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Gianfranco Murtas

Ancora a proposito di Massoneria. Gianfranco Contu, parlando di federalismo in loggia

di Gianfranco Murtas

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Molte volte, trattando di storia e “dottrina” massonica, anche nelle applicazioni sarde, mi sono state poste domande – invero sempre oneste e puntuali – che miravano a meglio chiarire da un lato la portata della “trasversalità”, o diciamo dell’ecumenismo come pilastro fondante l’antica istituzione umanistica dei “costruttori” – il che guardava (e guarda) soprattutto alle ideologie professate, mentre l’orizzontalità statutaria fa riferimento anche alle condizioni sociali e professionali, all’istruzione e censo – e dall’altra il rischio, se incombente o no, di clandestini coaguli a mo’ di camarille in vista del soddisfacimento di interessi puramente venali (siano potere, siano affari o altro).

E’ materia interessante, questa, anche per le sue implicazioni pratiche, che meriterebbe sempre d’essere ripresa e sviluppata, senza censure o autocensure, anche se è vero che molto o moltissimo, in questi ultimi… trent’anni e anche più, mai sottraendomi, ho scritto e detto in proposito cercando ogni volta di sostenere gli argomenti con prove provate, le prove della storia lontana o recente. Quelle prove davanti a cui soltanto i dogmatici descritti da Brecht nella sua celebre “Lode del dubbio” si negherebbero, perché fra le loro idee ed i fatti, quando in contrasto, tanto peggio… per i fatti!

Stavolta mi limito, introducendo un bel testo di Gianfranco Contu – amico indimenticato e collega in sodalizi o imprese, socialista lussiano e sperimentato studioso del federalismo, nonché benemerito riscopritore, già negli anni ’70 del secolo scorso, della figura e della esperienza culturale e politica di Giovanni Battista Tuveri – a riprendere, con poche battute contestative, quanto si è pure, in varie occasioni, affacciato nel dibattito pubblico e anche negli scambi più privati: che cioè la trasversalità massonica, l’ecumenismo della loggia cioè, costringa il libero muratore a una sorta di doppia identità, a dismettere i propri panni civili e principi filosofici (e politici in senso lato) per confondersi in una sorta di melassa, di indistinto, chissà poi a che fine se non volgarmente utilitaristico.

Pur non pensando male, ma soltanto misurandone il rischio, questo si disse anche in tempi remoti: certi repubblicani dell’intransigenza antisistema, nel primo Novecento,temevano che i loro sodali iniziati alla Libera Muratoria, nell’incontro paritario e rispettoso, in loggia, con i massoni monarchici potessero indebolire la vitalità della loro fede e della loro testimonianza antidinastica; così certi socialisti espressione delle ragioni del proletariato, a proposito degli abbracci, in loggia, dei loro compagni con capitani d’industria o investitori, sacerdoti del mercato, della libera impresa e del profitto… E così, per converso, s’alzava preoccupazione in certi esponenti politicamente moderati, magari liberal-monarchici, lì a vedere parte dei soci dei loro club borghesi presi dalle magie dell’altra militanza ecumenica, in associazione sorprendente e interrogativa a repubblicani e socialisti, a progressisti in campo sociale e politico… 

Questo invero potrebbe accadere anche oggi, nella società liquida senza riferimenti valoriali forti nel campo etico-civile e politico (penalizzato da derive sovraniste e grettezze populiste), ma pur con dinamiche sociali non da poco, se in una loggia convivessero neo-opposti ministeriali ed autonomisti – magari altrove chiamati alle dispute sulla medicina di territorio! –, ambientalisti e produttivisti, e fruga ancora fra i gruppi di pressione attivi fra semine predicatorie e interlocuzioni con le autorità decisorie. 

