Sessant’anni fa il Concilio Vaticano II
di Gianfranco Murtas
Sessant’anni fa – era giovedì 11 ottobre 1962 – si apriva, nella Basilica romana di San Pietro, il Concilio Vaticano II. «Si apriva il Concilio», certo, e così s’esprimevano tutti quelli che, cominciando dagli uomini di curia e delle diocesi di tutto il mondo chiamati ad animarlo, a riempirlo di una umanità ispirata, o da quelli chiamati anche soltanto ad accompagnarlo, curandone i riverberi ecclesiali o sociali, riferivano l’episodio che sapeva di storia. Ma già pochi mesi dopo, fra giugno e luglio del 1963 – dopo la dolorosa morte di papa Giovanni XXIII che il Concilio aveva voluto e preparato e l’elezione al pontificato di papa Paolo VI che subito su di esso s’era pronunciato deliberandone la prosecuzione – si sarebbe detto: «s’apriva la prima sessione conciliare», ché altre tre ne sarebbero seguite, fino a tutto il 1965, tutte tese a dettagliare con il respiro della storia, lo sguardo proiettato nel nuovo che s’annunciava, la rivoluzione, la vera rivoluzione, con l’aggiornamento certo, ma anche con il rovesciamento, annunciato e poi sperimentato, di molte categorie (di giudizio e di valore).
Se il crollo del potere temporale dei papi fu, come avvertì lo storico tedesco Gregorovius, l’evento più importante del secolo XIX, certo può dirsi che il Concilio Ecumenico – che in quell’aggettivo portava molto e impensabile contenuto in supplemento alla cattolicità in cattedra, e dunque all’universalismo proprio della dottrina, all’universalismo della sede irradiante e all’universalismo della testimonianza di frontiera – sia stato, quanto meno per la Chiesa, e per quante società civili fossero allora a forte condizionamento religioso, o dillo ecclesiastico o anche e perfino clericale, l’evento più importante del secolo XX.
E a Cagliari… In quinta elementare alle scuole di Castello, sovrano chierichetto e porporato mignon con cotta bianca nella parrocchiale della Marina, nella casa – nuova casa con giardino e un albero di fico – a Villanova, chi saliva per sa Butanica ogni giorno alla volta del bastione per le lezioni di maestro Aldo, o passava le ore serali nei sacri cortili del gioco ed alle funzioni di Sant’Eulalia, del Concilio sentiva parlare e del Concilio s’interessava leggendo ogni giorno le prime pagine de L’Unione Sarda… E combinando nella sua mente ricettiva e associativa di bambino diligente quanto di virtuoso c’era già in quella scenografica assemblea di presuli un milione di volte fotografata e filmata e, nelle cose politiche della capitale, quanto di pure positivo e di giusto c’era, o doveva esserci, in un centro-sinistra agli albori, nell’incontro cioè del massivo mondo plasmato dal prudente sentimento cattolico con il complesso sistema delle classi proletarie rappresentate da un socialismo che gustava ancora il sapore degli ideali. Aggiungendovi magari, perché il rimbalzo nei notiziari già c’era, la fascinazione per quel Piano di Rinascita che avrebbe dovuto ammodernare, con il concorso plenario, la Sardegna tutta, integrare la Sardegna nell’Italia più avanzata lasciandone però intatti gli orgogli della storia… Un certo ecumenismo anche nella politica nazionale e regionale, dunque, un ecumenismo fatto di cultura e volontà, di ricerca – direi di ricerca l’uno dell’altro – nel campo vasto della religione e delle confessioni.
Cagliari, la mia Cagliari di allora, era la Cagliari di monsignor Paolo Botto, riconosciuto (fin dall’autunno 1959) Assistente al soglio e dunque fra i più prossimi al pontefice nelle sue solenni liturgie cadenzate dagli antichi riti. C’era in quella promozione – ma lo avrei capito più tardi – quasi un farsi parente, un essersi voluto far parente, da parte di Giovanni XXIII, del successore di quel monsignore e padre oblato Ernesto Maria Piovella che proprio a Cagliari lo aveva accolto e ospitato alla fine di un certo lontano ottobre, quando per cinque giorni – dopo i saluti oristanesi al can. Giuseppe Littarru già compagno di studi e prima del conclusivo balzo a Sassari – nel capoluogo era rimasto attraversandolo tutto a piedi e fissandolo per sempre nella sua memoria. La memoria del bastione e del santuario di Bonaria, la memoria della cripta-santuario dei Martiri con i giovani del San Saturnino, nel 300° della invenzione delle spoglie del giovane testimone della fede (1621-1921) – quella volta a commentare la prima lettera di San Giovanni evangelista -, e del pulpito da cui aveva predicato nel pontificale domenicale celebrato dall’arcivescovo con l’assistenza di dieci canonici con tanto di solenne mitra in capo (e magari – a bilanciare – le calze sì violette ma bucate per povertà sostanziale ai piedi).
