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Gianfranco Murtas

Tornando (e insistendo) sulla secolare storia del Partito Sardo d’Azione. A dire di Gonario Pinna disallineato a Lussu sulla questione dei ceti medi

di Gianfranco Murtas

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Merita ancora restare ai cent’anni compiuti dal Partito Sardo d’Azione lo scorso 17 aprile: centenario di calendario di un soggetto storico che non è però, pur naturalmente evoluto per età e idealità, né quello germinato nel 1921 dal combattentismo reduce né quello risorto nel 1943-44 con Lussu e Mastino, Oggiano e Puggioni, Soggiu e Melis ed affaticato nelle elaborazioni d’intesa con l’azionismo nazionale attivo nel CLN e nel CLNAI, nei governi postLiberazione di Roma ed a Montecitorio fra Consulta e Costituente… Un soggetto storico capace di pensare in grande, appunto in termini di storia. (Soltanto pensare che il riferimento possa essere diventato, al posto di Mazzini e Cattaneo, e poi di Asproni e Tuveri e Bellieni, Matteo Salvini con il suo esercito di ex sacerdoti dell’ampolla, fa venire i brividi: soltanto pensare che la bandiera dei Quattro Mori possa reggere la compagnia dei tristi berlusconiani in disarmo e della trionfante fiamma tricolore sì emblema degli Arditi della grande guerra ma che nel 1946 riunì i fascisti nostalgici del duumvirato e quelli nostalgici di Salò, è cosa che ferisce il sentimento, anche della decenza, e rovescia ogni categoria dell’intelligenza). Ma pur del sardismo che visse stagioni fertili per la vita democratica della nazione appena datasi ordinamenti repubblicani debbo ancora dire richiamando la personalità, nobile e dotta, di un protagonista per mille versi eccentrico quale fu Gonario Pinna, il quale – mazziniano e cattaneano nella sua Nuoro – accettò, insieme con Cesare Pintus e vari militanti del Sassarese, l’invito-ordine di Lussu a chiudere le sezioni sarde del Partito d’Azione/GL e trasferirne gli iscritti in quelle del PSd’A. Tanto in cambio dell’informale federazione… con il Pd’A, federazione ad usum delphini, per la convenienza di Lussu stesso impegnato a sconfiggere, con la sua corrente socialista, quella democratico-riformatrice di Ugo La Malfa e Ferruccio Parri.

Per un decennio circa – dalla metà degli anni ’80 alla metà degli anni ’90 –, mi dedicai a ricostruire, recuperando dall’emeroteca sparsa e dagli archivi, anche e soprattutto dagli archivi privati, i documenti e i documenti-prova inediti! della partecipazione sardista al dibattito politico chiamato a sostenere il rilancio democratico dell’Italia uscita dalla dittatura e dalla guerra. Una formazione regionale che nel 1944 e 1945 e dopo ancora, pur in modi diversi, con avanzamenti e arretramenti, certamente con contraddizioni e lentezze, s’era concessa anch’essa operaia e progettista, come i comunisti e i democristiani, i liberali e i socialisti, alle fatiche del cantiere della Repubblica: della Repubblica “una e indivisibile”. Deputati costituenti furono Lussu e Mastino operando nello stesso gruppo dei sette azionisti – Calamandrei, Cianca, Codignola, Foa, Lombardi, Schiavetti, Valiani (quanto di meglio nell’antifascismo democratico!) – e del valdostano repubblicano Bordon, mentre Puggioni ebbe un seggio (in quota azionista) alla Consulta Nazionale dove anche sedevano uomini di storia sardista come Fancello e Siglienti, e con loro anche Mario Berlinguer. Al governo per un anno intero aveva già lavorato, con la delega per i danni di guerra (all’interno del ministero del Tesoro), Pietro Mastino.

Si ricordino, di quel tempo, nel secondo semestre 1945, le insistite interlocuzioni della direzione sardista con il presidente del Consiglio Ferruccio Parri, le attività dell’assistenza postbellica messe in campo da Lussu ministro ma anche da Joyce Salvadori e da Ines Berlinguer Siglienti la repubblicana.  