Messa la questione in questi termini e appunto traendone la conclusione che ogni fede rischi depotenziamenti nel nome di una supposta superiore regola – quella della loggia come camera di compensazione non però per il bene generale – non si capirebbe la realtà quale è: perché semmai sono la diversità, o meglio la compresenza di diversità, e l’originalità dei contributi dialettici che qualificano il “lavoro” massonico secondo l’impronta speculativa ereditata dalla rinascita del Settecento e passata, in Italia particolarmente, per tutte le complesse vicende risorgimentali, unitarie ed antipapaline, della persecuzione fascista, della ricostruzione morale e materiale della patria, delle persistenze oppressive (per trent’anni circa) del guelfismo democristiano e, all’opposto, del dottrinarismo leninista dei comunisti così come della ristrettezza complottista della destra. Forte di un pensiero patriottico e democratico, socialmente orientato ad un società inclusiva e radicato in tavole valoriali aperte a liberi ordinamenti, la Massoneria – o la vera Massoneria dai succhi universalistici – gode dell’assortimento, interessata a cogliere sintesi di natura umanistica e non politica. 

In una loggia non è la materia da discutere che può fare problema, è l’approccio o lo spirito argomentativo che deve essere chiaro nella offerta, alla plenaria, delle personali riflessioni di chi “raccontando” implicitamente “si racconta”: racconta di sé nei percorsi esistenziali, intellettuali, sociali compiuti per la realizzazione dei propri talenti. Ogni intervento non è mai mosso da un fine “compradore”, di ricerca del consenso o della condivisione, no, esso si propone come lettura soggettiva, personalissima, di una data realtà fatta oggetto di approfondimento sempre anticonvenzionale (ché la Libera Muratoria o è anticonformista o non è): lettura che riflette cultura ed esperienze di vita di chi porta gli argomenti particolari, inquadrandoli in contesti più o meno larghi e motivando i perché delle proprie conclusioni, nell’attesa che altri punti di vista – qualificati anch’essi da peculiari ed impegnate pratiche intellettuali e di vita – favoriscano integrazioni ed una più complessiva conoscenza critica dell’oggetto carezzato e penetrato dall’intelligenza e dal sentimento.  

Così impostata la “dialettica” di loggia, in cui la fierezza di una posizione si combina per statuto con la consapevolezza del proprio “relativo” e del provvisorio – ché l’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza ben potrebbe rettificare o rimodellare le originarie convinzioni –, ne viene che non vi sono tabù di sorta nel piatto tematico disposto dal Venerabile (la figura carismatica nella cui presidenza si materializza il cor unum della compagine che l’ha democraticamente eletto). Soltanto l’esperienza ha consigliato di sfrondare i temi di loro natura divisivi, di ostacolo al consolidamento cioè di quella armonia umanistica che costituisce l’obiettivo immediato ed ultimo della Libera Muratoria: per la virtù personale (intimamente oblativa) e per il progresso dell’universo mondo (la società inclusiva). E quei temi sono la politica e la religione. Direi così: la politica e la religione, non la Politica e la Religione. Ché se si sa volare alto, ogni azzardo sarebbe atteso, compreso, gustato.

Da noi, giusto a Cagliari, anni addietro si affacciò una impropria pubblica polemica (sulle colonne de L’Unione Sarda) circa la militanza liberomuratoria di un intellettuale fra i più prestigiosi della Sardegna del secondo Novecento: Francesco Masala, socialista lussiano anch’egli come Contu, poeta e scrittore, critico letterario e d’arte competente e sapido, personalità assolutamente… seducente con le sue metafore o le sue rappresentazioni, l’interpretazione che sapeva dare dell’economia e del costume nostra sarda secondo i paradigmi della dipendenza neocolonialista. 