Era il monsignor Botto delle grandi adunate per l’Immacolata, nella piazza del Carmine, o delle maestose processioni per il Corpus Domini. Era il monsignor Botto onnipresente in ogni parrocchia ai raduni delle cresime, alle feste patronali d’ogni rione (e paese), alle cerimonie pasquali e del 2 novembre, alle premiazioni dei concorsi catechistici… paternalista ed autoritario, intimamente buono e canonicamente severo per obbligo d’istituzione. Era il monsignor Botto delle fondazioni di nuove parrocchie, nel ridisegno urbanistico della città, dopo il disastro bellico, il monsignor Botto della inaugurazione del nuovo seminario sul colle di San Michele e della mobilitazione generale che aveva suscitato in vista di quell’obiettivo assoluto…
Sono flash di una memoria ripassata, sessant’anni dopo, per trovare un filo rosso nel racconto che porti oggi a quella giornata di apertura del Concilio, o della prima sessione del Concilio. Il Concilio era cosa da grandi, evidentemente, ma pure i bambini che ogni domenica si sentivano (ora timidi ora sussiegosi) un po’ preti anch’essi, e alla novena di Natale o alle funzioni della Settimana Santa ancor più coloravano il loro innocente scenico (“scenoso” diremmo a Cagliari) narcisismo, e si schieravano marzialmente nelle processioni di zona – e quante ce n’erano allora! – o in quella magna e ricapitolativa appunto del Corpus Domini, ne avvertivano la suggestione per quanto sentivano o di cui qualcosa, o molto da insaziabili, leggevano per il gusto di poter poi interloquire con competenza.
Non sono mancati i lavori narrativi o descrittivi di quel che fu e rappresentò per la città capoluogo e la diocesi, e le diocesi dell’Isola tutta, l’evento Concilio. Modestamente anche io, ora sono passati già vent’anni, ho cercato di dare il mio contributo di studio ed elaborazione, valendomi (od onorandomi) anche della copertura (ermeneutica e documentaria) offertami allora dall’indimenticato card. Loris F. Capovilla e dall’amico don Tonino Cabizzosu. E meriterebbe certo di essere nuovamente visitata, magari da altre più giovani energie, quella ricaduta del grande nel piccolo, e già anzi quell’accompagnamento – cui per qualche verso accennavo – che, come binari paralleli, la Chiesa particolare, di territorio cioè, e quella universale si donavano scambievolmente, agendo direi biunivocamente, da quell’11 ottobre di sessant’anni fa e per un quadriennio intero.
Erano undici le diocesi isolane nel 1962, ed ognuna fu presente in San Pietro con il proprio ordinario: Cagliari con Paolo Botto, Sassari con Paolo Carta, Oristano con Sebastiano Fraghì, Iglesias con Giovanni Pirastru – il decano dell’episcopato sardo e forse anche il più avanzato e insieme problematico –, Lanusei con Lorenzo Basoli, Nuoro con Giuseppe Melas, Ales-Terralba con Antonio Tedde, Bosa con Francesco Spanedda, Alghero con Adolfo Ciuchini padre mercedario, Ozieri con Francesco Cogoni, Ampurias-Tempio con Mario Ghiga (malato e presto condotto a morte purtroppo).
Diversi altri vescovi, sardi o fatti sardi, si sarebbero aggiunti nel quadriennio, o residenziali – come Giovanni Melis Fois, subentrato a Ghiga – o d’ufficio in qualche parte nel mondo: penso ad Angelo Palmas nunzio apostolico in Vietnam eletto vescovo nel 1964, penso a Pietro Maleddu minore conventuale e prefetto apostolico (missionario) “impedito”, ma penso anche ad Antonio Angioni al tempo ausiliare di Pisa, penso ad Enea Selis ausiliare di Iglesias dal 1964, penso a Carlo Re prete della Consolata ed emerito di Ampurias Tempio.
Bisognerebbe anche aggiungere che diversi della pattuglia episcopale sarda furono incaricati della partecipazione a questa o quella commissione preparatoria o assembleare: in particolare alla commissione “Seminari e studi” ecco proprio Paolo Botto ed Agostino Saba (quest’ultimo ancora a Nicotera e Tropea ma alla vigilia della assegnazione a Sassari, seppure soltanto per pochi mesi data la prematura morte sopravvenuta nel gennaio 1962), ancora Botto alla commissione “Religiosi”, e Spanedda a quella “Fede e morale”.
Erano, i nostri, vescovi tutti datati, forse. Questo è stato rilevato da molti, da studiosi professionali o no, ecc. ma classificabili secondo le stesse categorie dei censimenti che hanno guardato all’episcopato italiano nel suo complesso. Vescovi di formazione pacelliana, attratti sì dall’idea del Concilio riformatore – anzi del Concilio che s’ “aggiorna”, secondo l’espressione di papa Roncalli – ma di un riformismo minimale, di raggio ancora resistentemente clericale e canonico, giuridico quindi, ecclesiale al massimo per qualche proiezione nella liturgia e nella puntualizzazione dottrinale, non tanto pastorale nella sua dimensione più larga includente la grazia ecumenica. I “consilia et vota”, le risposte cioè al questionario ricevuto dalla curia romana nel 1959 circa le questioni di maggior interesse e ritenute bisognose di ripensamenti, furono allora la dimostrazione di questo limite. Perché, al dunque, finalmente al dunque! il riconoscimento di fraternità rilasciato agli ebrei da secoli e secoli condannati per deicidio, o l’uscita dal “romanocentrismo” per affermare il “cristocentrismo” in chiave ecumenica, sarebbero valsi infinitamente di più della rettifica d’un qualsiasi rapporto gerarchico fra un vescovo diocesano e il suo capitolo cattedrale, l’uso del clergyman o le dispense matrimoniali…
Tornarono cambiati i nostri vescovi, già dopo la prima sessione, tutta giovannea, del Concilio, e ancor di più lo sarebbero stati nel 1965, dopo quella libera e ricreante immersione nel “paolismo” di papa Montini: del papa che intanto era stato in Terra santa, in India, alle Nazioni Unite, del papa che aveva abbracciato il patriarca Athenagora, del papa che aveva deposto il triregno, del papa della Ecclesiam Suam e che stava per pubblicare la sua Populorum Progressio ed abbracciare nuovamente Athenagora…
Un editoriale di monsignor Giuseppe Lepori
Fabio Maria Crivelli, direttore de L’Unione Sarda ormai da nove anni ed uscito vincitore da tante dispute che aveva dovuto combattere con lo stesso arcivescovo (sostenitore di una “buona stampa” tale – buona cioè – per patente e commenda autoreferenziale) e con don Giuseppe Lepori direttore del concorrente Il Quotidiano sardo, ebbe un’idea – lui laico e liberale – per l’apertura del giornale che avrebbe dovuto riferire dell’inaugurazione dei lavori conciliari: di incaricare proprio don Lepori, ormai saldo e autorevole parroco di San Lucifero, di scrivere l’editoriale. E don Lepori provvide, con elegante forma e santa dottrina, neppure forzando, come invece gli era abituale al tempo della direzione de Il Quotidiano, in termini di residuo insistente clericalismo a proposito dei bersaglieri di Porta Pia, supposta causa della sospensione dei lavori del Concilio piino, il Vaticano I, nel 1870.
