Monsignor Paolo Carta, vescovo conciliare fra Puglia e Sardegna.
Intervista agli autori di un recente libro biografico, Tonino Cabizzosu e Gianfranco Murtas
È dello scorso dicembre l’uscita, per i tipi della cagliaritana EDIUNI edizioni, di un corposo volume biografico dedicato ad una delle personalità eccellenti della Chiesa sarda del XX secolo: l’arcivescovo Paolo Carta, a capo della diocesi di Sassari per giusto vent’anni, dal 1962 al 1982, ed in precedenza (dal 1955) presule a Foggia, dopo anche esser stato a lungo cappellano militare in Sardegna e fuori.
Autori del volume – “Paolo Carta, un vescovo del Concilio tra Puglia e Sardegna” il titolo, 280 pp., dieci capitoli più alcune appendici documentarie e corredo di una dozzina di fotografie – sono Tonino Cabizzosu e Gianfranco Murtas.
Sacerdote parroco ad Ittireddu, nonché direttore dell’Archivio Storico, della Biblioteca storica e del Museo diocesano di Ozieri e professore ordinario di storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica della Sardegna, il primo; libero studioso, pubblicista e saggista promotore dello Scaffale cattolico e dell’evangelismo in Sardegna (“schede dell’Otto-Novecento”) e di altre sezioni documentarie in capo alla sua biblioteca familiare dei 25mila volumi, il secondo.
Ad entrambi è parso giusto rivolgersi per una presentazione nel web del loro lavoro che, a causa dell’emergenza prolungata alla quale siamo tutti costretti, non ha potuto essere portato nelle sedi associative in cui, di consueto, i libri vengono pubblicamente illustrati nei contenuti, nelle intenzioni, nelle ricadute possibili.
Ecco di seguito l’intervista doppia che ho curato nei giorni scorsi.
Un cristiano nel solco evangelico
1) Don Cabizzosu, come è nata l’idea di scrivere e pubblicare un libro su monsignor Carta? Lei, oltre che professore di storia della Chiesa in Facoltà Teologica a Cagliari, è anche parroco nella diocesi di Ozieri, in cui è stato ordinato proprio da monsignor Carta nel 1975, quando la diocesi era retta dall’arcivescovo di Sassari come amministratore apostolico: forse aveva un debito di riconoscenza?
Cabizzosu. Esattamente. Il volume nasce da un duplice motivo. Il primo è di natura strettamente personale. Monsignor Carta è il padre del mio sacerdozio: sono stato da lui ordinato sacerdote in un caldissimo pomeriggio del due agosto 1975 a Illorai (SS), mio paese d’origine. Sento verso di lui un forte senso di gratitudine e da anni andavo coltivando l’idea di offrirgli un saggio per ricordarne la figura.
Il secondo motivo scaturisce dalla convinzione mia personale che questa bella figura di sacerdote e di vescovo non debba cadere in oblio in quanto diede risposte originali alle problematiche che dovette affrontare lungo il Novecento.
2) Perché e come si è realizzato questo sodalizio con Gianfranco Murtas coautore di questo volume “Paolo Carta, un vescovo del Concilio tra Puglia e Sardegna”? E come vi siete ritagliati i compiti?
Cabizzosu. Io sono un estimatore di Gianfranco come uomo e come studioso. Ho sempre seguito con ammirazione la sua molteplice produzione. Quando penso a quanto ha prodotto in questi decenni rimango sorpreso e ammirato: ha una capacità di lavoro impressionante e su diversi campi in contemporanea. Io sono del parere che in Sardegna non ci sia uno stakanovista migliore di lui: generoso, altruista, cordiale. La nostra amicizia e collaborazione risale ai primi anni Novanta: in lui trovo un rigore morale e professionale di notevole spessore che mi attira e mi arricchisce. La stima che entrambi avevamo per monsignor Carta è stata il punto di partenza per offrire un saggio a due mani che ritengo abbia fatto giustizia a una figura che merita di essere ricordata.
E allora un’analoga domanda porrei all’altro curatore Gianfranco Murtas: perché questo speciale interessamento, da Cagliari non da Sassari, alla figura di monsignor Paolo Carta e come si è sviluppata l’intesa con don Cabizzosu nella stesura di questo testo, che pare piuttosto complesso per la gran quantità di elementi che lo compongono?