Da taluno, evidentemente non estimatore (ma forse neppure conoscitore) della Libera Muratoria, si ritenne che l’accostamento del nome dell’autore di Quelli dalle labbra bianche e della silloge Pane nero e di altre mille belle cose al mondo delle logge, di lui deprimesse autorevolezza e credibilità civile, postulando un suo necessario, inevitabile irretimento nella melassa di cui ho detto. E invece no, basterebbe parlare di cose che si conoscono, e di persone che si conoscono. Da socialista radicale (e paradossale), Masala dignitario di loggia – della sua loggia intitolata alla vittima dell’Inquisizione spagnola in quel terribile 1571 che fu anche l’anno di Lepanto – sostenne e argomentò con i motivi più nobili (abbattere diseguaglianze e «squilibri corporativi», parole sue) l’idea della nazionalizzazione dell’industria farmaceutica, perché strumentale alla soddisfazione del prioritario bene della salute pubblica. 

Era la sua personale visione politica di una materia importante e di evidente diretto interesse generale: certamente quel che sostenne ed argomentò, cinquant’anni fa, nella sua loggia riunita nel solenne palazzo Chapelle, era sostenuto ed argomentato con lo spirito antidogmatico di cui ho detto, addirittura attrattivo di analisi ed opinioni diverse e perfino opposte ma altrettanto degne e motivate. Esso esprimeva, nella sostanza, lo stesso programma affacciato nella sezione di partito – allora quello socialproletario –, o nel dibattito d’una associazione, o nelle colonne di un giornale. Nessuna censura, nessuna bipolarità identitaria. Il relatore – allora titolare della funzione di Oratore nella compagine rituale all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia – manifestava con tutta libertà e responsabilità un orientamento civile noto anche altrove, ma lo proponeva con l’intento non di trovare conferme o adesioni – quasi si dovesse votare una mozione o un ordine del giorno –, ma soltanto quello di provocare ed animare una discussione di approfondimento sul tema del benessere generale (del ben-essere dunque, assai più che del ben-avere sovente più gettonato anche nelle aule delle istituzioni rappresentative).

Fatte queste premesse è chiaro come anche il federalismo tratteggiato, nelle sue premesse ideali e nelle sue diverse attuazioni storiche, da Gianfranco Contu fra le Colonne della sua loggia Sardegna (questo il titolo distintivo dell’ensemble) nel corso del 1985 – trentacinque anni fa – fosse accolto dall’interesse della plenaria per essere poi valutato o rivalutato, nel merito, da questo o da quello, a seconda dei personali indirizzi ideali e culturali e delle esperienze civili maturate nel tempo. 

Il federalismo come «strumento perenne di fratellanza e di solidarietà umana» fu l’impostazione che egli diede alle sue riflessioni, pur tante volte anch’esse espresse, in forme diverse, nei libri o nelle conferenze, e certamente essa arricchì coloro che lo ascoltarono, generando quindi una discussione degna della causa.

Eccolo l’intervento di Gianfranco Contu (egli fiduciariamente mi consegnò il dattiloscritto e anche di tanto alla sua memoria sono grato).

«Strumento perenne di fratellanza e di solidarietà umana»

Sento anzitutto il dovere di ringraziare il Venerabile Maestro per la fiducia accordatami nell'affidarmi questa tavola sul problema del "federalismo".

Si tratta di una concezione di vita che, oltre a non essere ben conosciuta nella sua vera essenza, è stata spesso, negli ultimi due secoli, deformata per esigenze di politica contingente. Risulta dagli studi archeologici e antropologici che, fin dalla preistoria, l'uomo ha cercato di stabilire contatti pacifici con i suoi simili. La comune necessità di unirsi in gruppi era più che evidente: senso di sicurezza per fronteggiare i pericoli derivati dall'attacco delle fiere o di altri gruppi umani rivali, bisogno di difendersi dalle intemperie e di darsi una migliore organizzazione della caccia e della pesca.

Più tardi con il costituirsi di vaste tribù, i contatti, lungi dall'attenuarsi, divennero più solidi, anche fra gruppi un tempo rivali fino a raggiungere, mediante una sorta di libero e tacito patto, lo stadio del clan inter-tribale.