Titolo dell’articolo: “Impegno storico”. Eccone il testo integrale:
Dopo venti secoli di cristianesimo, dinanzi alla Basilica di S. Pietro, trasformata nella navata centrale in aula conciliare per le grandiose “gradonate”, con i seggi disposti in due ordini di fronte all’Altare del Concilio Vaticano II, la immaginazione è corsa già, nella immediata vigilia, allo storico singolare ingresso del Papa nella Basilica, attraverso la porta di Paolo V: i cui battenti di bronzo panneggiati di rosso si rinchiuderanno al termine del corteo che accompagna Giovanni XXIII attraverso il corridoio delle due file di tribune, sulle quali siederanno i Padri del Concilio.
Il pensiero corre indietro nella cronologia conciliare: venti Concilii, in venti secoli di storia.
Dal Concilio Niceno I del 325 al Concilio Costantinopolitano IV dell’870 si chiude la prima serie degli otto grandi Concilii della antichità. Nel mondo orientale sorsero quelle grandi assemblee, che si svolsero nella “terra della filosofia, divenuta terra della teologia”, allo scopo di comporre le discussioni dogmatiche col fissare i termini delle più chiare definizioni del dogma cristiano, di fronte alle insorte polemiche trinitarie e cristologiche.
Fra le più lunghe interruzioni dell’attività conciliare della Chiesa, appare, nella storia, il periodo che trascorre fra il Concilio di Trento convocato da Paolo III nel 1545 e concluso da Pio IV nel 1563 (costituito, come è ben noto, per rispondere agli errori del protestantesimo e provvedere alla vera riforma della Chiesa) ed il Concilio Vaticano I convocato da Pio IX e da Lui inaugurato l’8 dicembre 1869; sospeso poi dallo stesso Pontefice in seguito agli eventi politici il 20 dicembre [recte: ottobre] 1870.
Quest’ultimo Concilio, anche ultimo nella serie dei Concilii della storia della Chiesa, si costituisce nel quadro storico dell’800, in un terreno vivamente contrastato; non solo per l’insorgere degli errori ed il progredire del materialismo e del razionalismo in genere, ma anche per le opposizioni che venivano dalle gravi difficoltà in cui si dibattevano lo Stato Pontificio e l’Europa intera.
Quando Pio IX con la “Aeterni Patris” indisse il Concilio Vaticano I, che doveva aprirsi l’8 dicembre 1869, passò nel mondo politico ed incredulo, un profondo turbamento all’annunzio dato da un Vaticano disarmato. Tutti i mezzi di protesta e di propaganda furono messi in opera per impedire che a Roma si riunisse la grande assemblea dei Vescovi del mondo. Gallicanesimo e liberalismo, cercando di influire sulla diplomazia internazionale, tentavano di impedire quel che appariva la riscossa di un Re sconfitto, che volesse ricorrere alle armi spirituali.
Tuttavia con grande fervore, sotto l’impulso del Papa, furono compiuti i grandi lavori sulle questioni preliminari e quelle sostanziali di ordine dottrinale e disciplinare, da sottoporre a discussione.
I Fratelli dissidenti dell’Oriente e Sette protestanti risponderanno all’invito del Papa con insolenza.
Si riunirono tuttavia da tutte le parti del mondo, dall’Asia, dall’Africa, dall’Australia, dalle Americhe e da gran parte delle Nazioni Europee i Vescovi in numero di 700. Celeberrimo il “Vaticano I per la condanna degli errori del materialismo, del razionalismo, ed ancora più celebre per la sessione quarta del 18 luglio 1870: che fu praticamente l’ultima e definitiva, per aver definito, col primato apostolico del Romano Pontefice, come Capo visibile della Chiesa, Vicario di Cristo e successore di S. Pietro, l’infallibilità del Suo Magistero: quando cioè parla “ex cathedra”, quando nella Sua qualità di Pastore e Maestro di tutti i cristiani definisce, con la suprema sua autorità apostolica, una dottrina di fede e di morale da tenersi da tutta la Chiesa. La prova che questo dogma deriva dalla Sacra Scrittura, dalla tradizione e dalla storia fu in quel Concilio proposta al più rigido esame ed alla discussione di tutte le emergenti difficoltà. Restò chiarito così l’equivoco tra infallibilità e impeccabilità e quindi non fu negata la possibilità che un Papa, come persona umana, possa anche sbagliarsi, perché ciò nulla ha a che fare con l’infallibilità del Maestro Supremo: che come tale per il suo ufficio, in virtù della promessa assistenza di Cristo, non può sancire l’errore.