Che tempi! e che nobili personalità sulla scena continentale come su quella regionale, ché non si dimentichino nomi come quelli di Davide Cova sindaco ad Oristano o di Marianna Bussalai che con Titino Melis e quanti altri dirigenti doveva combattere la miope ostilità, non soltanto degli avversari politici, ma anche del clero arrivato perfino a negare i funerali ai sardisti e il battesimo ai loro piccoli, l’assoluzione alle donne che non promettevano il voto al Biancofiore… 

Fra i cervelli più attivi della linea sardista fu, allora, Gonario Pinna. Ne ho riferito abbondantemente in un recente articolo (“Tornando sull’onorata - o disonorata?- secolare storia del Partito Sardo d’Azione. A dire di Gonario Pinna e di minoranze nella minoranza”, Giornalia, 2 maggio 2021). Si trattava di dar conto degli incontri che con il grande avvocato nuorese ebbi occasione di fare nell’estate 1990, pochi mesi prima della scomparsa, e di riferire anche dei documenti da lui fornitimi a supporto della sua testimonianza verbale, a sostegno del racconto di memoria… 

Mi interessava qui adesso riproporre, per il valore specifico del suo contributo, uno scritto di Maurizio Battelli – economista e, al tempo, militante federalista e dirigente nazionale della Federazione Giovanile Repubblicana – che per il mio Sardismo e Azionismo negli anni del CLN stese rivisitando la tenzone dialettica che oppose Gonario Pinna a Emilio Lussu su varie materie, ed in particolare sulla rappresentanza dei ceti medi produttivi che il PSd’A avrebbe potuto far propria, contro la linea invece classista e frontista che Lussu già allora – e invero già dal congresso sardista del 1945 come anche da quelli azionisti di Cosenza dell’estate 1944 e di Roma del febbraio 1946 – andava predicando: volendo associare il sardismo a chi guardava a Stalin come a un faro della storia progressiva universale.

Recuperando e riordinando i testi pinniani, Battelli definisce con chiarezza estrema le coordinate generali e i contenuti del pensiero dell’avvocato (e cento altre cose, ma basti la qualifica onnicomprensiva di intellettuale) nuorese, teorizzatore di «una forma di federalismo che, tenendo ferma e salda la conquistata unità nazionale, la realizzi veramente negli spiriti dei cittadini, articolandola in un'organizzazione politica moderna su base regionale e in istituti che garantiscono la libertà e l'autonomia delle parti nell'armonia della nazione e dello stato».

Interno agli svolgimenti della storia ineunte, il PSd’A doveva avere ed esprimere, già in quella rinascita democratica della storia italiana, piena coscienza di non potersi estraniare «dalla vita della nazione di cui la regione è parte e neppure da quella del vasto mondo». E in tale contesto doveva maturare una collocazione rispondente alle necessità del territorio da cui scaturiva, insieme individuando l’area sociale della sua migliore o più efficace e naturale rappresentanza. Insomma, associando alte idealità politiche a rispondenti spazi di rappresentanza sociale.

Nel federalismo repubblicano di Pinna, dunque, il sardismo doveva sapersi incuneare, sul piano delle dinamiche socio-economiche, fra il comunismo e la destra (liberal-qualunquista, monarchica e democristiana) che, ciascuno per la sua parte, tendevano allora a radicalizzare la società appena uscita dal dramma della guerra: l’uno sfruttando la proletarizzazione crescente dei ceti di mezzo, di artigiani e impiegati, di professori, tecnici e piccoli proprietari rurali, l’altra caricando questi stessi ceti di missioni patriottarde nel nome di un’astratta nazione e di un antibolscevismo parolaio. Ceti bisognosi invece di una «disciplina ideale», dell’indicazione di una credibile «funzione [da] adempiere nella vita politica italiana», riconoscendosi politicamente, con il loro nuovo protagonismo civile, in un centro organizzato come un’«alleanza di partiti, forze, correnti repubblicane e socialiste liberali» comprensive, nelle espressioni isolane, del sardismo. 




