Sant’Eulalia, monsignor Sini, settant’anni fa. La magia sociale di Cagliari
di Gianfranco Murtas
Sembra poca roba e invece infiamma il sentimento: è la sorte, anzi la vocazione di questo o quel documento, non prezioso per antichità né per conio grafico, ma che ti rimanda dritto dritto al tuo passato – ordinarissimo passato – datato in un calendario che si chiama vita, magari infanzia e/o adolescenza. E qui, ad annotare le scintille di ricordi ed emozioni, ci si prova un agé cagliaritano che la parte primissima della sua esistenza l’ha passata, dai confini abitativi fra Villanova e la Marina (giusto fra su Muntronaxiu collettivo cresciuto alle spalle dei palazzi Marini e De Bonfils e la risalita di sa Butanica), nelle quotidiane proiezioni verso la parrocchiale di Sant’Eulalia.
Allora – anni ’50 e ’60 – la Marina era quella descritta, nei paginoni de L’Unione Sarda e poi nella raccolta antologica de L’Elefante sulla Torre –, dalla magica penna di Francesco Alziator, un quartiere di pescatori e di bixinaus che condividevano gli odori delle cucine e, a mezzogiorno o all’imbrunire, degli arrosti di pesce fatti in strada, un quartiere di devozioni religiose e di almeno dieci larghe processioni all’anno aggiungendovi anche quella estiva a mare in onore di San Francesco di Paola, e di feste, feste, feste di popolo, di un popolo contento di sé, di quel che aveva e gli bastava, dei bambini e ragazzi che frequentavano le elementari migrando per qualche ora al Satta o confinandosi all’asilo delle Vincenziane ancora con suor Tambelli (scomparsa nel 1964), e sbrigando le medie alla Manno. C’era tanto carnevale e tanto, tantissimo commercio nei piccoli esercizi a partire dalla via Baylle e dalle parallele vie Cavour e Sardegna, prima che alzassero il problematico palazzone del Consiglio regionale. Il polmone di tutto, o di quasi tutto, era la parrocchia di Sant’Eulalia che, tanto più i minori, li sapeva inquadrare (ed educare) nei gruppi dell’Azione Cattolica miscelandone i giochi in saletta – biliardino e ping pong – e nel piazzale di cemento (con un pallone che era una proletarissima palla di carta e di gomma e spago) con le lezioni di catechismo, la visione dei film domenicali – io vendevo le caramelle a cinque lire l’una –, con quella delle prime trasmissioni della tv dei ragazzi che affacciavano Paolo Poli e la Mondaini, laggiù nella modesta e sbilenca sede degli uomini di Azione Cattolica, mentre i vecchi giocavano a scala quaranta e si dissetavano con birroncini di produzioni conosciute. Noi bambini eravamo felici, ci appagava la novità del video con il contorno, d’estate, della gazzosa fredda, o del chinotto, meglio ancora dell’aranciata. Nel tempo dell’avvio Concilio in San Pietro, del Concilio di cui si parlava, anche i bambini ne parlavano godendo dei flussi d’orgoglio del loro clero, e delle prime messe in lingua italiana, secondo una liturgia semplificata ma più partecipata. Di più: partecipavamo a quelle lente spedizioni domiciliari per il saluto e la benedizione delle famiglie (“delle case”, si diceva allora, e noi bambini proletari affogavamo in quelle case pari alle nostre mentre ci illuminavamo in quelle tutte affrescate come regge, di qualche ricco palazzo tanto della via Roma quanto del viale Regina Margherita…).