Murtas. Ebbi corrispondenza con monsignor Carta al tempo della sua missione sassarese, lo incontrai da emerito a Cagliari, lo sentii per telefono in momenti che definirei “importanti” nella mia vita. Lo collocai sempre in un’ottica ideale di scambi territoriali, fra noi cagliaritani e i sassaresi, in controtendenza ai municipalismi imbecilli, e Carta serdianese successore a Sassari di monsignor Saba suo compaesano, rientrava in questo mio schema sentimentale, lo schema dei “ponti”. Cagliari stesso ebbe arcivescovi di radice, se non sassarese, certo dell’area, o con esperienze umane e religiose maturate nel settentrione isolano, nella provincia ecclesiastica di Sassari: da lì vennero presuli come lo scolopio Delbecchi e l’oblato Piovella, già vescovi di Alghero, e il Marongiu Nurra – l’arcivescovo esiliato al tempo dello Stato pontificio – era nativo di Bessude, in capo proprio all’archidiocesi di Sassari…
Circa la collaborazione con Tonino Cabizzosu, niente di più facile. Ora sono quasi vent’anni egli scrisse, di lato alla premessa del card. Loris F. Capovilla, una bella introduzione al mio “Papa Roncalli e la Sardegna”. Abbiamo sempre proseguito con collaborazioni scambievoli il rapporto, lui mi ha chiesto di prefare il quarto volume delle sue “Ricerche socio-religiose sulla Chiesa sarda tra ’800 e ’900”: un testo in cui avevo cercato di ricostruire con attenzione l’intero percorso ecclesiale, intellettuale e scientifico del prete e dello studioso autore/curatore di una cinquantina di saggi e monografie. Su questa base di mutua fiducia, che nasce da una consentaneità conciliare – lui prete, io liberale – ci siamo divisi naturalmente il lavoro così come appare nell’indice. Bisognerebbe anche ricordare che insieme abbiamo preparato, nel 2006, il convegno che celebrò monsignor Carta nel seminario diocesano di Cagliari, cui intervennero anche padre Morittu e il dottor Marongiu.
3) Quali sono, a vostro avviso, gli elementi distintivi principali della personalità di Paolo Carta uomo e di Paolo Carta vescovo?
Cabizzosu. Paolo Carta, laico, sacerdote, vescovo, era ricco di umanità. In ogni stagione della sua vita (dirigente di azione cattolica, studente nel Seminario Regionale di Cuglieri, cappellano militare, vescovo in Puglia e in Sardegna), le sue doti umane, cariche di umorismo e sensibilità cordiale, conquistava chiunque lo avvicinasse. La sua era una figura molto vicina a quella di don Camillo di Guareschi: non solo per tratto umano ma anche per solidità di formazione, e ricchezza di cuore. La sua elezione all’episcopato costituisce una cesura nella sua vita: egli stesso, nell’autobiografia, confessa candidamente che tale scelta sia stata un errore in quanto non si sentiva portato a “governare”. Io, che ho avuto la fortuna di stargli vicino dal 1970 al 1996, posso testimoniare che la sua umanità, il suo grande cuore, la sua misericordia, nonostante l’incomprensione di cui fu fatto oggetto, abbiano avuto sempre il primo posto.
Murtas. In lui ho sempre visto una fede bambina, piuttosto espositiva delle categorie della dottrina appresa fin dalla prima età, e una grande timidezza. Era molto scolastico nella sua facondia oratoria, don Paolo, direi tanto enfatico quanto sincero e puro, e in questa associazione delle sue propensioni di temperamento ho visto sempre e vedo oggi la sua personalità: leale e generosa, pur se non sempre aveva – a mio avviso – una chiara visione dei tempi nuovi, diciamo della… virtù del secolarismo, della necessità del… Tevere più largo, come avrebbe detto Giovanni Spadolini, cioè della cordiale separazione fra l’ordinamento giuridico statale (legislazione familiare e matrimoniale inclusa, idem legislazione scolastica, ecc.) e il sistema religioso strutturato nella nostra realtà nazionale. La sua formazione giovanile avvenuta in tempi di regime fascista – aveva quindici anni quando Mussolini andò al potere –, e la sua maturità conquistata al tempo (postbellico) della egemonia politica democristiana, ne condizionarono taluni giudizi e talune prese di posizione. Non capì fino in fondo, azzardo, il profetismo evangelico di don Tore Ruzzu e don Giuseppe Murineddu, che dettero testimonianza importante nel Cile di Pinochet… In questo era forse spalleggiato da buona parte del clero diocesano, che mostrò riserve (penserei ingenerose) su quell’esperienza umana e religiosa.
Sul piano strettamente spirituale, certamente in lui la devozione al Sacro Cuore costituì un fil rouge robusto, che andrebbe riletto criticamente, perché il rischio è che se ne ricavi una interpretazione piuttosto banale, mentre non fu cosa banale.