Maurizio Battelli: “Per un socialismo liberale” 

Il pensiero politico-istituzionale di Gonario Pinna è sicuramente utile e fecondo di spunti ancora innovativi.

Analizzando un suo lungo scritto a puntate dai titolo "Il problema politico del federalismo", apparso su Riscossa dal gennaio al marzo 1945 e un altro scritto dal titolo "La regione e il vasto mondo" uscito sul Solco l'11 marzo-dello stesso anno si desumono i tratti essenziali della visione che egli ha circa l'architettura politico-istituzionale della futura Repubblica italiana e del ruolo che, in questo processo costituente, devono svolgere i partiti regionali come il Partito Sardo d'Azione.

La struttura ritenuta ottimale è quella basata sulla teoria politica federalista: quindi uno Stato «forte ed energico al centro nell'esplicazione delle funzioni sovrane, fra le quali prima ed elementare è quella della difesa, e razionalmente articolato e snodate nell'esplicazione delle funzioni attribuite istituzionalmente alle competenze degli enti regionali».

Ecco, dunque, un primo principio della teoria federalista: quello di sussidiarietà, il quale richiede che gli interventi risolutori si estrinsechino ai diversi livelli della gestione del potere in relazione alla particolare natura del problema da affrontare e, quindi, alla capacità risolutiva dell'intervento e della sfera di interessi implicati. In questo ambito, i diversi livelli di gestione del potere (le Circoscrizioni, i Comuni, le Province, le Regioni, gli Stati, le Unioni di Stati fino ad un'ipotetica Unione Mondiale) avrebbero prerogative specifiche e poteri sostanzialmente autonomi, benché per taluni aspetti interdipendenti.

Un altro punto critico del federalismo lo si ritrova quando Pinna si pone il problema della «solidità spirituale di uno Stato in cui è politicamente organizzato un popolo». Essa «è in ragione diretta della adesione di questo alle esigenze e agli imperativi di quello e, correlativamente, della rispondenza e adeguatezza storica dello Stato ai bisogni politico-sociali del popolo. Naturalmente, l'adesione di un popolo agli imperativi dello Stato dev'essere libera; onde il primo presupposto della saldezza spirituale d'uno Stato è la libertà di cui godono, praticamente esercitandola, i suoi cittadini». Su questo concetto di libertà Pinna incentra la preferenza per uno Stato a struttura federale rispetto ad uno a struttura accentrata che, in quanto tale, è «fatalmente portato a limitare codesta libertà». .

Ma quali sono le ragioni di questa scelta federalista per la futura Repubblica italiana?

Una prima ragione è di natura geografica: «nasce dalla configurazione della penisola che non si aggruppa e stringe compatta attorno a un centro ma si stende e allunga eccessivamente nel senso dei paralleli». Per cui «a una siffatta configurazione dell'Italia si addice meglio una organizzazione statale federale come quella che consente e disciplina una molteplicità di centri di vita amministrativa, economica, intellettuale, e riserva alla capitale le funzioni direttive della vita nazionale».

Altre ragioni sono quelle delle differenze etniche, storiche e linguistiche. Si tratta di ragioni note a tutti che il leader nuorese ammonisce di non estremizzare poiché «non si deve commettere l'errore di identificarle con una vera e propria tradizione federalistica». Inoltre, «spesso si confonde, in sede storica e giuridica, la federazione con la lega, vale a dire l'unione permanente di stati per realizzare finalità di organizzazione politico-sociale con la unione temporanea di Stati dettata per lo più da condizioni di' emergenza e da scopi di difesa o di offesa».

Occorre precisare che ciò che ha in mente Pinna non è un modello che nega l'unità nazionale ma, anzi, «una forma di federalismo che, tenendo ferma e salda la conquistata unità nazionale, la realizzi veramente negli spiriti dei cittadini, articolandola in un'organizzazione politica moderna su base regionale e in istituti che garantiscono la libertà e l'autonomia delle parti nell'armonia della nazione e dello stato». Insomma, un modello basato sul principio federalistico dell'unità nella diversità.