Mi è capitato nei giorni scorsi, accompagnando un artista di gran vaglia – il cagliaritano Fabrizio Sitzia, lo scultore che a settecento anni dalla prima produzione ha replicato il monumentale capitello of tumblers & minstrels della magnifica cattedrale anglicana (e già cattolica) di Exeter in Inghilterra – a visitare la bellissima mostra Atzori-d’Aspro allestita nell’area archeologica di Sant’Eulalia, di vedere esposte nell’andito che un tempo ci portava nella sala intitolata al beato Pier Giorgio Frassati – il nostro eroe di bambini e adolescenti e la cui associazione era stata fondata nel 1935 – le fotografie per il più degli anni fra il 1948 ed il 1952 che erano state impaginate in un bellissimo fascicolo tutto allora manoscritto dalle ragazze della Gioventù Femminile di Azione Cattolica sul quartiere e la sua parrocchiale: un fascicolo adesso opportunamente riprodotto in anastatica e posto a disposizione di tutti, su un apposito leggio in quello stesso corridoio.
Vorrei tornare, e spero di poterlo presto fare, su quel documento che posseggo anch’io come pezzo forte dei miei faldoni documentari riferiti a Sant’Eulalia meraviglia di Cagliari, della sua storia sentimentale non soltanto della storia delle sue pietre, della sua arte, della sua cultura… Per intanto, però, il pensiero è andato ad una iniziativa che promossi giusto tre lustri fa, nel dicembre 2008, per celebrare in Sant’Eulalia il centenario della nascita di don Ezio Sini che aveva rilevato la conduzione della parrocchia nel 1953, proprio nel momento in cui le ragazze dell’Azione Cattolica completavano il quaderno di cui sopra…
Chiesi allora, naturalmente d’intesa con il parroco don Mario Cugusi, all’arcivescovo Pier Giuliano Tiddia di presiedere, sabato 6 dicembre 2008, una messa concelebrata da tutti i preti ancora viventi che avevano offerto nel tempo – tempo breve o tempo lungo – la loro collaborazione alle fatiche comunitarie. Riuscimmo e poi ci trattenemmo nella sala del teatro per un libero ricordo di quel presbitero di valore e tanto cuore, originario di Mandas, a lungo parroco di Dolianova e Sanluri e anche cappellano militare negli anni della seconda guerra mondiale. Avevo pubblicato la sua biografia ( Don Ezio Sini, fra culto divino e pastorale sociale ) , sciogliendo così un debito di gratitudine per la paternità donatami lungo un decennio circa (una volta mi donò anche un cappotto montgomery e un paio di scarponi e nell’estate 1962 mi spedì per un mese alla colonia POA del Poetto)… Ecco quanto dissi, come in uno sbotto di confidenza, in quella circostanza.
Sant’Eulalia 1953
Chi di noi non c’era – e forse non c’era quasi nessuno allora – deve lavorare un po’ di fantasia per rivedere come in un film don Ezio Sini che arriva, fra novembre e dicembre 1953 – giusto 55 anni fa di questi giorni –, a Sant’Eulalia per rilevarla da un confratello che, dopo dieci anni soltanto di guida della comunità, ha dovuto fare i bagagli. Le calunnie tante volte, o sempre, fanno vittime. E don Mario Floris è rimasto vittima innocente di certe calunnie. Monsignor Botto, a Cagliari ormai da quattro anni, lo ha spedito a Sant’Andrea Frius (e successivamente lo manderà a Villasor).
Viene, don Ezio Giovanni Maria Vitale Giacomo Sini, al posto di don Floris, che lo accoglie con amicizia e sentendosi come un fratello minore per quei quattro anni in meno d’età e cinque di messa. Ad unirli è una circostanza non da poco, nella simbologia che è umana e sacramentale insieme: sono stati ordinati sacerdoti entrambi nella solennità dell’Assunta, entrambi nel duomo di Cagliari che a Santa Maria Assunta in cielo si intitola, entrambi dal venerato monsignor Ernesto Maria Piovella.
Trova, don Sini, una parrocchia viva e vivace, nonostante la diffusa povertà del quartiere, nonostante le ferite ancora evidenti inferte dai bombardamenti del 1942 e soprattutto 1943: 28 febbraio, 31 marzo, 13 maggio. Colpita l’area della cappella dedicata alla patrona, al centro della navata di destra, colpito poi anche il battistero, e altri gravi danni saranno rilevati qua e là… Il 30 giugno l’acciaio mortale è piovuto anche sulla cappella del Santissimo, danneggiando la celebre tela del Marghinotti.