A questo punto della crescita culturale dell'uomo siamo arrivati al patto: al cosiddetto "foedus" dell'antichità, termine latino dal quale deriva, appunto, la parola "federazione".

In questi liberi patti federativi di cui si è appurata l'esistenza fin dai tempi della cultura orale e che non erano mai permanenti (perché appunto accettati liberamente), è fondata la preistoria dell'umanità, e anche la storia antica del genere umano.

Possiamo anche affermare che i patti federativi fra tribù, fra clan o più vaste comunità agro-pastorali, servivano più per garantire la pace, piuttosto che per fomentare le guerre. (Questa definizione è in linea con una acuta definizione tramandataci da Emanuele Kant per il quale "federazione" è uguale a "pace permanente", e sulla quale tornerò più avanti).

E anche quando i patti federativi furono stipulati per scopi di guerra, quasi sempre si trattò di guerre a carattere difensivo. La storia dell'antichità è ricca di esempi di patti federativi: le varie tribù di Israele che si federarono per meglio organizzare il ritorno nella "terra promessa"; le tribù germaniche che si unirono in federazione per creare un argine all'invasione romana… Ma, per restare più vicini a noi e alla nostra terra, ricordiamo anche le numerose tribù nuragiche, ormai così vaste tra il 2° e il 1° millennio A.C, da arrivare allo stadio cosiddetto della "federazione cantonale" (la definizione è di un noto archeologo sardo), con comunità più o meno estese che occupavano precise aree delimitate "territorialmente". Ricorderò solo alcune di queste comunità cantonali: i Gallilensi, gli Iliensi, i Balari, i Corsi, gli Iolei, i Koracesi, i Serapitani, tanto per citare le più importanti. Ebbene, questi gruppi comunitari, che certamente conobbero anche rivalità fra di loro, giunsero a uno stadio ulteriore di patto federale che, pur non minando la sostanziale indipendenza di ciascuno, contribuì a creare una specie di coesione, una sorta di popolo unico.

Elementi di coesione erano: il comune tipo di economia (agro-pastorale); la comune attività industriale basata sulla metallurgia del bronzo; il florido commercio dell'ossidiana che raggiungeva le opposte sponde del Mediterraneo; comuni erano anche la religione, i costumi, le regole comportamentali e la lingua.

(Parlo ovviamente non dell'attuale lingua sarda, che è una lingua neolatina, anzi fra le lingue neolatine la più vicina al latino, ma piuttosto della lingua nuragica preromana, mediterranea, precedente all'invasione indoeuropea e di cui restano nell'attuale parlata solo poche centinaia di toponimi; lingua che, secondo i più moderni linguisti, sarebbe affine a quella dei Baschi dei Pirenei, dei Bérberi dell'Atlante o dei Georgiani del Caucaso, tutte isole linguistiche sopravvissute all'invasione indoeuropea). 

Certo, la civiltà nuragica non arrivò allo stadio compiuto delle "poleis", cioè delle città-stato (e quindi neppure della scrittura che è un'espressione strettamente legata alle civiltà di tipo urbano) e ciò anche a causa delle successive invasioni (o migrazioni) dall'esterno.

La nascita delle "poleis", delle città-stato, è fenomeno che si manifesta nelle varie parti del mondo in tempi diversi. E inevitabilmente, vediamo riaffacciarsi, in forme e modi differenti, l'esigenza per le città-stato di ricercare, sulla base di interessi convergenti, feconde intese di tipo federativo. La storia è ricca di esempi di intese federative fra città-stato.

Forse il più antico esempio storico è quello del popolo etrusco. Questo popolo del Mediterraneo che si estendeva dalla Valle del Po alla Campania, con I’Etruria propriamente detta al centro (formata questa dalla Toscana, dall'Umbria e dal Lazio) era organizzato in numerosi piccoli stati chiamati "lucomonie" con a capo ciascuno un "lucumone" elettivo. Ricordo fra le più importanti Veio, Tarquinia, Volterra, Perugia; la stessa Roma pare sia nata (ad onta dei fastosi natali decantati da Tito Livio) come una lucomonia etrusca e neppure fra le più importanti e che solo più tardi si sia resa autonoma per seguire una propria politica di potenza e di espansione.