Dal concetto di autonomia si arriva alle ragioni politiche della scelta federalistica. «L'unità nazionale [...] non può essere salvata e fortificata dal solito decentramento amministrativo né da provvedimenti eccezionali per questa o quella regione, ma soltanto da uno stato federale che, realizzando e disciplinando istituzionalmente le autonomie regionali su base democratica, assicura il libero svolgimento delle particolari forme di vita sociale delle regioni nel quadro d'una unità non coatta né fittizia ma finalmente riconosciuta e accettata da esse, o vigorosamente svolta da un centro politico sollecito e vigile tutore dei supremi interessi nazionali».

Con una simile visione autonomistica Pinna non può non giudicare «ridicola l’osservazione di coloro che considerano, oggi, antistorico un partito regionale solo perché tale». «La storicità di un partito o d'un movimento politico non è data dalla vastità teorica del suo orizzonte ma dalla sua rispondenza alle esigenze del momento storico in cui agisce, dal suo concreto operare per la soluzione dei problemi generali o particolari ma vivi e attuali nella coscienza del paese, in una parola dalla sua vitalità». Chiaramente, per l'articolista, il Partito Sardo d'Azione è «un partito che vive nel suo tempo e agita i problemi del suo tempo e ha risonanza nella coscienza del popolo a cui si rivolge». In altri termini, «è nel pieno della storia». Però ammonisce: «essere un partito regionale non significa straniarsi dalla vita della nazione di cui la regione è parte e neppure da quella del vasto mondo».

Comunque, la vera ragione politica della scelta è soprattutto questa: «uno stato federale nasce e diventa necessariamente repubblicano». Da ciò emerge l'anima repubblicana di Pinna che ribadisce «l'incompatibilità politica e storica tra federalismo e monarchia, poiché il principio monarchico tende fatalmente al controllo unitario e all'accentramento e contraddice radicalmente a quello spirito di libertà che nello stato federale trova la sua più completa espressione, rivendicando e svolgendo il suo valore rivoluzionario e al tempo stesso costruttivo».

Dalle ragioni politiche alle ragioni sociali, chiaramente e strettamente legate alle precedenti: ponendosi il problema di «ricercare i mezzi e gli strumenti migliori per agevolare la partecipazione delle masse alla vita dello stato», l'autore ne individua così la soluzione: «un'organizzazione statuale federale [...] che avvicina gli organi di stato ai cittadini, ai lavoratori, ai produttori, ai contribuenti e, tutti costoro [...], a quelli, cioè allo Stato, che non sarà né apparirà più la macchina aliena e misteriosa, riserbata al maneggio di pochi iniziati, ma la cosa di tutti, costruita e vivificata dal sacrifizio di tutti, nell'interesse e per il bene della collettività nazionale». In altri termini, uno Stato in cui il potere non è accentrato nelle mani di pochi ma è diffuso ai vari livelli, da quello più elevato a quello più basso coincidente con il quartiere in cui si dovrebbe avere la minima distanza tra istituzione e cittadino, e correlativamente il massimo coinvolgimento di quest'ultimo alla vita della comunità.

Analisi lucida, riflessione anticipatrice quella di Gonario Pinna, una figura cosmopolita e comunitarista allo stesso tempo, un vero federalista che pur «volgendo gli occhi e affisendo le speranze di un nuovo ordine italiano, europeo e mondiale» ha sempre tenuto «ben piantati i piedi nella terra di Sardegna».

Ma c'è poi un altro campo - quello della rappresentatività sociale del PSd'A - che impegna l'esponente nuorese (ora militante sardista, ma nella continuità ideale e culturale con le esperienze repubblicana ed azionista) in uno sforzo di analisi e di originale proposta, di cui sono testimonianza diversi contributi pubblicati dalla stampa di partito. Analisi e proposta per il confronto e... lo scontro.