C’è stata una lunga ora di pianto. Ma, dopo lo smarrimento iniziale, tanto più al ritorno degli sfollati in città, si è avviata la ripresa, alla Marina come in tutta Cagliari: ognuno ha fatto la propria parte, così l’amministrazione statale come quella municipale a guida prima Dessì Deliperi, poi Pintus, poi ancora – dopo le elezioni del marzo 1946, le prime dopo un quarto di secolo di dittatura – Crespellani. Anche la parrocchia, con il suo don Floris e con don Carmine Fais e con don Salvatore Casu, ha fatto la sua parte; e anche la gente raccolta nelle associazioni, e tutti e ciascuno poi in casa propria con la propria famiglia…
Così a cinque anni giusti dagli sconquassi e dai lutti, il sorriso è tornato anche attorno al materno plesso di Sant’Eulalia. La sera del 16 ottobre 1948, dopo un triduo predicato nella succursale del Santo Sepolcro – che per un lustro ha ospitato gli uffici e quel tanto di vita comunitaria resa possibile dalle circostanze –, ecco la riapertura consentita dal completamento dei restauri (finanziati dal Genio Civile). Una processione con il SS. Sacramento è mossa da Sant’Eulalia dopo la solenne riconsacrazione da parte di monsignor Piovella quasi alla vigilia della sua morte.
L’indomani messe a tutto spiano e il pontificale di mezza mattina celebrato da don Floris, con l’assistenza dal trono dell’arcivescovo, presenti le maggiori autorità cittadine, e con l’accompagnamento all’organo ed il coro dei ragazzi diretto da don Fais. Di sera nuova processione, stavolta con il simulacro della patrona, per le vie del quartiere. Preghiere tante e altrettanta solidarietà, con 350 bambini proletari provvisti di nuovi capi di vestiario di ogni foggia e taglia. Festa in tutta la Marina: lotterie benefiche e la banda musicale che suona in piazza fin quasi la mezzanotte. (Non è stata granché diversa, forse con un di più di profano, la “rinascita” di Sant’Anna, a luglio. Ne ho scritto altre volte e oggi mi risparmio)
L’avevano testimoniato in molti: quante donne, pressoché tutti i giorni, negli anni in cui la chiesa era ingessata nel cantiere, si sono accostate alle mura ed hanno depositato lì, magari vicino all’architrave del portone laterale recante l’antica effigie di Santa Maria del porto, le preghiere, l’invocazione e il ringraziamento…
Risorta la chiesa parrocchiale, trecento anni di storia e forse altri cinquecento di più antichi, e chissà cos’è stato nel primo millennio, ha perso definitivamente, Sant’Eulalia, tutta la struttura dell’Opera interassociativa e la sede della Congregazione del SS. Sacramento, sul fianco sinistro della grande scalinata. Ha perso, nel più vasto raggio del suo territorio, l’antica chiesa filiale di Santa Lucia, abbattuta nel 1947 perché pericolante, e sotto le bombe quella di Santa Caterina alessandrina, nonché l’altro gioiello architettonico, nella Marina: Sant’Agostino nuovo, le cui strutture resteranno a lungo lesionate.
Entra, don Sini, in una famiglia religiosa portatrice di una storia di prima grandezza.
Credo che questa storia egli l’abbia onorata, nei 17 anni del suo parrocato, compiutosi il 14 marzo 1971 con la cessione della guida comunitaria a don Salvatore Casu, che di Sant’Eulalia era stato il viceparroco collaboratore di dottor Floris.