4) Egli, pur essendo di formazione piuttosto tecnico-pratica o economica, essendo laureato in Economia, ebbe molte inclinazioni umanistiche e letterarie, e perfino una certa competenza da studioso di Dante Alighieri e della sua “Commedia” vista in tutte le sue valenze teologiche. Come spiegate questa curiosa duplicità “convergente” nella stessa persona?
Cabizzosu. Non mi sorprende per nulla. Mi pare abbastanza normale che ci siano, in una medesima personalità, sensibilità diverse che convergono in unum. Paolo Carta non era un teologo, né un pastoralista, ma visse con molta dignità entrambe queste specializzazioni, offrendo, nella vita quotidiana risposte che scaturivano dal sentire cum Ecclesia. Oltre che Pastore era un artista: gustava Dante e la musica classica e gregoriana.
Murtas. In questa stessa circolarità pratico-umanistica vedo collocate molte delle personalità eccellenti della nostra Italia. Il presidente Ciampi, già governatore della Banca d’Italia, era laureato in lettere… Dante costituisce un riferimento universale che attiene alla educazione sì religiosa ma anche politica e civile, e a quei valori poetici che ben sanno combinare le diverse realtà dell’umano, coscienza e sentimento. Credo che don Paolo fosse orientato allo studio e alla conoscenza approfondita della “Commedia” anche, e forse soprattutto, dalla disciplina nella quale aveva inquadrato la sua giornata, riservando a sé, per la preghiera e la lettura e l’ascolto, spazi di tempo vissuti come ricarica spirituale e mentale. La cosa meriterebbe approfondimento.
5) Esiste continuità tra i prevalenti “segni” ecclesiali di don Paolo Carta prete, cappellano militare per circa vent’anni e quelli riscontrabili in monsignor Paolo Carta vescovo di Foggia e arcivescovo di Sassari?
Cabizzosu. Senza dubbio sì. È un’unica personalità, ricca di valori umani ed ecclesiali, che vive stagioni e responsabilità diverse della sua vita, unificate nella fedeltà a Cristo e alla Chiesa. La dimensione “conciliare” (nel senso di apertura mentale, sensibilità per la riforma e l’aggiornamento della Chiesa, il dialogo ad intra e ad extra, una Chiesa povera per i poveri ecc.) non fu un valore acquisito negli anni 1962-1965 a Roma al contatto con l’episcopato mondiale, ma furono aspetti da lui anticipati dagli anni ’30 e ’40 e vissuti con naturalezza ovunque abbia operato. Io vedo continuità, armonia, integrazione e sviluppo, secondo le dinamiche dei tempi, con una originale inculturazione del Vangelo nel territorio e nella società ecclesiale e sociale dove operava.
Murtas. L’imprinting formativo, cui ho prima accennato, mi pare abbia dato risultati piuttosto coerenti nelle sue diverse stagioni di vita e responsabilità ecclesiale. A questo riporto il carattere principe, se può dirsi così, della sua condotta pubblica e privata: il senso di Chiesa come di necessario e gratuito deposito dei tesori dell’esistenza – i tesori della grazia, della protezione partecipativa dell’umano da parte del divino – cui attingere nel permanente bisogno e cui offrire con spirito solidale, nella logica del cor unum. Il giovane dirigente dell’Azione cattolica, l’anziano vescovo emerito nel suo ritiro dalle manzelliane di Cagliari, il cappellano militare di grado basso e alto, il presule iperattivo a Foggia e Sassari, è stato sempre lo stesso: comprendendo le situazioni sempre generoso, col freno prudente quando incerto, quando per i suoi schemi mentali o culturali faticava a cogliere il segno, se positivo o negativo, dei fenomeni sociali e politici, e anche ecclesiali che gli si presentavano davanti.
6) Quali furono, se conosciuti, i riscontri empatici e di collaborazione che egli ebbe nel corso delle due lunghe esperienze di cappellano militare, nei due decenni fra fine anni ’30 e il 1955, e di presule diocesano dal 1955 al 1982, intendo nel clero e nel popolo?
Cabizzosu. Non so se capisco bene la domanda. Paolo Carta era fondamentalmente una persona buona, retta, con cuore da bambino, lontano da lotte ideologiche. Il periodo più difficile della sua vita fu la contestazione del postconcilio. Egli era solito dire, con non poca sofferenza interiore, pensando al ventennale governo dell’arcidiocesi di Sassari: “Se sono severo e esigo il rispetto delle norme ecclesiastiche mi rinfacciano che sono un dittatore; se vengo incontro ad uno, tentando di capire e scusare la fragilità umana, mi dicono che sono un imbelle, senza polso”. Don Paolo era troppo buono, gli avversari erano agguerriti: per affrontare ed arginare i fermenti carichi di contestazione probabilmente ci sarebbe voluta una mano più ferrea. In lui predominava il cuore, la bontà, la paternità e la misericordia.