«Accade tuttavia che anche polemiche prive di giustificazione logica perché determinate da evidenti errori di interpretazione riescano spesso utili e fruttuose». Questa frase scritta da Gonario Pinna in un articolo in risposta ad Emilio Lussu potrebbe rappresentare sinteticamente la polemica intercorsa tra i due leaders sardisti tra il dicembre 1946 e il marzo 1947 sulle pagine de Il Solco. Una polemica avente per oggetto la natura e l'orientamento sociale del Partito Sardo d'Azione.

Il 15 dicembre 1946 Pinna pubblica un articolo -- "Orizzonte politico" - in cui, dopo un'analisi delle predominanti forze politiche italiane, focalizza l'attenzione sulla «organizzazione politica dei ceti medi». Il problema ch'egli riscontra sta, precisamente, nella divisione delle forze dei ceti medi «fra i vari partiti o anche estranee ai partiti». Questa distribuzione non è naturale bensì il frutto del lavoro da una parte del partito comunista «per la conquista di quei ceti che si chiamano ancora medi per abitudine e forse per certo ma spirituale in cui vivono ma che sono proletarizzati oltre ogni immaginazione» e dall'altra parte della destra con richiami «tra patriottardo e classista alla media piccola borghesia intellettuale perché non tradisca quel che dovrebbe essere, secondo alcuni, la sua missione». Da ciò la conclusione: «si lavora da opposte parti per approfondire il solco che le divide, per evitare la formazione di aggregati intermedi».

Queste affermazioni suscitano l'interesse di Emilio Lussu, il quale risponde il 29 dicembre 1946 con un articolo dal titolo "Il partito dei ceti medi". Con schiettezza egli afferma che l'idea del partito dei ceti medi non è certamente cosa nuova. Già nel 1942, con la costituzione del Partito d'Azione sui gruppi di "Giustizia e Libertà" questa era la tesi sostenuta da La Malfa, al quale poi si aggiunse il sostegno di Parri. L'idea è completamente rifiutata da Lussu per il quale il Partito d'Azione «non poteva essere né il grande né il piccolo partito dei ceti medi» poiché «poggiava sulle classi lavoratrici: operai, contadini, piccoli intellettuali, tecnici, impiegati, piccola borghesia lavoratrice diretta». Un commento ironico è poi riservato ai suoi contraddittori, i quali «dichiaratamente borghesi rappresentanti dei ceti medi, uscirono dal Partito d'Azione al Congresso di Roma, convinti di mandare, con il loro partito dei ceti medi espressamente creato, duecento deputati alle elezioni del 2 giugno: furono eletti in due». Quindi per Lussu «in Italia non c'è posto per un partito dei ceti medi, inteso come partito capace per le sue forze di agire autonomamente, arbitro della situazione politica». Ciò perché essi, «dopo la rivoluzione russa, dopo il fascismo e il nazismo, dopo il capovolgimento delle posizioni tradizionali sociali e politiche, hanno perduto la propria autonomia».




In un secondo articolo, pubblicato il 1° febbraio 1947, Gonario Pinna chiarisce meglio il proprio pensiero affermando di non aver mai sostenuto né di avere la vaghezza di sostenere che il Partito Sardo d'Azione debba essere, sic et simpliciter, un partito di rappresentanza centrista e moderata. Non solo, ma «nessun partito potrà in Italia, o in Europa, organizzarsi vitalmente sulla base esclusiva dei ceti medi» e tanto meno il PSd'A i cui quattro quinti di elettori - così come sostenuto da Lussu - non appartengono certamente a quella classe. Quindi ripropone la propria tesi. Dato che «non tutta la massa dei ceti medi è politicamente organizzata [...], perché proprio noi dovremmo rinunciare ad attrarre nel nostro partito codeste considerevoli masse di cittadini?». Le quali, oltretutto, senza avere contorni precisi di classe hanno «tuttavia effettuale consistenza economico-sociale e quindi politica [...] e attend[ono] una disciplina ideale, un sicuro orientamento, l'indicazione della funzione cui dev[ono] adempiere nella vita politica italiana».