Lo sguardo a una biografia onorevole
Ho lavorato attorno alla biografia di don Ezio Sini – dal 1956 canonico onorario del Capitolo e portatore del titolo ecclesiastico (molto poco evangelico e molto clericale) di monsignore, com’è anche generalmente conosciuto e ricordato – partendo da qui. Dai ricordi d’infanzia di Sant’Eulalia, fra chierichetti e Azione Cattolica Uomini Donne Ragazzi Fanciulli Aspiranti Beniamine ecc., fra Società dei pescatori e Zitine, fra residue influenze sulla POA ed Apostolato del mare, fra catechismo dei bambini e benedizione delle case, fra processioni e solenni liturgie ora di festa ora di lutto…E magari da qualche rapsodico ricordo del “dopo”, dei suoi impegni in cattedrale come capitolare (amministratore e procuratore del Capitolo metropolitano per 13 anni), come collaboratore di Santa Caterina in Monte Urpinu, come assistente dei gruppi di preghiera di Padre Pio…
Ma c’era un “prima” di don Sini, che non conoscevo se non per linee molto generiche – il cappellano militare ad esempio – e che bisognava esplorare, incontrare e raccontare. Perché rincontrando la sua vita noi oggi, a cento anni dalla nascita, confermiamo alla sua memoria il nostro umano affetto e la gratitudine per una relazione che è stata comunque feconda.
Viene 45enne, don Sini, a Sant’Eulalia, e nel 1953 è prete già da 21 anni. Tre di questi 21 anni, i primi, egli li ha trascorsi a Cagliari come cappellano del circolo operaio “Giuseppe Manno”, in quel di San Lucifero, all’ombra del mitico don Mosè Farci. I ragazzi senza titolo di studio vengono preparati e si presentano all’esame di licenza elementare. Sono gli anni fra il 1932 ed il 1935, quando anche è incaricato di dire messa all’aeroporto, o idroscalo, al tempo soltanto militare di Elmas. E quando, di sua iniziativa, comincia una “carriera” bella e faticosa che finirà soltanto in vecchiaia: predicatore eusebiano.
Gli eusebiani – che prendono il nome dal un santo vescovo di Vercelli ma originario di Cagliari, del tempo del forse più noto San Lucifero – sono una associazione di sacerdoti che si prestano ad andare gratuitamente per parrocchie a predicare le cosiddette missioni popolari, soprattutto in vista della visita pastorale dell’arcivescovo il quale, in quella occasione, ispeziona il buon funzionamento della parrocchia, incontra persone e istituti, ed amministra le cresime.
Bisogna calcare il pulpito, ed è un’arte difficile. Ho trovato cronache delle prime prediche eusebiane di don Sini 26enne nella chiesa di Sant’Antonio abate in via Manno, che al tempo è già da una decina d’anni parrocchia autonoma da Sant’Eulalia. E da allora, apprezzato per l’efficacia della sua oratoria, viene chiamato ovunque: avrà tenuto il pulpito chissà quante volte nel corso della sua vita sacerdotale, a parte il personale impegno parrocchiale, certamente centinaia di volte, in tutta la città, in tutta l’archidiocesi e anche fuori l’archidiocesi. Sovente, tanto più quando si trova in piccoli centri, conducendo la sua predicazione, i suoi quaresimali, i suoi panegirici per i santi patroni, parla in sardo. Difenderà la lingua sarda fino all’ultimo, sottolineandone la validità comunicativa e il valore anche simbolico nel nesso delle generazioni in successione.