Non si può negare storicamente il beneficio apportato da quel Concilio sia per il colpo mortale inferto al morente gallicanismo e così anche all’estendersi della corrente materialista dell’800.
Fu per il mondo un gran faro di luce. La stagione troppo calda e la guerra Franco-Prussiana costrinse gran parte dei Vescovi a ripartire. La presa di Roma rese ancora più difficile il prolungarsi del Concilio. In quel momento storico così drammatico, che Pio IX definì «luttuosa circostanza», il 20 ottobre 1870 sospendeva «la celebrazione del Concilio Vaticano fino ad altro tempo più opportuno e più comodo da dichiararsi da questa Santa Sede».
Il Concilio Vaticano II potrà per questi avvenimenti apparire a qualche storico affezionato al Vaticano I una prosecuzione o una riapertura di Concilio. L’impegno conciliare della Chiesa non cammina sul filo della nostalgia, ma si attua per l’applicabilità del deposito della dottrina rivelata e per la bimillenaria esperienza alle esigenze della cristianità nel mondo storico che provvidenzialmente accompagna.
Fu infatti Papa Giovanni XXIII che una diecina di giorni dopo l’annunzio del grande segreto, contenuto in un comunicato breve di una ventina di righe scritte a macchina, disse che l’annunziato Concilio si sarebbe chiamato «Lateranense o Vaticano» e abbisognerà di due anni di preparazione. Il Vaticano II per la stessa dichiarazione del S. Padre, se rientra in una continuità storica dell’impegno conciliare della Chiesa, non serve a riaprire il Vaticano I, ma costituisce una assemblea dell’Episcopato decisamente nuova.
Esistono tuttavia possibili analogie soprattutto perché non sono mancate, nel periodo preparatorio, voci stonate, tendenti a sconfortarne la fiduciosa attesa. I Vescovi hanno dovuto più spesso mettere in guardia i fedeli, quando in qualche regione sono apparsi atteggiamenti di pessimismo e disillusione.
Nella processione propiziatoria da S. Maria Maggiore a S. Giovanni, voluta dal S. Padre la scorsa domenica, fra diecine di migliaia di fedeli, prendendo la parola Giovanni XXIII, per rincuorare tutti i figli, ha manifestato la Sua serena fiducia. Parlando del Concilio, ha rilevato di aver ricevuto qualche tempo fa, fra le tante, una lettera nella quale si esprimevano dei dubbi e delle incertezze circa la buona riuscita del Concilio stesso. Nella lettera, però, il S. Padre ha affermato, si poteva trovare la risposta a questi dubbi, in quanto chi scriveva ricordava che comunque alla fine lo Spirito Santo assiste i Padri mentre assolvono il loro altissimo compito. Dal canto suo il S. Padre ha affermato che non ha mai preoccupazioni per quanto avverrà, ma segue serenamente la volontà di Dio.
Il Concilio Vaticano II si costituisce con la partecipazione dei Vescovi in numero più che sufficiente per rappresentare la Chiesa Universale.
Quale debba essere il numero dei partecipanti non è stato definito: è certo che il diritto non richiede che siano presenti tutti i Vescovi del mondo, perché praticamente impossibile; né quindi è necessaria la maggioranza assoluta, perché potrebbe per ipotesi non rappresentare la parte più savia della Chiesa. E' condizione invece necessaria che i Vescovi siano uniti col successore di S. Pietro per rappresentare la Chiesa.
Tuttavia anche il futuro Concilio ha la sua aritmetica. Anzitutto le risposte dei Vescovi sono contenute nelle schede che raccolgono 8.972 proposte. Sono state interpellate 2.812 personalità, ed hanno risposto 2.150. Da Nazione a Nazione variano le percentuali delle risposte: i Vescovi del Congo hanno risposto per il 95 per cento, gli Austriaci per il 94,1, gli Irlandesi per il 93,7, gli Spagnoli per il 93,2, gli Italiani per il 96,3, i Francesi per 1'84,6, i Polacchi per 1'83,3, ecc. La percentuale complessiva è rappresentata dall'86,4 per cento. Nei paesi del "silenzio" molti non hanno ricevuto la circolare del Vaticano e, a sua volta, il Vaticano non ha ricevuto la risposta.
L'enorme mole di lavoro raccolto in 14 volumi di oltre 9.000 pagine, umanamente non poteva lasciar credere ad una convocazione così immediata del Vaticano II. Fino al Natale del 1961 nessuno poteva pensare che il Concilio potesse essere tenuto così presto; ma fu proprio in quel Natale piovoso che Giovanni XXIII, senza precisarne il mese, annunciò la data con l’anno 1962.