Murtas. Non ho elementi di gran rilievo sul punto. Per quanto riguarda la fase del servizio come cappellano militare e in particolare la sua partecipazione alla guerra di Spagna, da quanto lui stesso scrive negli articoli apparsi su “La Sardegna Cattolica”, il settimanale condiretto dal can. Lai Pedroni e da don Giuseppe Lepori che purtroppo ebbe molte cadute filofasciste (e in qualche caso, per troppo entusiasmo militarista ed antibolscevico, anche filonazista!), l’empatia fu notevole: l’idem sentire ideologico… In Puglia incrociò la devozione popolare, per tanti versi uguale e per altrettanti diversa da quella sarda. Avvertendola come propria missione – missione nella missione – fu particolarmente vicino ai malati: non a caso frequentò padre Pio da Pietrelcina, che andò a visitare poco dopo l’arrivo a Foggia.
Peraltro egli fu vescovo di Foggia in anni precedenti al Concilio, all’evento che cambiò tante cose nel sentire e nel pensare la Chiesa, non soltanto la liturgia. Fu vescovo per metà ancora nel tempo pacelliano, il tempo di Pio XII, per l’altra metà in quello giovanneo. Visse con la sua Chiesa pugliese quel passaggio, direi quel travaglio, e quel nuovo respiro che si annunciava. Il rapporto con il clero e certo associazionismo sassarese, talvolta problematico, risentiva del cambio di scena: il Concilio instillò in tutti il desiderio del nuovo, e quando l’autorità vescovile, ancora in fase di elaborazione o rielaborazione dei dettati conciliari, frenava certe attese… furono scintille, furono incomprensioni, furono musi lunghi. Ma Sassari amò il suo arcivescovo, corrispose per il più al suo abbraccio che fu sempre sincero, direi proprio apostolico.
7) Inquadrandolo nelle attività della Conferenza Episcopale Sarda dal 1962 in poi, può dirsi che da lui venne un contributo originale alle analisi della vita sociale ed ecclesiale ed alle conseguenti prese di posizione pubbliche della CES? E a proposito di Conferenza Episcopale: come incise l’evento Concilio negli orientamenti individuali e collettivi dei vescovi sardi?
Cabizzosu. La maggior parte dei vescovi italiani arrivarono ai Concilio impreparati, succubi della Curia di Roma e della forte leadership del cardinale Giuseppe Siri di Genova. Tra di essi mancavano figure di teologi e di pastori carismatici, molti erano anziani e provenivano da piccole diocesi del Sud d’Italia. Non erano uniti, né presentavano un pensiero teologico originale. Molti vissero l’esperienza Concilio ancora immersi in un sonno profondo. Ciononostante il confronto con vescovi provenienti da tutto il mondo aprì gradualmente la loro mentalità. Paolo Carta visse questo periodo conciliare con intelligenza e intensa partecipazione, come dimostrano le quarantatre lettere che inviò ai suoi parrocchiani.
Il dopo Concilio nella Chiesa sarda fu lento e graduale: in alcune diocesi i consigli presbiterali e pastorali arrivarono con un certo ritardo. Il Concilio rimase più nelle parole che nel rinnovamento concreto.
Murtas. Il professor Cabizzosu ha studiato bene questa fase assolutamente centrale nella vita della Chiesa universale e italiana in particolare, dunque anche sarda. I vescovi sardi, ma in generale il mondo cattolico isolano, come quello nazionale, interpretavano, prima del Concilio, e per qualche anno ancora proseguirono su questa linea, il collateralismo con il potere politico democristiano come un dovere prioritario. Si andò per forza d’inerzia: si era fatto così prima, si continuò… In pubblico lo si negava, in privato no: ma poi c’erano i documenti, le notificazioni elettorali, i moniti ai battezzati di non tradire lo scudo crociato. Il principio della unità politica dei cattolici segnò molto, e secondo me in negativo, il magistero che perse progressivamente credibilità in ampi spazi della società credente.
Ma questo si combina anche con altri limiti o ritardi della Chiesa e della sua dirigenza magisteriale e canonica, che non seppe sciogliere i nodi “a monte”, direi dirimenti: essere, come Chiesa, un potere sociale fra poteri sociali, oppure essere un pugno di lievito nella grande pasta sociale? Accettare di essere minoranza che con il proprio quotidiano esempio “attrae” i lontani, oppure puntare sempre sui metri e i pesi, sulle dimensioni che fanno forza, o illudono di fare forza? E’ chiaro che i vescovi sardi furono leali, pienamente leali, con il Concilio, se ne fecero attraversare dallo spirito riformatore, ma pure è indubbio che l’imprinting di cui parlavo prima ha frenato, ha scontentato e disamorato, non ha raccontato profezia.
