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Gianfranco Murtas

Paolo Fadda, patriarca 90. Al compleanno del manager e scrittore cagliaritano “amico dei potenti”

di Gianfranco Murtas

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Paolo Fadda commendatore della Repubblica, domani al suo novantesimo compleanno, è molte cose nella vita della società sarda, e cagliaritana in specie, ed è molte cose anche per me che lo stimo moltissimo e gli sono legato da un’affezione pure essa trasversale nelle ragioni che, nel tempo, l’hanno plasmata e resa feconda. 

Per fatto personale

Inizio da quest’ultima, per liquidarla ed andare al generale diffondendomi su di esso. La conoscenza è piuttosto remota e passa per i libri prima che per la persona: era presidente della SAIA, il commendatore, nei primissimi anni ’80, quando la società – allora interessata ad un ampio ed articolato piano di recupero di Stampace alto – pubblicò, con la milanese Electa, i primi due volumi “cagliaritani” di Antonio Romagnino: Cagliari, Marina: memorie ed immagini per un recupero del vecchio quartiere (1981) e Cagliari, Castello: passato e presente di un centro storico (1982). Libri fuori commercio che, pur essendo in confidenza con lui, non osavo chiedere all’autore, al professore cioè, e che mi risolsi invece a chiedere allo sponsor dell’operazione editoriale. Forse fu allora, a palazzo Tirso – dove, nello stesso piano nobile, avrei poi lavorato anch’io da quello stesso 1982 e per un quarto di secolo circa (fin dopo gli sgradevoli acquisti napoletani del SanPaolo e prima dei più educati acquisti torinesi di Banca Intesa) – che ci incontrammo, il giovane ed il commendatore: ognuno già conoscitore dell’altro per il tanto da essi scritto, allora soltanto sui giornali e quotidiani e periodici – di gran livello evidentemente il suo, assai più modesto ma pure ambizioso (anche per la versione televisiva) il mio -, e con amici da condividere nella politica, maggioritaria democristiana la sua e minoritaria repubblicana la mia, e anche nel mondo ecclesiale. Quel mondo che trent’anni dopo ci avrebbe portato a difendere – con ripetute (e infine vincenti) istanze alla Santa Sede – l’archidiocesi, e i deboli dell’archidiocesi, dal governo canonico e chiamalo pastorale di un vescovo autoritario e non amato in larghi suoi settori.


Nel mezzo, nel cuore di questi quarant’anni tante vicende vissute, per quanto possibile, con tratti di condivisione importanti, con recensioni incrociate dei lavori ora dell’uno ora dell’altro (magari sull’Almanacco, o su Chorus, o in internet), con tribune pubbliche condivise, ora nella casa massonica di piazza Indipendenza (per lumeggiare la figura di Felice Mathieu nella Cagliari bacareddiana) ora nel teatro di Sant’Eulalia (per ripassare la storia del quartiere della Marina e le benemerenze secolari della Congregazione del SS. Sacramento)… E ancora con una collaborazione, la mia, a Sardegna Economica, il periodico della Camera di Commercio di Cagliari che la direzione di Paolo Fadda aveva reso, da subito e poi nell’arco di tre lustri, una rivista di altissima qualità e prestigio riconosciuto negli ambienti universitari così come in quelli imprenditoriali e politici.    

In ultimo ci è stata data la possibilità di concorrere entrambi, con contributi per certi versi convergenti, a due volumi collettanei: nel 2006, sotto regia rotariana, a Ritrovarsi nel Largo. Storia e progetti per Cagliari che si rinnova, nel 2014 a Un secolo con don Bosco a Cagliari. Cento anni di cammino insieme. Ma già nel 1996 – dovrei ricordare anche questo, riferendo di libri – potemmo affacciarci insieme in Enrico Serpieri: vita e idee di un imprenditore, inclusivo degli atti (a cura di Paolo Matta) del convegno svoltosi nel dicembre dell’anno precedente, con quel titolo nel salone camerale. Con noi furono allora Lorenzo Del Piano e Maria Dolores Dessì, ospite il presidente Mambrini.