A 27 anni gli è conferito da monsignor Piovella l’incarico di parroco a Sicci San Biagio, una delle due parrocchie di Dolianova. Rimane qui sette anni. E il suo operato è ben documentato dalle frequenti corrispondenze (una cinquantina) che sono pubblicate, fra il 1935 ed il 1942, sul settimanale “La Sardegna Cattolica”. Emerge da queste cronache la sua socialità, e insieme la dimensione verticale, spirituale, del sacerdote che alla tavola del sacrificio-e-convito conferisce il meglio di sé, anzi tutto se stesso e l’intenzione della sua comunità ricavandone energie ed entusiasmo per un nuovo fare. Perché il culto divino – lo ricorderà anche chi lo ha conosciuto a Sant’Eulalia – viene sempre in primo piano nel suo sacerdozio che pure è un sacerdozio ampiamente sociale. Aggiungo, un culto divino animato da una speciale devozione mariana, che pure sarà un’altra costante del suo sacerdozio. Ricordiamo la cappella dell’Assunta realizzata ai primi anni ’60 in Sant’Eulalia, ricordiamo il movimento solenne ed austero attorno alla Vergine Dormiente alla maniera bizantina, con il recinto metallico…
Ancora Dolianova: varrà appena ricordare che nell’estate 1939 – giusto alla vigilia della seconda guerra mondiale, alla vigilia dell’invasione nazista della Polonia – viene inaugurato il seminario cosiddetto estivo o succursale. Qui frequentano i ragazzi della prima media. Don Sini insegna matematica.
Nel 1942, a 34 anni, lascia il Parteolla e viene a Cagliari. L’Italia è in guerra da due anni. Viene per fare il cappellano militare, con i gradi di tenente. E’ assegnato all’Ospedale militare “sezione” San Bartolomeo, com’è scritto nel suo foglio matricolare. In sostanza deve occuparsi dei reparti che hanno sede nell’area fra San Bartolomeo, Calamosca, il Poetto. Pochi mesi e poi i bombardamenti sulla città costringono l’autorità militare a trasferire l’Ospedale in quel di Oschiri. E va, don Sini/tenente Sini, con il suo attendente Mura, ad Oschiri. Quasi un anno. Al ritorno, nel 1944, dovrà pure lui rimboccarsi le maniche e lavorare per la ricostruzione anche materiale. Dall’arcivescovo sarà presto incaricato anche della gestione della Pontificia Opera di Assistenza (insieme con don Giuseppe Lepori) per la somministrazione di alimenti e vestiario agli indigenti, e dell’apostolato nei grossi luoghi di lavoro, ad esempio alla manifattura tabacchi: è la figura dei cappellani “del lavoro”. Dice messa, accompagna nei momenti forti dell’anno liturgico, fra Quaresima, Passione e Pasqua, l’Avvento ed il Natale… E naturalmente continua ad accogliere gli inviti che gli pervengono da questa parrocchia o da quell’altra, per predicare le missioni popolari o i quaresimali, oppure per panegiricare la Madonna Maria o il santo patrono.
Ma non solo di militari e di operai, fra caserme e fabbriche, oltreché di POA e di pulpiti, deve interessarsi don Sini. Deve interessarsi anche della parrocchia di San Bartolomeo. Questa viene eretta canonicamente soltanto nel 1946, ritagliandone il territorio dalla giurisdizione della parrocchia di Bonaria. Ma don Sini qui ha detto messa normalmente la domenica, anche prima dell’erezione canonica, nella chiesetta antica, povera ma suggestiva che affaccia sulla piazza con l’antica fontana che era stata costruita dai forzati, gli ergastolani che là vivevano e non soltanto di spalare sale si dovevano occupare, ma anche della tenuta agricola impiantata in zona.
Dura otto anni questo mix di cappellania militare, di parrocato a San Bartolomeo, di ufficio POA e cappellania “del lavoro”. Il congedo formale dall’esercito avviene nel 1950, ma il legame affettivo non si spezzerà mai. E sarà saldo. Quando andrà in pensione (congedo assoluto, nel 1973) riceverà la promozione d’onore a capitano.