Le numerose lucomonie etrusche erano raggruppate in tre federazioni: una nella Valle del Po, una nell'Etruria, e l'altra nella Campania; a loro volta queste tre federazioni (che erano del tutto indipendenti), si riunivano temporaneamente – in caso di guerre o di più importanti decisioni economiche – in una più vasta confederazione con assemblea generale a Vulsinia e con l'elezione per un anno di un lucumone superiore.

Fu forse la eccessiva libertà goduta dai membri della confederazione etrusca la causa principale che portò alla sua caduta per opera della potenza centralizzatrice di Roma.

Se spostiamo il nostro sguardo in tutt’altra direzione, verso l'America precolombiana, troviamo anche lì un interessante esempio di libera federazione di città-stato, anche se dobbiamo spostare l'orologio della storia di oltre 1.500 anni rispetto alla esperienza degli Etruschi. Parlo della civiltà Maya, le cui libere città-stato (che approdarono anch'esse a una forma di scrittura) erano unite da un vincolo federativo nella Confederazione di Mayapan, così chiamata dal nome della capitale in cui si riunivano i rappresentanti delle diverse città.

Ancora una volta non voglio trascurare la storia della nostra isola. Come dicevo, quando la civiltà nuragica verso l'anno 1000 A.C. si stava incamminando verso una forma di organizzazione più evoluta di tipo preurbano, la Sardegna conobbe una nuova, massiccia invasione di "popoli venuti dal mare". Le discussioni sono ancora aperte sopra questa migrazione: si è parlato dei Shardana provenienti dall'Asia Minore che corrisponderebbero ai Sherdanw di cui danno notizia le iscrizioni egizie del tempo di Ramsete Il; altri addirittura fanno coincidere la migrazione dei popoli del mare con l'arrivo delle nuove correnti fenicie dell'Oriente.

Quali che fossero, i nuovi popoli del mare edificarono sulle coste dell'Isola una serie di città marinare (Olbia, Cornus, Nora, Solki, Tharros, e la stessa Karalis) che diede l'avvio alla nuova civiltà urbo-marinara dell'Isola con statuti simili a quelli delle città fenicie. Queste città sardo-marittime si legarono con un patto federativo, a fini soprattutto commerciali, e, lungi dal combattere contro le popolazioni nuragiche dell'interno, stabilirono con esse larghi vincoli economici e commerciali.

Fu proprio questa solida alleanza fra la lega delle città-marinare costiere e la federazione dei cantoni nuragici dell'interno a fare fronte comune contro gli invasori, i Cartaginesi e, più tardi, i Romani.

Per brevità mi limito a citare alcuni altri esempi di federazione di leghe cittadine nel mondo antico e nel medioevo.

Fra le prime ricordo la lega delle città greche (guidate ora da Sparta, ora da Atene, ora da Tebe) per difendersi dall'invasione persiana; fra le seconde, la lega dei Comuni italiani per arginare la pressione dell'Impero germanico e la lega delle città hanseatiche del Baltico che aveva fini prevalentemente commerciali. Una considerazione deve essere fatta a questo punto: se a livello familiare, di tribù o di clan o anche di cantoni, la federazione aveva un senso soprattutto di patto sociale, quando si arriva alle forme di federazioni o di leghe di città-stato o di piccoli stati (vedi le Signorie e i Principati), ci si sposa necessariamente verso un tipo di "foedus" che è non soltanto sociale, ma comincia ad essere anche politico. E quando, più tardi, saranno più vasti e potenti stati a cercare vincoli federativi (con la conseguenza di creare stati federali sempre più potenti), nella concezione federalista l'aspetto politico diventerà predominante. Ed è in fondo questa la causa della degenerazione, a mio modo di vedere, dell'idea federalista, quale si è venuta delineando (e talvolta anche applicando) nella storia moderna.