D’altra parte al filone tematico dell’imprenditoria isolana fra Otto e Novecento, in uno al contiguo bacareddiano della Cagliari en marche ed all’altro, invero più autonomo, della condizione ecclesiale sarda tanto più nel XX secolo e alle soglie del XXI, riferendosi ai maggiori interessi di entrambi, le strade dei ricercatori dovevano potersi incrociare. E se è vero che misi a disposizione di Paolo Fadda un certo materiale asproniano che poteva essere utile alla biografia che egli allora andava stendendo, con documenti di prima mano e brillantissima scrittura, di Giovanni Antonio Sanna – l’uomo di Montevecchio per l’edizione appunto di L’uomo di Montevecchio –, è non meno vero che a Paolo Fadda io ho fatto, e ancora faccio ricorso spessissimo per una dritta, una notizia, una interpretazione… nelle fatiche di ricerca su una contemporaneità che sembra essersi già fatta storia. Così, oltre che per lo stesso profilo ideologico di Giovanni Antonio Sanna in vista di un certo convegno sassarese, per l’Arborea bonificata e “lavorata” da Stanislao e Dionigi Scano (nonno e prozio del commendatore), così anche circa le vicende del policlinico Lay passato dal dr. Efisio alla Famiglia salesiana (e da questa girato poi al dr. Paolo Ragazzo), così ancora sulle materie le più varie (dall’Infanzia lieta, in quel tempo – anni ’30 – in via Maddalena e “liberatasi” di una direttrice ebrea, alla società metallurgica Bernard Gioda Martinazzo ed al suo stabilimento del viale Bonaria, da certi assetti di vertice dell’Ente Flumendosa al gazogeno affidato alla triestina Sospizio con direzione Marchioni, da certi passaggi nello sviluppo nella città di Sassari de L’Unione Sarda allora all’esordio della direzione di Fabio Maria Crivelli, e con collaboratori come Manlio Brigaglia e il giovanissimo Vindice Ribichesu, ad altre questioni riguardanti gli interessi sardi della Bastogi, o certe famiglie sardo-cagliaritane, come i Salazar, gli Asproni, i Pernis…).

Fra politica e religione

Forse eravamo nel 1997 quando parlammo a lungo di una sua idea che voleva diventare progetto. Insoddisfatto di entrambi i poli costituitisi attorno a Prodi (l’Ulivo) e a Berlusconi (l’ammasso… direi io, delle libertà, con tutte le sue sgradevolezze iperpadane), Paolo Fadda da ex moroteo che però mi sembrò allora – e comunque potrei sbagliare – più vicino a un Beppe Pisanu (finito in Forza Italia) che a un Pietrino Soddu (saldo nelle posizioni avanzate), pensò a un nuovo soggetto pubblico, maggiormente impegnato sul versante culturale che non su quello politico in senso stretto, aggregante cristiani di matrice democristiana e altri di anima piuttosto liberale o liberaldemocratica. Me ne parlò, il suo riferimento nazionale era Cossiga, da pochi anni fuori dai vincoli del Quirinale (dove le responsabilità apicali erano ormai di Oscar Luigi Scalfaro, fortemente, e santamente, ostile a Berlusconi e alla sua deriva valoriale): anch’egli, Cossiga, nel suo pianeta romano, scontento della dialettica politico-parlamentare e governativa fra quella certa destra e quella certa sinistra, pare fosse interessato allora ad immettere qualche novità sulla scena. 

Bisognerebbe ricordare: dopo il primo e (fortunatamente) breve governo Berlusconi era venuto l’esecutivo tecnico di Dini, appoggiato dal PDS e dalla Lega (la Lega di Bossi che in quel tempo aveva scorto nel Cavaliere né più né meno che uno compromesso con la mafia del riciclaggio); le nuove elezioni avevano lanciato, nel 1996, Prodi e il suo Ulivo segnato dalle troppe e conflittuali anime, così fino al ritiro dell’appoggio di Rifondazione Comunista. Il sistema bipolare e maggioritario che avrebbe dovuto superare la paralisi determinatasi per i casi di Tangentopoli mostrava esso stesso, così già da subito, il fiato corto con crescente discredito anche istituzionale e crescente estraneazione di tanta parte della società civile dalla società politica. Il modello cui, in Sardegna, aveva pensato Paolo Fadda teneva conto proprio di queste difficoltà cercando di individuare nella composita area di centro a prevalente presenza cattolica (per valori, cultura ed esperienza) la nuova carta da giocare nel complicato gioco politico nazionale.