Nel 1950 don Sini ha 42 anni e il nuovo arcivescovo Paolo Botto lo toglie dalla città e lo rimanda in provincia: a Sanluri, una parrocchia importante per popolazione e per gli snodi economici del territorio. Là c’è poi una scuola media, ginnasiale e superiore, impiantata da monsignor Piovella per supplire alle carenze statali che ha lasciato la zona sprovvista di istituti scolastici; sarà quel che farà negli anni ’50, per la Marmilla e il Villacidrese, anche monsignor Tedde vescovo di Ales dal 1948. Una scuola che costa molto e impegna nell’insegnamento diversi preti diocesani, che il nuovo presule vorrebbe utilizzare altrimenti. Per questo si è accordato con gli scolopi, che erano stati in Sardegna fino agli anni ’20, per il loro ritorno nell’Isola, a Cagliari e soprattutto a Sanluri. Anche di questo passaggio di consegne dovrà occuparsi don Sini parroco di Nostra Signora delle Grazie. Sono anni duri, anni di contrasti politici fortissimi con il Partito Comunista: gli anni che la cinematografia ha celebrato con la serie di “Peppone e don Camillo”, che noi bambini vedevamo – magari in turnazione con “L’ultimo dei Mohicani”, o “Gianni e Pinotto” o “Marcellino pane e vino” – nei primi anni ’60 qui al cinema di Sant’Eulalia, dopo il catechismo domenicale delle 16.
Ecco poi il 1953, e Sant’Eulalia. Entra 45enne, don Sini, lascia quando ha compiuto da qualche mese il 62° compleanno.
L’ultima parte della sua vita è frazionata in molti incarichi di volontariato ecclesiale, che ruotano attorno ai doveri capitolari in duomo. Li ho accennati prima. Vorrei soltanto aggiungere, perché tocca direttamente Sant’Eulalia, la permanenza per diversi anni ancora, nell’incarico di commissario prefettizio della Arciconfraternita della SS. Trinità e Sangue di Cristo sotto l’invocazione di Santa Lucia. Ho trovato pagine gustose che, col il placet di don Cugusi, ho pubblicato in questo “Don Ezio Sini, fra culto divino e pastorale sociale”.
Posso credere che egli abbia avuto modo, tempo e anche e soprattutto desiderio di ripensare a tutta la sua vita, come per ricapitolare in vecchiaia, e verificarne il senso e la fedeltà nella Sequela scelta nella sua infanzia: perché entrò in seminario nel 1920, quando già da due anni era orfano del padre, maresciallo dei carabinieri in congedo. Lasciava, a Mandas, la madre Efisia, il fratello Maurino – che sarebbe diventato generale della Marina (il grado di ammiraglio per il personale imbarcato), le sorelle Ester e Maria.
Gli arrivi sì, ma quanto faticose (epperò giocose) le partenze!
Sette anni dopo era stato trasferito al nuovo seminario regionale di Cuglieri. Lì aveva frequentato il terzo anno del liceo filosofico e il quadriennio di teologia. Era un buono studente in quanto a profitto, effervescente di carattere. C’è una certa aneddotica che lo dà propenso agli scherzi che arrivano a scompigliare tutti quanti e l’équipe dei gesuiti al comando del seminario. Poi l’ordinazione sacerdotale, tre anni dopo il concordato clerico-fascista. Nel 1931, dunque prima della grande e solenne cerimonia della sua elevazione al presbiterato, c’era stata una grave crisi fra la Chiesa e il regime fascista a proposito dei limiti all’attività associativa dell’Azione Cattolica. Alla fine aveva sostanzialmente vinto il regime. La gerarchia aveva deciso di convivere con il fascismo, secondo me non dando buona dimostrazione di lucidità storica. (In quegli stessi mesi ed anni, i vescovi sardi pubblicarono una lettera pastorale collettiva in cui insistevano sulle maniche sotto il gomito e le gonne sotto il ginocchio, per i bambini si tollerava il ginocchio; e si sosteneva la necessità di scegliere nella edicola quella stampa invece di quell’altra… ignorando che i giornali liberi erano impediti dalla dittatura, e che le carceri erano già piene di oppositori. Ma il problema non entrava nelle loro considerazioni. Io sono sempre molto dubbioso sulla autorevolezza dell’episcopato che in una fastidiosa e ingiustificata autoreferenzialità mostra, secondo me spesso anche oggi, la inadeguatezza di analisi e proposta).