Quando si parla di federalismo oggi, ci si riferisce inevitabilmente ai due grandi esempi storici di stati federali: gli Stati Uniti d'America e la Confederazione elvetica, fino a farne un modello per una Federazione europea in perenne gestazione.

Si tratta sempre della concezione cosiddetta "ottocentesca" del federalismo che è quella del federalismo degli stati e alla quale si sono richiamati e si richiamano tuttora la maggior parte dei teorici dell'idea federalista. Per citare solo alcuni, ricordo Alexander Hamilton e James Madison che furono tra i fondatori degli Stati Uniti d'America (fra l'altro erano ambedue fratelli massoni), i francesi Montesquieu e Saint Simon, gli italiani Ferrari, Cattaneo ed inoltre i sardi Giovanni Battista Tuveri e Giorgio Asproni (quest'ultimo anch'egli libero muratore).

Il cardine della concezione ottocentesca era quella secondo cui più stati si possono unire federativamente per crearne uno più vasto, oppure che uno stato precedentemente unitario si possa dare un assetto federativo mediante l'autonomia statuale delle regioni che lo costituiscono. Nel Novecento c’è stata una fioritura di movimenti che avevano come programma la costruzione degli Stati Uniti d'Europa. Inoltre, nel secondo dopoguerra si sono tentati numerosi esperimenti di unioni federative di stati. Citerei qualche esempio: gli Stati Uniti d'Indonesia, la federazione Etiopia-Eritrea, la Repubblica araba unita (fra Egitto, Siria e Yemen); i tentativi vari della Libia di federarsi ora con l'Egitto, ora con la Tunisia: ebbene tutti questi tentativi sono falliti e di quelle federazioni non è rimasta in piedi una soltanto.

La verità è che il federalismo degli Stati oggi è in piena crisi: questo perché, a mio parere, è sbagliato il concetto stesso di federazione degli stati. In una federazione di stati, saranno infatti sempre quelli più forti, i più evoluti, i più ricchi a prevalere su quelli più deboli. E' la fatale regola della storia che non conosce eccezioni. Gli stessi stati federati che sono portati come esempio (USA, Svizzera) non ne sono esenti. Negli USA, gli stati industriali del Nord hanno sempre egemonizzato quelli agricoli del Sud; ma la cosa più grave è che l'assetto federale americano ignora completamente il problema delle nazionalità: i 27 milioni di Negri, i 25 milioni di spagnolo-parlanti (cioè cittadini americani di origine messicana e portoricana) non hanno nessun vantaggio dall'assetto federale dello stato; per non parlare del milione e mezzo di Pellirosse che vivono nelle riserve come in un giardino zoologico. Anche in Svizzera, i cantoni di lingua tedesca egemonizzano sempre più quelli minoritari di lingua francese e italiana. Gli svizzeri di lingua ladina, poi, non hanno neppure un loro cantone autonomo.

Concludendo, il federalismo degli stati o dello regioni-stato non è il vero federalismo perché è già viziato all'origine. Più recentemente (attorno agli anni ’60) è andata delineandosi una nuova concezione del federalismo, per merito di due eminenti pensatori, ambedue fratelli massoni, uno sardo-algherese, Antonio Simon Mossa, e l'altro catalano emigrato in Messico, Fidel Mirò. Anziché dei federalismo degli stati, Simon Mossa parlava del federalismo delle nazionalità e delle etnie. 