Se non è possibile, solo dando uno sguardo all'ampia navata centrale di S. Pietro affollata di migliaia di Vescovi, stabilire i fecondi risultati del più straordinario Concilio generale della storia della Chiesa, è dato di cogliere dalle stesse labbra del Pontefice il magnifico auspicio del suo ultimo messaggio al mondo cristiano, dell'11 settembre 1962: «la storia insegna che ad ogni Concilio succedono ere di straordinaria fecondità spirituale in cui il soffio dello Spirito Santo suscita vocazioni generose ed eroiche e dà alla Chiesa gli uomini necessari e adatti».
E’ di grande interesse ed auspicio favorevole per la fiducia nel Concilio, che va estendendosi a tutto il mondo, il vastissimo orizzonte dottrinale, disciplinare e pastorale nella mole di lavoro compiuto. «Mai nella storia, ha dichiarato il cardinale Urbani Patriarca di Venezia, un Concilio è stato preparato con tanta vastità di inchiesta, con tanta severità di cernita, con tanta libertà di pensiero».
C'è nel Concilio una effusione di Carità verso i fratelli separati; che viene da tutto un movimento di pensiero che irradia dalle Pastorali dei Vescovi di questi ultimi tempi; e nei recenti documenti, da tutte le parti del mondo, affiora con frequenza lo stimolo ad allargare gli orizzonti apostolici ed educare la sensibilità al passo con la Chiesa, per comprendere il Concilio nel suo ideale e nella sua dimensione di universalità.
«La Chiesa, ha scritto il Cardinale Montini, cercherà di farsi sorella e madre degli uomini, cercherà di essere povera, semplice, umile ed amabile nel suo linguaggio e nel suo costume. Per questo cercherà di farsi comprendere e di dare agli uomini di ogni [cultura] facoltà di ascoltarla e di parlarle con facile ed usato linguaggio. Per questo ripeterà al mondo le sue sapienti parole di dignità umana, di lealtà, di libertà, di amore, di serietà morale, di coraggio e di sacrificio. Per questo vedrà di aggiornarsi, spogliandosi, se occorre, di qualche vecchio mantello regale rimasto sulle sue spalle sovrane, per rivestirsi di più semplici forme reclamate dal gusto moderno».
«Ego Joannes Catholicae Ecclesiae Episcopus»
Ho avuto modo, come prima ho accennato, di leggere molto e molto documentarmi sulla presenza sarda nell’aula basilicale già da quell’11 ottobre 1962. In Papa Roncalli e la Sardegna. Corrispondenze Incontri Amicizie (Cagliari, Edizioni della Torre, 2002) – un titolo nel quale volle metter mano, con sapienza, il card. Capovilla – ho riferito di interventi e segnalato bibliografie. Dal molto stralcio qui appena qualche pagina.
«Venerabili Fratelli, oggi la Santa Madre Chiesa gioisce, perché per singola-re dono della Provvidenza Divina, è sorto il giorno tanto desiderato in cui il Concilio Ecumenico Vaticano II qui solennemente inizia, presso il sepolcro di San Pietro, con la protezione della Vergine Santissima, di cui oggi si celebra la dignità della Sua Maternità Divina...». E passato un quarto d'ora dal mezzogiorno di giovedì 11 ottobre 1962. Giovanni XXIII – il «parroco del mondo che chiude e apre le porte del cielo», secondo il suggestivo titolo dato da Libertà alla cronaca o cronistoria dell'evento conciliare – parla a quasi tremila Padri, a molte centinaia di officiali di curia, prelati, periti ed esperti vari, a millecinquecento fra autorità ed invitati (compresi numerosi osservatori di altre confessioni religiose), a 400 giornalisti, a 2.500 fedeli sistemati nell'abside. Così presenta finalmente il Concilio.
La stampa regionale, non meno delle grandi testate nazionali, segue con attenzione lo svolgimento dei lavori, naturalmente valorizzando le occasioni delle sedute pubbliche, dato che per il resto il dibattito interno rimane protetto dalla discrezione e anzi dalla segretezza.
I titoli dell'Unione Sarda sono, per alcuni giorni, a caratteri di scatola, su nove colonne: "Si apre solennemente il Concilio", "Aperto il Concilio ecumenico con la solenne parola del Papa" (mentre al testo dell'allocuzione pontificia si dà il titolo "Unità degli spiriti nella pace", ricavando da esso una frase per il sommario: «Al giorno d'oggi la Chiesa preferisce far l'uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità»), e poi, via via: "Il Papa parla ai rappresentanti di ottantacinque paesi: Il Concilio contribuirà ad allontanare la guerra", "Durante l'udienza di ieri nella sala del Concistoro. In ginocchio davanti al Pontefice i rappresentanti delle Chiese separate"...
Non è diverso, già dalla vigilia, per La Nuova Sardegna: "Ottantacinque missioni straniere presenti domani alla inaugurazione del Concilio Ecumenico" (ed il sommario: "Fanfani guiderà la missione italiana — 2.292 scanni riservati ai Padri – La spesa complessiva per l'apprestamento dell'aula sarebbe di circa settecento milioni – I servizi radiofonici e televisivi per l'avvenimento – Anche per Stati Uniti e Canada previsti collegamenti via Telstar"), "Si inaugura oggi nella Basilica Vaticana la più grande assise della storia della Chiesa", "Discorso del papa alle missioni estere al Concilio — Tutti i capi di Stato ascoltino il grido di pace che si leva dai popoli", "Il Papa auspica la riunione delle Chiese cristiane in un discorso agli osservatori-delegati al Concilio", ecc.