Aggiungerò che soltanto venti giorni dopo l’ordinazione in duomo, si sarebbe svolto a Cagliari il congresso nazionale della FUCI. E fu a Cagliari don Giovanni Battista Montini – il prossimo Paolo VI –, che in città era già stato nel 1928, sempre a motivo della Federazione Universitaria Cattolica.
Concludendo: il marianesimo praticato
Siamo alla fine. Intorno al 1990-91 la decadenza umiliante, per don Ezio Sini. Entra dentro di lui la malattia, egli avverte il progressivo incalzare di una penosa perdita della lucidità. Don Ottavio Cauli, collega capitolare e suo amico da sempre, ha scritto nella nota di lutto per due riviste della Chiesa sarda – ché il giornale “NuovOrientamenti” non ha pubblicato nemmeno una riga – questo: «Quando verso gli 83 anni cominciò ad accusare i primi sintomi del morbo di Alzheimer ne soffrì molto: ma si rimise con piena fiducia al Signore che molto gli aveva dato».
Avevo concluso qui la mia relazione, scritta per oggi all’inizio della settimana. Ho sentito però in questo testo, per giorni, un tanto di incompiutezza. E inutilmente però mi sono interrogato sulla ragione, e la dimensione, e soprattutto la natura di questa incompiutezza. Ho infine avuto una intuizione, che è grazia, ieri sera, quasi notte, dopo aver ritirato le prime copie del libro e aver rivisto, nella copertina anticata, il caro volto di don Ezio Sini: o diciamo adesso, al modo in cui i salvadoregni chiamano ancora, e invocano, il loro arcivescovo Oscar Arnulfo Romero martire delle squadre della morte fasciste: “monsignore”.
Tutti i membri della comunità di Sant’Eulalia degli anni fra il 1953 ed il 1971, ricorderanno l’“Ave Maria” portata da don Sini nel Pater-Ave-Gloria così tanto presente nella prassi orante della Chiesa degli anni del passato recente, ma direi con molti scampoli di tradizione ancora oggi: “Dio ti salvi, Maria!”, era il primo verso. “Dio ti salvi, Maria”, che veniva evidentemente da quel “Deus ti salvet, Maria” che era nel sentimento devozionale dei sardi. “Deus ti salvet, Maria”, “Dio ti salvi, Maria”. Si riaffacciava in questo l’antico missionario eusebiano, il predicatore delle missioni popolari che aveva iniziato a calcare i pulpiti, parlando per lo più in lingua sarda, dai 25 o 26 anni…
Ho riempito le prime pagine del libro dedicato alla esperienza di vita di don Sini, al suo marianesimo. E vorrei indugiare un minuto su questo punto, riprendendo due o tre passi flash della introduzione del testo, iniziando dai versi del poeta francese Charles Péguy che si convertì proprio in quel 1908 che è l’anno di nascita del nostro parroco:
«Quando avremo recitato la nostra ultima parte, / quando avremo deposto cappa e mantello, / quando avremo gettato maschera e coltello, / ricorda il nostro lungo peregrinare. / Quando ci caleranno nella fossa / e ci avranno offerto assoluzione e messa, / ricorda, o Regina di ogni promessa, / il nostro lungo peregrinare…».
Don Sini è tutto mariano, fin da bambino, per l’educazione familiare e parrocchiale ricevuta, per quel memento di calendario che lo porta a festeggiare il compleanno insieme con l’onomastico, che anzi ha come una precedenza d’onore sull’altro proprio per la relazione devozionale cui si riconnette: l’Immacolata Concezione.