8) Era la domanda che volevo porre: quale fu l’atteggiamento di monsignor Carta verso la politica? Collateralismo o distinzione?
Cabizzosu. Monsignor Paolo Carta, a mio avviso, non fu mai un sacerdote “politicante”: da un lato capiva l’importanza del servizio in politica di esponenti del mondo cattolico (e tra i suoi giovani coltivò ed incoraggiò sempre i migliori ad intraprendere questa via dopo debita preparazione), dall’altra personalmente sentiva aliena da sé la militanza politica. Non viveva nell’iperuranio e come sacerdote seguiva le direttive della Santa Sede e della CEI sull’argomento: fu anticomunista negli anni caldi del muro contro muro e mise in pratica il collateralismo con la Democrazia Cristiana come la totalità dei vescovi italiani. In lui era prevalente l’aspetto del “Pastore” non del politico.
Murtas. Mi sono già espresso su questo punto. Monsignor Carta replicò nei suoi interventi il modello episcopale italiano e sardo del suo tempo, forse con qualche freno più che altri. Sui rapporti con i democristiani c’è qualche bella e gustosa pagina di testimonianza personale di don Salvatore Fiori… Mi riferisco in particolare al memoriale “La fatica di vivere”. E si sa quanto difficili siano stati i rapporti fra i due tanto più con riferimento alla questione del celibato sacerdotale: forse c’è chi ricorda anche le lettere provocatorie pubblicate da don Fiori su “Sassari Sera”…
9) Con quale spirito partecipò, lui tradizionalista, al Concilio Vaticano II indetto da papa Giovanni XXIII che poteva anche innovare lo stile pastorale e, prima ancora, la ecclesiologia cui egli era stato formato nella scuola del seminario di Cuglieri e negli stessi uffici ecclesiastici via via ricoperti?
Cabizzosu. Correggo l’espressione: don Paolo non era “tradizionalista” nel senso che noi oggi intendiamo. Durante il Concilio non fece mai parte del Coetus Internationalis Patrum, che raccoglieva un folto gruppo di vescovi contrari alla riforma. L’ecclesiologia che egli incarnò nelle diverse stagioni della sua vita è più vicina al “Patto delle Catacombe” (testo con cui un numero crescente di Padri Conciliari si impegnava, all’indomani della chiusura del Concilio, a porre in atto importanti aspetti della riforma conciliare). Paolo Carta precedette diversi aspetti dell’ecclesiologia conciliare e, nei trent’anni di magistero dopo la chiusura del Concilio, la insegnò nella vita e nella parola.
Murtas. Ci sono pagine importanti di don Cabizzosu sul punto e a quelle rimando. Direi che lo spirito con cui l’arcivescovo affrontò la fatica conciliare fu sempre, dall’inizio alla fine, positivo, mai di riserva. Intuiva il sentire del papa – di Giovanni XXIII all’inizio (il papa che lo volle a Sassari nel 1962, dopo la morte di monsignor Saba), di Paolo VI, dell’amatissimo Paolo VI poi – e di esso si nutriva. Non sembrava mai mosso, monsignor Carta, da un’ansia critica ma neppure dialettica: la cultura in specie teologica e la vasta esperienza di vita e pastorale dei vescovi di mezzo mondo che gli occorse di incontrare e con cui familiarizzare nelle quattro sessioni conciliari lo ebbero, se così posso dire, umile allievo, da esse fu conquistato. Se ne ha traccia evidente nella cinquantina, poco meno, di lettere che dal Concilio inviò ai suoi diocesani e che furono pubblicate dal settimanale “Libertà”.
10) E nel concreto, quale contributo poté dare all’assemblea dei vescovi riuniti in San Pietro in quei quattro anni conciliari?
Cabizzosu. Nel 2014 ho pubblicato tutti i suoi interventi al Vaticano II. Egli non prese mai la parola in aula, ma fece pervenire il suo pensiero per iscritto alla Segreteria Generale. I “Vota” (redatti dal gesuita Riccardo Lombardi e fatti propri) contengono un ricco ventaglio di questioni meritevoli di essere trattate nel futuro Concilio; gli scritti personali riguardano la pastorale del turismo, la promozione delle vocazioni adulte, il rapporto della Chiesa con il comunismo, il matrimonio cristiano.