Dall’osservatorio regionale, che poteva evolvere in laboratorio, e laboratorio perfino più che regionale, Fadda aveva creduto, con generosità, di scorgere risorse positive attivabili, che alcuni eventi, peraltro, in breve tempo rivelarono o indisponibili o comunque diffidenti e critiche. Il contrasto che aveva opposto, a Cagliari e riguardo alle suore di Madre Teresa allogate al Sepolcro con la loro mensa sociale, il parroco di Sant’Eulalia don Mario Cugusi a taluni “chierici fondamentalisti” – fu una definizione che correva, per il bene e per il male –, una certa distanziata autonomia che intellettuali del valore di Bachisio Bandinu mostrarono di voler preservare nei confronti della gerarchia ecclesiastica – i nessi con le linee del Concilio Plenario Sardo restarono infatti sempre imprecisi o indefiniti –, le strategie che l’arcivescovo Ottorino Pietro Alberti prospettava con la sua "scuola di fede e di coscienza politica" aperta da diversi anni e piuttosto refrattaria a farsi altro che accademia ecclesiale, queste e altre circostanze misero presto in crisi l’idea-progetto, almeno in sede locale.  

D’altra parte bisognerebbe anche ricordare che, nello stesso contesto temporale, quell’idea-progetto pagava un prezzo decisivo all’iniziativa assunta proprio da Francesco Cossiga (dimessosi a suo tempo dalla DC e critico circa una rinnovata unità politica dei cattolici) in chiave di tattico salvamento del centro-sinistra che passava allora a sostenere, poggiandosi sui DS ex-PDS, la presidenza D’Alema. Ciò avveniva promuovendo un raggruppamento parlamentare detto dell’UDR (Unione Democratica per la Repubblica) in cui il presidente emerito aveva coinvolto anche Armando Corona, ex gran maestro della Massoneria di palazzo Giustiniani. L’anima cattolica (di segno liberale) cossighiana – invero appesantita da convergenze o confluenze integriste ex Buttiglione o clientelari ex Mastella, e da altre di radice forzista e addirittura di destra già missina) – cercava di farsi attrattiva di forze minoritarie di trascorsi liberali (De Luca), socialdemocratici (Enrico Ferri) e repubblicani (appunto Corona), in verità centrifugando energie, intelligenze ed esperienze che assai difficilmente avrebbero potuto, con chiara credibilità, assicurare il raggiungimento dell’obiettivo. Come infatti la storia avrebbe dimostrato.


Certo in Paolo Fadda restava vivissimo l’interesse a non rinunciare alla responsabilità di una posizione dichiarata, ma ciò sarebbe avvenuto, da lì in poi, tutto sul piano culturale. Ad iniziare dalla rilettura critica dell’intera esperienza politica dei cattolici, così in sede regionale come evidentemente in sede e con precisi riferimenti nazionali («dal montinismo della FUCI al dossettismo di parte della DC»): una riflessione certamente già in cantiere ma di cui egli si riservava l’offerta al giudizio pubblico in «tempi più sereni e riposati». Sarebbe venuto, quel momento, nel 2008 ed avrebbe accolto C’era una volta in Sardegna la DC: tesi per una storia critica della democrazia cristiana sarda: le quattro stagioni del biancofiore (GIA editrice). 

L’argomento sarebbe ritornato, balzando da quel pamphlet (che in verità era più un saggio che un pamphlet, ancorché “guadato” da tutte le soggettive letture dell’autore coprotagonista delle vicende all’esame), in L’amico di uomini potenti, il racconto di mezzo secolo di storia sarda (e non solo) attraverso i suoi protagonisti, dato alle stampe nel 2016 per gli ottimi tipi di Delfino editore, e in cui, in forma ancora più esplicita, l’autore si fa comprimario, interlocutore diretto ed immediato dei “potenti”, da Moro a Cossiga.