Sull'Informatore di lunedì del 15 ottobre un ampio articolo dal titolo "Si riuniscono i vescovi italiani per appianare le prime divergenze" fa capire che non si tratterà di un Concilio in cui ci si limiterà a ratificare decisioni già prese da un ristretto consesso magari di alti o bassi curiali. Il rigetto della lista ufficiale dei 160 membri delle dieci commissioni concistoriali che dovranno, in qualche modo, condurre i lavori anticipa fin dai primi giorni l'autonomia che l'episcopato mondiale esige e reclama dai vertici della curia romana... Ogni gruppo nazionale ha il suo quartier generale in un collegio od istituto di istruzione accademica della capitale, cui fanno normale riferimento i giovani studenti inviati dai rispettivi vescovi per completare la formazione teologica o canonica. Ogni episcopato ha i suoi emissari, e sono questi a tessere le alleanze – in prima battuta nell'ambito dei "circuiti linguistici" –, intanto per presentare liste comuni sulle quali cercare un più largo consenso...
I messaggi di monsignor Botto
Da Roma, l'arcivescovo di Cagliari indirizza ben tre lettere ai suoi diocesani, ma diversamente da altri, non tratta del Concilio se non incidentalmente: la sua attenzione è e resta alle cose diocesane.
Il 15 ottobre, così egli scrive al clero: «Miei cari Sacerdoti, desidero essere, in qualche modo, presente con voi nella bella Chiesa di S. Eulalia per il Ritiro Mensile. È il primo incontro di questo nuovo anno di attività che è anche l'anno del Concilio.
«Cari Confratelli, in questa ora straordinaria, il Signore con più calda insistenza ci richiama l'impegno di rendere sempre più fulgida la grazia del Sacerdozio che abbiamo ricevuto nella Sacra Ordinazione. Dobbiamo rispondere con pronta generosità, se vogliamo che secondo le espressioni del Santo Padre, quale frutto del Concilio, il volto della Chiesa abbia ad apparire al mondo in tutto il suo splendore e possa fiorire per le anime una rinnovata primavera.
«Al lavoro dunque tutti con umiltà e fiducia: ci chiama e ci aiuta Gesù Sommo ed Eterno Sacerdote, ci assiste e protegge con cuore di Madre la Vergine Santa. Continuate a pregare per il Papa, per il Concilio, per l'Arcivescovo; e fate pregare i nostri buoni fedeli. Tutti ricordo: Sacerdoti, Religiosi, fedeli con paterno affetto tutti benedico».
A Roma, intanto si procede con la formazione delle dieci commissioni di lavoro. A comporle sono chiamati 160 presuli in tutto, di cui venti italiani. Uno di loro è l'arcivescovo di Cagliari che - eletto nella congregazione generale del 16 ottobre - entra a far parte della commissione per i Religiosi (presieduta dal cardinale Valeri, prefetto della competente congregazione della curia). In diocesi, dove si ricorda il tredicesimo anniversario della presa di possesso, da parte di monsignor Botto, della cattedra episcopale che fu del sempre compianto monsignor Piovella, l'evento è salutato con particolare soddisfazione.
Ancora da Roma il 27 ottobre l'arcivescovo scrive, didascalico ed esortativo come sempre, alla «grande e carissima Famiglia dell'Azione Cattolica, in occasione dell'annuale assemblea diocesana che si svolge nel nuovo teatro dei gesuiti in via Ospedale, presenti ben 650 delegati: «Sia la vostra vita chiara ed alta testimonianza di carità cristiana. Carità è preghiera: siate cristiani che pregano e molto; carità è dono: rispondete all'invito della Chiesa donando quanto a voi è possibile di attività, di tempo, di intelligenza e di cuore; carità è sacrificio: ogni difficoltà ricorda la Croce, chi ama non la rifiuta, ma per il trionfo della verità e della giustizia va ad essa incontro e la abbraccia. E abbiate fiducia! La causa dell'Amore è la causa di Dio e non ha la sua conclusione sul Calvario!... Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera».
Una terza volta egli farà nuovamente sentire la sua presenza sempre vigile, impegnando la diocesi su quattro «impegni pastorali», come egli stesso li chiama, che ha iscritto nel calendario di dicembre: la preparazione all'Avvento (tempo liturgico che «trova quest'anno i Vescovi di tutto il mondo radunati in Concilio con il Papa per riaffermare la rigogliosa vitalità della Chiesa»), la "giornata dell'emigrazione" - fissata per il 2 dicembre -, la speciale solidarietà ai poveri ed agli ammalati soprattutto nella vicinanza del Natale, il sostegno al giornale Orientamenti.
Le cronache di don Alberti, le lettere di monsignor Melas
Sono oltre una decina gli articoli o i saggi brevi o le cronache che don Ottorino Pietro Alberti, giovane prete di 35 anni appartenente al clero nuorese, già lanciato verso incarichi ecclesiali di prestigio non soltanto in diocesi, pubblica, lungo l'intero 1962, sull'Ortobene.
Egli prende per mano i suoi lettori, anche quelli meno acculturati, e li porta dentro l'evento conciliare: li fa viaggiare lungo i secoli della storia, in compagnia magari dei vescovi sardi, anche nuoresi, che hanno partecipato alle assise dei tempi remoti, spiega loro ragioni storiche, giuridiche e dottrinali delle convocazioni ed i meccanismi a presidio dei lavori d'assemblea.