Murtas. Dovrei rimandare, anche su questo punto, ai saggi del professor Cabizzosu, ai due suoi volumi “I vescovi sardi al Concilio Vaticano II”, distinti per “Fonti” e per “Protagonisti”. Un lavoro articolato, composito, ma soprattutto prezioso, 600 pagine belle piene… Per associazione di idee adesso vado a “I vescovi sardi al Concilio Vaticano I”, di Ottorino Pietro Alberti, uno studio importante pubblicato nel 1963 dalla Lateranense. Allora i presuli sardi erano tre soltanto, due superallineati a Pio IX, il terzo piuttosto… liberale, il Montixi di Iglesias, che non partecipò alla votazione del dogma infallibilista.
Cabizzosu ha raccolto in schede molto ben fatte sia i profili personali che le attività d’aula o commissione dei nostri vescovi. Ha incluso nel novero anche quei padri conciliari che con la Sardegna non avevano ancora un rapporto e lo avrebbero avuto dopo, come ad esempio, per limitarci a Cagliari, il cardinale Baggio, gli arcivescovi Bonfiglioli e Canestri… Ha incluso 21 presuli, e fra essi anche quelli – come Mazzotti o Saba di Sassari – che poterono conoscere soltanto la fase antepreparatoria dell’evento… Ci sono tutti, quasi tutti, anche il missionario Pietro Maleddu… manca invece Angelo Palmas, originario di Villanova Monteleone, che partecipò all’ultima sessione, perché Paolo VI lo elevò all’episcopato per le funzioni di nunzio apostolico in Vietnam, negli anni della guerra. Sto raccogliendo notizie biografiche, mi piacerebbe scriverne, dare onore a questo presule diplomatico sardo.
11) Centrale nella spiritualità di monsignor Carta fu il rapporto personale costruito nel tempo con padre Pio da Pietrelcina che frequentò quando era vescovo di Foggia, bypassando il vescovo di Manfredonia piuttosto ostile a padre Pio. Come si sviluppò quella relazione e come egli riuscì a portare il carisma del santo cappuccino in Sardegna?
Cabizzosu. Monsignor Carta non aveva giurisdizione su P. Pio; San Giovanni Rotondo dipendeva appunto dall’arcidiocesi di Manfredonia. I rapporti fra i due furono numerosi e cordiali: monsignor Carta fu l’unico vescovo italiano ad essere presente durante la consacrazione della prima basilica nel 1959, consacrata dal cardinale Giacomo Lercaro; era presente all’inaugurazione del complesso ospedaliero di San Giovanni Rotondo. La santità del cappuccino non fu da lui mai messa in questione: fu un suo ammiratore quand’era in Puglia e ancor di più in Sardegna. Fu testimone al suo Processo di Beatificazione. Monsignor Carta fu uno tra più autorevoli divulgatori della santità del frate cappuccino, con gli scritti e con la parola.
Murtas. Ne ho già accennato: la pastorale della salute, o chiamala della malattia, fu nelle corde speciali dell’arcivescovo che, umile com’era, mise sempre il suo carisma episcopale nel cono d’ombra, o di luce, del carisma di padre Pio. C’è fortunatamente molta letteratura su questo, documentazione anche fotografica del rapporto fra i due, tanto più in relazione all’ospedale della Casa Sollievo della sofferenza e alla sua inaugurazione. Sembra banale dirlo, ma è la realtà cento volte certificata: don Paolo Carta serdianese, vescovo cattolico, aveva il gusto della santità, di quella santità come portato di vita di infinite personalità registrate nella storia per pietà eccellente e fatti prodigiosi, e di cui infiorava molte volte, don Paolo, le sue omelie. Ma la santità di padre Pio l’aveva lì, la vedeva, la toccava, respirava la sua stessa aria. La santità mistica del cappuccino campano, o campano-pugliese, italiano del sud d’Italia come mi piace sentirlo, cullava la fede bambina, nobile e alta, dell’arcivescovo padre conciliare.
Dovrei anche aggiungere che traccia importante del suo rapporto oserei dire “filiale” con padre Pio è in diversi opuscoli stampati dallo stesso monsignore: “I miei incontri con Padre Pio”, uscito in due edizioni nel 1977 e nel 1979, e “La mia testimonianza per Padre Pio”, più corposo, uscito anch’esso nel 1979 con un gradevole accompagnamento fotografico. S’è prima accennato a Dante, a Dante onorato dal Concilio nel settimo centenario della nascita e del battesimo, e di cui don Paolo scrive in una delle lettere conciliari a “Libertà”. Ma a Dante – al Dante che ritrae il “beato Regno” con il celebre verso “Che solo amore e luce ha per confine” – ricorre anche in fine del primo opuscolo cui mi sono riferito, là dove scrive: “Vivo infatti nella gioiosa speranza che, alle soglie dell’eternità, tre care anime mi verranno incontro e mi accoglieranno: la mia Mamma, Mons. Piovella e P. Pio. E saranno loro a introdurmi in quel beato Regno”. La madre morì, molto anziana, negli anni dell’episcopato sassarese; a monsignor Piovella dedicò diverse omelie, una particolarmente importante in occasione della tumulazione presso la cappella della Sacra Spina nella primaziale di Santa Maria a Cagliari. Ne riportò larghi stralci don Edoardo Lobina nel suo libro “Mons. Ernesto Maria Piovella” del 1969.