Di più. Viene ordinato sacerdote, dall’arcivescovo oblato Ernesto Piovella – un presule mariano per stretta e singolare vocazione tanto da aggiungere il nome di Maria al proprio –, nella solennità dell’Assunta in quella primaziale in cui un’infinità di volte, negli anni del ginnasio, e cioè della sua prima adolescenza, è andato con i compagni del seminario minore, a servire ai pontificali del presule e alle altre solenni funzioni capitolari…
Ma la devozione tenera e sentimentale a Maria di Nazareth è da lui ovviamente intesa, sempre, nella più corretta delle accezioni teologiche: Maria è via a Cristo alfa e omega, a Cristo redentore unico e universale, a Cristo che è il modello e anzi la fonte non fungibile di senso d’ogni esistenza. Il centro della vita spirituale della comunità è e resta il Crocifisso che risorge, il dono massimo e perfetto del Cielo alla Terra. Di qui l’adorazione eucaristica come prassi della vita parrocchiale, a cui chiama il popolo tutto della sua giurisdizione canonica, ma anche quelle rappresentanze delle famiglie religiose che nel particolare comune o nel quartiere della città hanno le loro case conventuali…
L’eucarestia si pone dunque nell’area forte del sacerdozio di don Sini e il marianesimo ne è come la guida motivazionale – il perché – e insieme modale – il come. L’adorazione eucaristica – con la pratica mai disattesa delle Quarant’ore – e la benedizione eucaristica alle funzioni serali costituiscono un’occasione decisiva in cui l’interiore compromissione del celebrante si fa palpabile per tutti e tutti combina nella stessa preghiera.
E d’altra parte anche il rapporto cordialissimo con la Congregazione del SS. Sacramento nella Marina è pure esso segno della centralità riconosciuta al culto eucaristico, a quell’Ostia in cui risiede la signoria della Chiesa ed il crocevia delle mutue relazioni di chi ha scelto per sé la sequela.
E dunque, giustamente: Maria è via a Cristo alfa e omega, a Cristo redentore unico e universale, a Cristo che è il modello e anzi la fonte di senso d’ogni esistenza. Maria «primo ostensorio di lui», per dirla con don Tonino Bello: «portando Cristo nel grembo, è divenuta il primo ostensorio di lui, ha inaugurato le processioni del Corpus Domini, ed è andata a portare annunci di liberazione ai parenti lontani».
Per comprensione nostra, però, io direi che prima ancora, Maria è via alla conoscenza gesuana. Che è una dimensione – questa tutta umana – che dovrebbe essere riproposta pedagogicamente alla riflessione comunitaria, togliendola dallo sfondo dolciastro cui, confondendovi la teologia, indulgono tanti preti e pretini, i talarini cosiddetti lefevriani che pure covano anche nella archidiocesi antica di Cagliari. Io dico: la Maria del viaggio per Bethlem e del parto in periferia, la Maria dei pellegrinaggi per Gerusalemme e della ricerca affannata del figlio dodicenne perduto, la Maria di Cana e quella del Calvario, la Maria della Pentecoste al Cenacolo comunitario.
Lo dico, concludendo, ancora con le parole di don Tonino Bello: «No, non fu neutrale. Basta leggere il “Magnificat” per rendersi conto che Maria si è schierata... Ha deciso di giocare con la squadra che perde. Ha scelto di agitare come bandiera gli stracci dei miserabili e non di impugnare i lucidi gagliardetti dei dominatori. Si è arruolata nell’esercito dei poveri. Ma senza roteare le armi contro i ricchi. Bensì, invitandoli alla diserzione. E intonando, di fronte ai bivacchi notturni del suo accampamento, perché le udissero dall’alto, canzoni cariche di nostalgia. Ha esaltato, così, la misericordia di Dio. E ci ha rivelato che è partigiano anche Lui, visto che prende le difese degli umili e disperde i superbi nei pensieri del loro cuore».
Altro che femminuccia dolciastra e bambolina, occhi celesti, sorriso stampato e posa ingessata per la fotografia. No, donna gagliarda, lucida e della giusta misura, sapiente e modesta che non avrebbe, ancora oggi, alcun imbarazzo a frequentare i bestemmiatori: come quelli che ricordava, delle miniere toscane, padre Ernesto Balducci, o gli scaricatori di porto, anche del nostro porto della Marina, o i ragazzi della scuola e della discoteca, della via e dello stadio, che non conoscono ancora il vocabolario e la luce o la cupezza delle parole…
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