.

Francesco Putzu (tianese classe 1875) e Luigi Cocco Serreli (sinnaese classe 1879) lo seguirono un quindicennio dopo, e anzi il loro arrivo nel Tempio ormai trasferitosi alla Marina funzionò positivamente sulla stessa militanza scozzese del primario, per qualche tempo rallentatasi per il sovrappiù delle attività e professionali e politiche (come cofondatore della sezione cittadina del Partito Radicale).

Putzu – libero docente e poi titolare di cattedra di clinica chirurgica e medicina operatoria – fu iniziato nel 1911 e nel biennio successivo promosso ai gradi di Compagno d’arte e di Maestro; Cocco Serreli lo aveva preceduto di un anno soltanto ed aveva ricevuto la Maestria nel febbraio 1913, proprio insieme con Putzu. Gemelli – Putzu e Cocco – in sala operatoria e gemelli nel Tempio scozzese. Dal tronetto del Venerabile erano stati accolti l’uno da Antonio Ferrari (un ingegnere con forti esperienze minerarie e a Cagliari presidente dell’Istituto Case Popolari allora quasi al suo esordio) e da Stefano Cardu, il noto viaggiatore che fece fortuna in Thailandia (donate al Comune di Cagliari nel 1917, le sue collezioni d’arte ed artigianato siamese sono in esposizione alla Cittadella dei musei).

Veniva più di tutti da una bella storia di umanità pratica, Cocco: era stato nel gennaio 1909 il caposquadra degli studenti, in specie di quelli di Medicina fra i quali figurava Armando Businco (prossimo anche lui alla iniziazione massonica), in quel di Palermo nel cui porto venivano smistati fra i vari ospedali da campo i sinistrati di Messina vittime del terremoto. E a tal riguardo andrebbe detto che quello a cavallo dei primi due decenni del secolo era un periodo di particolare impegno sociale della loggia che aveva adottato un bambino rimasto senza famiglia e mezzi di sussistenza, si spendeva per l’allestimento di un dormitorio pubblico (prima pietra nel 1910, inaugurazione con dono al Comune e giro alla Croce Rossa nel 1915), lanciava – proprio con Binaghi e gli altri – la Croce Verde, società di pronto soccorso ed assistenza. Senza dire – ma qui sul piano culturale – della Dante Alighieri o dell’Università Popolare.

Piace vedere così l’umanitarismo della Libera Muratoria cagliaritana – a cui molto doveva (fin dal 1867) anche il Ricovero di Mendicità di lato alla chiesa dei cappuccini francescani –, piace vederlo anche declinato nella cura affettuosa del sindaco nostro che, già menomato della vista, dovette soffrire tanto negli ultimi mesi della sua vita.

Vissero la scienza e l’arte medica come una missione esistenziale tutti e tre i clinici che accompagnarono nel suo calvario Ottone Bacaredda, allora uomo già anziano (73enne) ma ancora datosi generosamente, in quel dopoguerra, al servizio dell’interesse generale e tanto più, perciò, meritevole di ogni zelante riguardo. La sua amministrazione, fra il 1889 e il 1890, era nata in contemporanea – e fu gemellaggio anche quello, seppure soltanto di calendario – con la Sigismondo Arquer e nelle giunte via via susseguitesi, presiedute da tanto sindaco, certamente mai mancarono gli uomini formati in loggia, o dalla loggia impegnati a un civismo eroico: da Aresu a Scano, da Satta a Pernis – il Pernis che ricevette per il Comune il monumento a Giordano Bruno –, da Castelli a Sanna Randaccio, da Nissardi a Nonnoi, ecc. per non dire di quanti altri – trenta e più – in Consiglio sostennero, lungo il tempo, le sue delibere. Dei sessanta consiglieri eletti nel novembre 1920, ben 48 furono compresi nel “blocco” liberaldemocratico bacareddiano: e nel seno di questo ben 16 erano gli artieri della Sigismondo Arquer. Per dire dunque soltanto della conclusione.

La loggia godeva allora di tutti i virtuosi succhi della tradizione e votava la sua ontologica trasversalità, fra liberalmonarchici conservatori e democratici repubblicani (e socialisti) progressisti, al senso di patria: nel 1911 si celebrava a Cagliari, con grandi manifestazioni popolari, il primo cinquantenario della unità d’Italia e l’erma dei grandi del risorgimento prese ad affacciarsi dal cornicione di palazzo Picchi; Dante e frate Giordano sarebbero seguiti da presso, l’uno di sentinella al Dettori e l’altro in faccia alla porta dei Leoni. La statuaria cagliaritana – intendo quella laica o civile –, già di lustro nello square con le effigi di Verdi e Bovio, aveva anticipato il ciclo nel 1901 e nel 1905. Nella riservatezza della casa massonica di via Barcellona 29-31, fra lo spazio della Segreteria e quello dei Passi Perduti, con i quadri patriottici ai muri, i quadri di Mazzini e Nathan, altri busti rendevano quel senso religioso che entrava nella condivisione ad un tempo ideale e sentimentale: erano quelli di Garibaldi e Carducci e Bovio… L’ideale e il sentimento di patria mischiato o armonizzato, secondo pertinenza di Libera Muratoria e di mazzinianesimo, con quello di universalità. Si maturava così, la netto delle umane cadute, nella antica Sigismondo Arquer.



A proposito di universalità e di Bovio. E di Bacaredda, naturalmente. Non fu casuale una citazione che il sindaco – ma nella circostanza in quanto docente universitario incaricato della prolusione all’anno accademico 1920-21, che doveva essere l’ultimo del suo insegnamento – volle inserire nel suo discorso (che una contestazione studentesca al rettore per le sessioni di esame annullate impedì infine si tenesse). Si riferiva egli alle speranze di pace e concordia planetaria affacciatesi all’inizio del secolo per essere poi smentite dalla carneficina del primo conflitto mondiale: «Si dicevano tramontati gli arcaici pregiudizi che separavano le genti a seconda delle loro origini etniche, si affermavano superate le viete distanze di razze superiori ed inferiori, di razza bianca e di razza di colore; si annunziava a gran voce la marcia del cosmopolitismo, che, iniziata col Volapuk e coll’Esperanto andrebbe a chiudersi alla superba fèerie di un’unica “Confederazione di Stati” alla quale Giovanni Bovio già assegnava la capitale, la Cosmopoli – dove “non si è greco o barbaro, né caucaseo o mongolico, né giudeo o cristiano, ma si è uomo: homo sum et ius humanum est mihi!”».

Si sarebbe potuto dire, forse si direbbe anche oggi che allora si volava alto, troppo alto. Ma volare alto, troppo alto, era forse avvertito un dovere, una missione.

E piace – a me piace – immaginare che quel sentimento della tradizione che mazzinianamente combinava l’amor di patria all’amore universale sapesse declinarsi nell’ordinario quotidiano, nell’adempimento dei propri doveri da parte di ciascuno, nel trasferire un’amicizia di umanità in ogni relazione. E rivedere oggi, come in un film, le cure di riguardo ed affettuose dei tre artieri della Sigismondo Arquer al sindaco di tutti, ora nell’ospedale civile ora nella sua casa di Villanova, è scena che pare dia proprio il senso di una missione che è spirituale prima ancora che materiale o soltanto clinica.

Fonte: Gianfranco Murtas
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