A questo punto debbo fare una piccola parentesi per ricordare che in tutto l’Ottocento e ancora nel Novecento e perfino ancora oggi il concetto di stato viene confuso con quello di nazione. In realtà si tratta di due cose profondamente diverse: lo stato è un concetto politico, fondato su un potere centrale e su rigidi confini, quasi sempre imposti con la forza nell'evoluzione della storia umana; la nazione è un concetto etnico-culturale che indica una comunità stabile, che ha in comune il territorio, la lingua, la cultura e la vita economica. E quasi mai la nazione coincide con lo stato. Per fare un esempio, la Francia, stato unitario per eccellenza, comprende nei suoi confini politici, oltre ai 30.000.000 di francesi, più di 20.000.000 di cittadini che francesi non sono: parlo degli Occitano-Provenzali, dei Bretoni, dei Corsi, degli Alsaziani, ed altri; così dicasi per la Spagna che nei confini ospita parecchi milioni di cittadini non spagnoli: Catalani, Baschi, Galleghi ed altri.

Ecco, Simon Mossa vedeva una futura federazione europea o mondiale i cui membri fossero non gli stati ma le regioni etniche e le comunità nazionali non ancora riconosciute.

Era certamente un grande passo avanti rispetto al federalismo ottocentesco eppure, a mio modesto parere, ancora insufficiente. Perché Simon Mossa non si era posto il problema (o forse non visse abbastanza per porselo: morì molto giovane nel 1971) di come sarebbe stata l’organizzazione pratica di questa federazione delle nazionalità. E allora è legittimo temere che si possa ripetere, alla lunga, lo stesso errore del federalismo degli stati, che cioè le nazionalità più evolute e più organizzate possano ancora una volta tentare di opprimere quelle più piccole e più deboli. E allora? E' necessario un nuovo tipo di federalismo che si avvicini ancora una volta alla concezione primordiale della federazione, quella che ha permesso all'uomo primitivo di avvicinarsi con fiducia al suo simile. Questo è il federalismo che io definirei libertario e che già Fidel Mirò intravide nel 1966 quando scriveva testualmente: «federare significa assicurare la vita autonoma di tutte le comunità grandi e piccole, di tutti i comuni grandi e piccoli, per arrivare fino all' individuo!», concetto che già un secolo prima Proudhon e Bakunin (anch’essi massoni oltre che libertari) propugnarono, parlando delle federazioni delle piccole comunità, come la migliore soluzione per la libertà umana. La chiave è tutta qui. E' inutile predicare la federazione fra uno stato e l'altro o fra una regione e le altre, quando poi non si agisce con spirito federalista anche all'interno della Comunità di cui si fa parte, portando questo spirito federalista fino all'individuo. In altre parole, per fare del federalismo bisogna sentirsi federalisti (e non deve sembrare questa una vuota tautologia).

Bisogna fare un salto indietro nel tempo con spirito moderno e riappropriarsi dei valori originari del federalismo che è fatto di libertà ma anche di umanità e di fratellanza e di vera pace.

Un concetto questo che Emanuele Kant, il grande filosofo di Koenisberg, intravide prima ancora che arrivassero in Europa i fermenti del federalismo americano. Egli, nel suo saggio "Per una pace perpetua" scrisse infatti che la federazione era necessaria perché avrebbe garantito una pace permanente. Libertà, pace e fratellanza sono dunque legati al federalismo. Non per nulla tutti gli stati autoritari e totalitari (di qualunque colore) sono stati sempre centralizzati e contrari al federalismo. Non per nulla i grandi federalisti di ogni tempo erano anche libertari, sempre perseguitati dai regimi degli stati in cui vissero. Non per nulla, e dico questo con legittimo orgoglio, i più grandi teorici del federalismo della storia moderna e contemporanea sono stati quasi sempre senza eccezioni dei fratelli liberi muratori. 

Se l'idea federalista viene presa come concezione della vita e del mondo, al di là della contingente prassi politica, io credo che potrebbe trovare compatibilità con la Libera Muratoria... Io credo che il federalismo dovrebbe, nella sua essenza, trovare grande attenzione nelle nostre logge.

Ringrazio i fratelli per avermi ascoltato.





Fonte: Gianfranco Murtas
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