12) Monsignor Carta, dopo la rinuncia alla guida della diocesi di Sassari, nel 1982, avendo compiuto i 75 anni, tornò a Cagliari e qui rimase fino alla morte nel 1996. Quali attività svolse prevalentemente da vescovo emerito di Sassari, e quali rapporti continuò a tenere, in questi tre lustri circa, anche con gli ambienti militari della sua giovinezza e prima maturità e con la sua vecchia diocesi pugliese?
Cabizzosu. Libero da impegni di responsabilità diretta, monsignor Carta visse gli ultimi quattordici anni della sua vita con energia ed entusiasmo. Accolto dalle suore di p. Manzella in via Cogoni a Cagliari, si dedicò alla preghiera, alla riflessione, alla direzione spirituale, alla predicazione. La fedele segretaria suor Maria Melis mi ha fatto dono del suo archivio di questi anni: lasciato centinaia di prediche fatte in tutta l’isola manoscritte con una calligrafia elegante, raffinata. Dalle sue agende nell’arco di tempo che va dal 1982 al 1996 ho appreso che ha fatto un numero impressionante di discorsi su tematiche prevalentemente di natura spirituale e pastorale. Questo materiale meriterebbe la pubblicazione: contribuirebbe a mettere in evidenza la sua ricca spiritualità e vita interiore. Nel libro ne abbiamo potuto pubblicare mi pare una ventina, compresa una omelia tenuta a Foggia per la Madonna dei sette veli.
Murtas. Don Cabizzosu ben più di me, anche per la prossimità fisica di lunghi anni fra la direzione dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari e l’abitazione dell’arcivescovo, nonché per le carte ricevute in magnifico dono da suor Melis, conosce il dettaglio. Direi che i rapporti che ho avuto con lui, li ho avuti soprattutto, non esclusivamente, negli anni successivi al suo congedo dal servizio attivo di ordinario diocesano. Si è messo a disposizione di tutti, monsignore, dopo quel 1982, dopo anche aver dato in concessione per trent’anni ai frati minori osservanti della Sardegna la villa di S’Aspru, per le necessità della seconda comunità “di vita” di padre Salvatore Morittu. Era presente nei gruppi di preghiera da lui promossi, era presente nelle parrocchie, era presente per le messe e per le confessioni e le predicazioni. Ha girato tutta la Sardegna, è tornato anche a Foggia… ha rinsaldato rapporti allentati nel tempo, per necessità di cose, anche con il mondo militare, nelle date di memoria patriottica ma non solo. Le occasioni, in quei quasi tre lustri che vanno dal 1982 al 1996, furono veramente decine e decine… Inoltre ha dato una mano per le cresime qua e là, alleggerendo il peso dei suoi colleghi Bonfiglioli, Tiddia, Canestri, Alberti… quanti arcivescovi e/o ausiliari erano in carica cioè, uno dopo l’altro, in quel quindicennio circa… Un servizio di generosità anche quello, perché non deve dimenticarsi che l’uomo allora si portava dietro i 75, 80 od 85 anni…
Brevi focus mi permetterei di suggerire, riferiti a questa ultima stagione di vita, alla testimonianza che volle rendere, nell’autunno 1982, a monsignor Antonio Tedde, scomparso nell’agosto di quell’anno. La pubblicò “Confronto” a direzione Angelo Pittau. Qui stesso egli pubblicò lo scambio di corrispondenza che alla fine del 1983 ebbe con Graziano Mesina, allora detenuto a Porto Azzurro, da lui cresimato nel 1964 nelle carceri di Sassari.
13) In conclusione, quali tracce può dirsi abbia lasciato monsignor Carta nella Chiesa sarda? Quale memoria se ne coltiva? Come pensate entrambi egli avrebbe desiderato essere ricordato nel tempo?