Sua è la lunga cronaca dell'apertura conciliare: «11 ottobre 1962. L'unico sole di Roma — avvolta ancora nelle brume di una notte di tempesta — è stato per Piazza san Pietro... Ognuno sentiva che stava per diventare testimonio del più grande fatto della storia millenaria della Chiesa...».
Si procede secondo tabella. Ed è «durante una sosta dei lavori», il 1° novembre, giorno in cui la liturgia onora la comunione del Paradiso, che monsignor Giuseppe Melas (è il vescovo di Nuoro che ha ordinato presbitero don Alberti un certo giorno del marzo 1956) indirizza una lettera al suo clero ed ai diocesani tutti, intanto per ringraziarli delle dimostrazioni d'affetto tributategli in occasione della sua partenza per Roma.
«Naturalmente non vi parlerò — precisa subito — dei discorsi che vengono tenuti in questa solenne Assemblea perché nessuno può parlarne, almeno per ora; a questo riguardo bisogna contentarsi di quel poco che, in maniera molto sommaria e generica, viene riportato nella stampa, e che è nulla in confronto alla realtà di ciò che viene detto e discusso dai molti Padri Conciliari che parlano nelle varie adunanze che si chiamano Congregazioni Generali», ma piuttosto avverte di voler rendere l'immagine della umanità reale che, assolutamente varia per estrazione e formazione, convive in fraternità di spirito apostolico sotto le volte della basilica capitale del mondo cristiano.
Accanto a lui, spiega, siedono vescovi di provenienza uno statunitense, uno indiano, uno francese, uno congolese... E l'universalità dei tratti fisionomici, delle lingue parlate, delle esperienze che rendono ciascuno assolutamente originale nell'essere e nel porgersi.
Monsignor Carta, catechista dall'Aula conciliare
Al pari del suo confratello nuorese, e anzi ancor più continuativo ed insistente di lui, anche l'arcivescovo di Sassari si prende da subito – secondo la promessa formulata alla partenza – la buona abitudine di indirizzare ai propri diocesani una lettera settimanale, così..., tanto per mantenere affettuosi e sempre fruttuosi i rapporti.
Sono ben sette i messaggi che, fra ottobre e novembre, egli mette in viaggio dall'aula conciliare. Vuole partecipare le proprie emozioni, ma intende anche riferire, per quanto possibile, sull'andamento dei lavori in San Pietro sugli argomenti che vengono via via affrontati dall'assise episcopale: prima la liturgia, che può diventare spazio di felice incontro con i «Fratelli separati» – egli insiste molto su tale locuzione, che gli pare avanzata nella direzione della carità con chi si è "allontanato" dalla sede petrina –, poi le fonti della Rivelazione, e così via.
Sette lettere che si affacciano, come editoriali di prima pagina ("L'Arcivescovo dal Concilio"), sul diocesano Libertà dal 19 ottobre al 30 novembre. Il tono è, anche qui, confidenziale, colloquiale, e rivelatore insieme di una certa cultura teologica ed ecclesiale, nonché di una sensibilità dal tratto marcatamente paternalistico, di cui monsignor Carta è, né più né meno dei confratelli al vertice delle altre diocesi isolane (e non solo), degno portatore e rappresentante.
La cultura teologica datata è, ad esempio, in quella accesa o drammatica preoccupazione che i bimbi non battezzati finiscano nel limbo, dove è la «felicità naturale» ma non quella «soprannaturale» esprimentesi nella «visione beatifica di Dio in Paradiso»; o nelle urgenze assegnate anche alla cresima, da amministrarsi nelle fasce basse dell'età anagrafica, ancorché ciò contrasti con la natura stessa del sacramento «che impegna all'apostolato», e dunque allude alla maturità cristiana (e perciò, preliminarmente, umana) del candidato...; o ancora nelle puntualizzazioni sul momento della Messa in cui questa possa ancora considerarsi «valida» ai fini dell'adempimento precettistico...
Il senso della Chiesa cattolica madre e maestra, ma in stile pacelliano e tradizionale, e dunque... appunto preconciliare, emerge chiaramente nella identificazione di questa come luogo, o depositum, della verità assoluta e immodificabile e si manifesta anche in quell'insistere continuo sull'attesa del «ritorno» dei «Fratelli separati» alla grande comunione romana («l'ansia più ardente del Cuore di Gesù.): ciò che, è evidente, stride con una pur assunta tensione ecumenica nel segno del rispetto per ogni confessione, per l'onesto criterio della ricerca di verità delle altre Chiese...
L'affiato paternalistico, eminentemente nei confronti dei propri diocesani, è nelle sottolineature della diocesi come famiglia e già nei vocativi dell'incipit: «Miei cari figliuoli», «Figliuoli carissimi», oltre che in tutto il vocabolario — tipico dell'arcivescovo, generoso ed espansivo, nonostante la naturale timidezza — in cui abbondano senz'altro i condizionamenti mielosi di matrice devozionale e seminaristica...
Non manca, monsignor Carta, di trarre spunto dalle discussioni fra i Padri conciliari per offrire motivi e materiali di effettiva catechesi ai suoi diocesani che sa essere, in parte non marginale, in mortificante ritardo di conoscenza della dottrina e financo dei valori di base della sequela cristiana (come emerge, fra l'altro, quando ci si propone come padrini...). Tratta così, ad esempio, della natura del sacramento della estrema unzione che ora si vorrebbe, e giustamente, denominare «unzione degli infermi».