A questo chiarimento non si fa attendere la risposta di Emilio Lussu, che arriva l'8 febbraio 1947. Titolo scontato: "Sui ceti medi". Dopo una scherzosa citazione di Gaetano Salvemini, secondo cui «quando un lettore, diciamo medio, non capisce o capisce male lo scritto di un altro, la colpa è sempre di chi scrive e non di chi legge», Lussu entra nei vivo del problema e riafferma che per lui il PSd'A è il partito dei lavoratori sardi, «non un partito dei ceti medi, neppure in parte e neppure un quinto». «Se i ceti medi, nella difficoltà o impossibilità di costituire un grande partite o una coalizione dei partiti, guardassero con fiducia il nostro partito - egli osserva - farebbero opera saggia, poiché noi non concepiamo la ricostruzione del paese e la rinascita della Sardegna e di tutta l'Italia con un'azione politica e sociale avversa ai ceti medi, ma solo polemica e fiscale verso la grande borghesia monopolistica e privilegiata».

Quindi, un'apertura ai ceti medi solo se questi condividono le aspirazioni ideali, politiche e programmatiche del PSd'A e un rifiuto invece all'uniformarsi del partito agli interessi di quelli. Questo il punto sul quale i due leaders sardisti si trovano agli antipodi. Anche perché sull'analisi sociologica Lussu concorda con Pinna, affermando che «il guaio dei ceti medi è che, non potendo costituirsi in un solo partito autonomo nettamente staccato dal grande capitale, si disperdono parte verso i monarchici, parte verso l'"Uomo Qualunque", parte verso i liberali, partiti tutti influenzati o dominati dalla grande borghesia, e parte verso la democrazia cristiana che è lo storico partito dell'equivoco e dell'ambiguità perché ha nel suo seno lavoratori, ceti medi e grande borghesia: e quest'ultima, nei momenti decisivi, comanda e conduce e travolge i primi».

La polemica si chiude con altri due interventi: "Ceti medi", del 1° marzo 1947, e "Azione politica regionale e nazionale", dell' 8 marzo 1947. In essi l'esponente nuorese ribadisce la necessità del coinvolgimento delle classi dì mezzo nel Partito Sardo d'Azione soprattutto data la struttura sociale della Sardegna. Inoltre afferma che il PSd'A «è regionale e come tale ha una propria inconfondibile funzione: tutela assidua e strenua degli interessi dell'isola, formazione d'una viva e vigile coscienza regionale, creazione d'una classe dirigente isolana come condizione non tanto per la conquista quanto per il successo del postulato politico fondamentale: l'autonomia». Pur con tale funzione regionale però il Partito Sardo d'Azione non deve rinunciare ad un'azione sul piano nazionale. Ma con quali forze condurre la lotta?




Per dare risposta a questa domanda viene riproposta la visione della lotta politica italiana divisa «fra una sinistra social-comunista indubbiamente forte e una destra che, comprendendo liberal-qualunquisti, monarchici e democristiani, non può considerarsi meno forte». E dunque quale la soluzione se non «un'organizzazione mediatrice fra quelle due posizioni; la necessità, insomma, della creazione d'un centro politico che, facendo perno su partiti energicamente orientati per la difesa della repubblica e delle libertà democratiche, sappia attrarre i ceti medi, distaccandoli dall' amorfismo delle posizioni d'attesa e d'incertezza e associandoli alla lotta contro la reazione e contro ogni forma di parassitismo?». In definitiva, Gonario Pinna prospetta una formazione di centro organizzata come «una federazione, o blocco o alleanza di partiti, forze, correnti repubblicane e socialiste liberali che sappiano convogliare in un'unica grande corrente anche quei ceti medi che nei movimenti politici giuocano spesso un ruolo di primissimo piano».

Ecco dunque svelata la strategia complessiva del leader sardista-azionista circa la natura e il futuro ruolo del Partito Sardo d'Azione. A questa definitiva chiarificazione manca la replica di Emilio Lussu, sicuramente non perché convinto dalla giustezza delle parole del rivale compagno di partito, ma anzi, probabilmente, per la convinzione della totale lontananza dalla sua visione.


Fonte: Gianfranco Murtas
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