Cabizzosu. È troppo presto per storicizzare una figura a noi contemporanea. Quando verranno pubblicate le fonti (penso alle Visite ad limina, alla relazioni sulle Visite Pastorali, alle lettere Pastorali, ai verbali della Conferenza Episcopale Sarda, alle centinaia di lettere occasionali pubblicate sul settimanale turritano “Libertà”, alle prediche inedite) solo allora si potrà parlare con autorevolezza di quale sia l’eredità lasciata da lui alla Chiesa e alla società sarda. Una cosa è certa: per molti Paolo Carta fu un Pastore buono, umano, misericordioso. Il suo ricordo è in benedizione presso molti che lo conobbero.
Murtas. Tempo al tempo. Non credo verranno, in futuro, notizie particolari, relative alla riflessione o produzione dottrinale di monsignor Carta. E invece potranno venire testimonianze importanti, tutte di conferma, della sua umanità, di lui come direttore spirituale, come amico-padre. Anzi sarebbe bello che qualcuno dei tanti che lo hanno frequentato assiduamente potesse farsi parte diligente in questo senso, raccoglitore di testimonianze personali, familiari, di comunità. E’ già trascorso quasi un quarto di secolo dalla sua scomparsa, la sua generazione ora non c’è più e anche quella successiva sta esaurendosi. Non ci sarà qualcuno a Sassari, a Serdiana, a Cagliari, nei gruppi e nelle parrocchie che possa dire di lui quanto ancora non sappiamo?
Direi, in proposito, due altre cose. La prima: monsignor Carta non ha scritto libroni, ma ha comunque scritto e scritto molto: nello stesso nostro volume don Cabizzosu ha giustamente voluto inserire i testi di numerose omelie, ma il materiale è dieci volte superiore a quello ora presentato. Ricorderei anche la quantità di opuscoli o libretti dati via via alle stampe: oltre che sul rapporto con padre Pio da Pietrelcina, sull’apostolato del vincenziano signor Giovanni Battista Manzella: l’opuscolo del 1987 è il compendio della megabiografia stesa e pubblicata in più edizioni da padre Antonio Sategna… Giusto alla vigilia di lasciare Sassari e subito dopo don Paolo mandò in tipografia “Il cuore di Cristo nostra speranza” e “Virtù evangeliche alla luce di Gesù Nazareno”. In due edizioni, nel 1979, era uscito “Gesù amico divino”, oltre duecento pagine con le meditazioni dettate a Lourdes… e naturalmente altro ancora.
La seconda cosa che si raccorda con quanto detto sopra ha riferimento a monsignor Saba, cui dedicò un bell’opuscolo ancora nel 1979: “Ricordo di monsignor Agostino Saba”, con una dedica manoscritta alla “diletta Serdiana” patria comune con il suo predecessore. Si tratta di una pubblicazione che porta le omelie-testimonianze di monsignor Basoli e di monsignor Bonfiglioli, la commemorazione pubblicata sulla “Nuova” da Remo Branca, e quella portata alla radio da Nicola Valle. Di monsignor Carta è la rievocazione dell’uomo Saba, del professore, dello scrittore, del pastore, rievocazione fatta in occasione della traslazione della salma da Sassari a Serdiana, e collocata giusto di fronte alla tomba che fece preparare anche per sé nella parrocchiale del SS. Salvatore.
Io continuo ad associare i nomi dei due presuli cui dedicai anni fa, era il 2003, un inserto de “La Gazzetta del Medio Campidano”, un giornale che raggiungeva, da Guspini e Villacidro, anche la piana di Dolianova e Serdiana…
14) Quali reazioni ha avuto il vostro libro in generale, e in particolare nella diocesi di Sassari?
Cabizzosu. Io non ho elementi per rispondere a questa domanda: bisognerebbe rivolgerla al clero e al laicato sassarese.
Murtas. Non ho notizie particolari. Ho visto che il giornale diocesano “Libertà” ha pubblicato una recensione apparsa anche in altri periodici. Sono usciti commenti, oltre che in “Libertà”, anche in “Dialogo” e, da autori diversi, “Voce del Logudoro”, testata diocesana di Ozieri. L’emergenza sanitaria che ci obbliga all’isolamento personale ovviamente non ha favorito… ma credo sarebbe un’occasione persa se non ci si riaccostasse, grazie al libro, alla memoria di don Paolo Carta e alla sua testimonianza di vita. Mi piacerebbe molto se a Serdiana si costituisse un qualche ente di studio a lui intitolato, anzi intitolato agli arcivescovi Saba e Carta compaesani illustri. Don Tonino Cabizzosu, che tanto prestigio ha dato all’Archivio Storico Diocesano di Cagliari negli anni degli episcopati Alberti e Mani ed è storico di prima classe accreditato nei circuiti accademici nazionali, ne sarebbe l’ideale regista – secondo me – insieme con don Mario Cugusi, parroco attuale di Serdiana.
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