Ma, al di là di tali aspetti che entrano nella corrispondenza "giornalistica" dell'arcivescovo turritano, merita qui cogliere anche la sua entusiastica, e si direbbe pura ed innocente adesione allo spirito aleggiante sul Concilio, ad iniziare dalle liturgie che aprono le sedute nella basilica: la intronizzazione del Vangelo, la celebrazione della messa del Paraclito officiata a turno da vescovi dei diversi continenti... Egli coglie il passaggio, nell'altare, da «Gesù Vita» a – scrive – «Gesù Verità» e ripensa alla donazione, da lui stesso fatta in diocesi, di centinaia o forse migliaia di "vangelini" alle famiglie e a chiunque gli sia capitato di incontrare. E, all'interno della santa magia ecumenica («la bellezza e l'incanto mistico di quella visione di paradiso»), ecco quanto, o chi, lo ha maggiormente colpito: «il Santo Padre».
Scrive nella prima delle sue lettere, datata proprio 11 ottobre (e pubblicata il 19 successivo): «Come era commosso quando è passato davanti a noi Vescovi di tutto il mondo, da Lui convocati a così grandiosa adunanza. È lui che, ispirato dal Signore, ha avuto la idea del Concilio! È lui che lo ha tenacemente voluto, amorosamente preparato, splendidamente inaugurato! E tutto ha fatto con una semplicità e spontaneità, con un senso di fiducia, di serenità, da sbalordire il mondo».
E poi: «Avete cercato di leggere l'allocuzione che ha tenuto? Che discorso stupendo! La storia lo registrerà fra le parole più alte e solenni che abbiano mai risuonato sulla faccia della terra ed echeggiato da un capo all'altro del mondo. Quella era veramente la voce maestosa del Vicario di Cristo, Maestro di tutte le genti. Ma la pienezza dell'amore paterno è traboccata poi dal cuore del Santo Padre alla sera, quando ha parlato con semplicità familiare alla folla che gremiva la Piazza San Pietro per la fiaccolata. Allora si sentiva che non era soltanto Papa Giovanni che parlava ai fedeli, ma soprattutto "Papà Giovanni" che parlava ai suoi figli. E da buon papà ha esortato tutti a volerci bene e a guardare al Cielo. E come ogni buon papà ha pensato specialmente ai suoi figli più piccoli, ai bambini, ricordandoli con indicibile tenerezza. Ricordate le sue parole? "Tornando a casa troverete i bambini, date una carezza e dite: questa è la carezza del Papa".
«In quel momento ho pensato a voi cari bambini di Sassari e di tutti i paesi della nostra bella Archidiocesi. Anche a voi è giunta allora la carezza del Papa. Ma ora desidero vi giunga anche la carezza del vostro Arcivescovo. Anch'io, come il Papa, ho un amore immenso per voi bambini...».
Qualche intervento in basilica
Degno successore di monsignor Montixi – il vescovo di Iglesias che si astenne, con pochissimi altri soltanto, nel voto sul dogma del primato e dell'infallibilità pontificia nei termini in cui era stato proposto, verso la fine dei lavori del Concilio Vaticano I –, monsignor Pirastru è forse ancora lui a rivelarsi l'esponente più moderno dell'episcopato sardo, colui che sa "volare alto" più di tutti, anche oltre i vota, ed oltre pure il calcolo opportunistico come può dettarlo il conformismo che è ancora tanta parte della visione delle cose dei leader ecclesiali in Italia soprattutto. Così egli è il solo dei sardi (ed in compagnia di altri due connazionali soltanto) a sottoscrivere l'intervento del patriarca melkita di Antiochia (Siria) Maximos IV Saigh – uno dei grandi protagonisti del Concilio, vigoroso e lucidissimo nonostante i suoi 84 anni di età – per il quale «vero impedimento all'unione dei cristiani» è, né più né meno, quel complesso di «eccessive interpretazioni» che della dottrina dogmatica del primato pontificio si sono date nel tempo. E, con tale "abuso", il «concreto esercizio» di potestà giurisdizionali che la storia, nei suoi irregolari percorsi ha suggerito. (A novembre varie sedute di lavoro sono dedicate alla discussione, con molte critiche, dello schema di decreto preparato dalla commissione delle Chiese orientali De ecclesiae unitate "Ut omnes unum sint", sul rapporto fra Chiesa latina ed ortodossia: e di questa ultima le comunità uniate ed i relativi patriarcati si sentono quasi le rappresentanti in seno alla Chiesa cattolica).
Ma se monsignor Pirastru è il vescovo che sembra più aperto agli orizzonti nuovi dell'ecumenismo, sono i vescovi di Nuoro e di Ales quelli che, della pattuglia sarda, più frequentemente chiedono ed ottengono la parola in aula – rispettivamente 8 ed 11 volte –, anche se il primato, che è di 15 interventi (peraltro tutti scritti e sottoscritti, da solo o in gruppo) spetta a quello di Ozieri, monsignor Francesco Cogoni. Davvero non appaiono, le loro, posizioni innovatrici (e saranno, pertanto, costretti a rivederle tutte, per il vento riformatore che investirà progressivamente la grande navata basilicale): sono, in generale, per la conferma del latino come lingua liturgica e contrari invece – più in nome della tradizione che della purezza della dottrina – alla comunione nelle due specie, alla concelebrazione, al diaconato permanente alle persone coniugate, ecc.
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Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).
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