Confrontandosi con Fabio Maria Crivelli

Mi sembra particolarmente significativo, a tal riguardo, quanto si riferisce degli incontri con Fabio Maria Crivelli e delle opinioni dello storico direttore de L’Unione Sarda, considerato, ben a ragione, «attento osservatore ed interprete delle vicende politiche isolane». L’io (o il lui) narrante che si presenta come il resocontista delle confidenze di “Paolo”, tanto più in ordine alla «degenerazione dell’assetto politico regionale», negli anni fra ’60 e ’70 e ancor più, forse, verso la metà degli anni ’80 (coincidenti con il ritorno di Crivelli, per un biennio circa, alla testa del quotidiano di Terrapieno), ed al «palese declino del comparto produttivo». Scrive il Fadda narrante: «il parere di Crivelli s'incentrava proprio su quella perdita d'unità in quel partito che era stato per anni l'asse portante della politica sarda. Cinque o sei anni fa – diceva – la classe politica s'impegnava per la creazione d'un cantiere navale o per l'apertura d'un nuovo stabilimento industriale, mentre oggi parla e si divide sull'alleanza con Armandino Corona, con Mario Melis o con Umberto Cardia per varare una nuova giunta, ed anche l'impegno per l'industrializzazione lo si è ridotto ad una cruenta contesa fra i supporters di Girotti dell'Eni, quelli pro Cefis e Montedison ed i "siriani" di Rovelli. Dove la posta in palio non sarebbe – aggiungeva, sconsolato – il successo di quell'industria, ma i favori riscuotibili dal vincitore».

E ancora, adesso riferendosi alla persona di “f.m.c.” ed al più in discussione o in trattativa negli anni dell’attuazione, sempre conflittuale ma pur tuttavia capace di risultati, del Piano di Rinascita: «Crivelli, nel ricordo di Paolo, era un Giornalista ed un Direttore con la sua bella iniziale maiuscola (fatto, questo, non molto consueto nella categoria), e – soprattutto – un galantuomo, nel senso più ampio che si possa dare a questo termine. Mai fazioso, ma sempre rispettoso della verità dei fatti, avrebbe guidato "L'Unione Sarda" con grande equilibrio in anni importanti per la storia isolana, realizzando soprattutto un giornale moderno, attento interprete della società locale ed aperto alle nuove istanze dettate dall'emancipazione culturale e sociale allora in atto. Seppure guardato con sospetto dagli ambienti più estremi della sinistra per via di suoi pretesi eccessi filo-governativi (c'è chi ne avrebbe modificato il nome in Fabio Maxia Crivelli, per via della sua amicizia con quell'esponente democristiano), dette al suo giornale una linea informativa indipendente, lontano da ogni eccesso e da ogni piaggeria di comodo.

«Discorrere con lui nel piccolo studio in cima al corridoio della redazione, allora nel viale Terrapieno, era una ghiotta occasione per analizzare vicende e uomini della politica e dell'economia o per fare il punto su certi fatti accaduti. Non era certamente filo-democristiano, ma fra i democristiani aveva diversi amici, scelti – come amava dire – fra chi amava leggere libri ed ascoltare buona musica e non fra chi andava freneticamente alla ricerca di tessere e di potere. Ed è per questo che a Paolo interessava molto scambiare con lui delle opinioni, per meglio capire le tante incongruenze di un partito dove (era questa l'analisi di Crivelli) le opinioni di due leader dorotei come Raffaele Garzia e Lucio Abis apparivano mille miglia distanti da quelle dei morotei di Sassari e dei forzanovisti di Nuoro.

«Era questo quel che si percepiva all'esterno ed il parere di un osservatore come il direttore del maggior giornale dell'isola non poteva che essere importante». Sarebbe occorso – ecco qui la riflessione critica e autocritica di “Paolo” raccolta dall’io (o il lui) narrante – «mettere un freno a quell'involuzione-frantumazione, rifondando quell'entusiasmo riformistico che aveva animato il partito negli anni "della Rinascita". Purtroppo, le diverse élite della DC s'erano chiuse nelle loro cittadelle fortificate ed apparivano sorde di fronte ad ogni richiamo e ad ogni appello».

Illuminante, al riguardo, la testimonianza del coprotagonista/comprimario: «Per cercare una via d'uscita a quell'incalzante declino, nell'aprile del 1979 c'eravamo riuniti un centinaio e passa di amici per guardarci negli occhi e per trovare motivazioni e volontà per ridare fiato, partendo proprio da Cagliari, ad un'iniziativa politica rigenerante. Dissi allora che sarebbe stato necessario recuperare, con una rinnovata azione politica, quanto perduto o trascurato, nel campo del lavoro, della scuola, dell'impresa e dei saperi professionali. Ero convinto che, per ritrovare la strada dello sviluppo, fosse urgente ed indispensabile attuare un radicale processo di revisione politica: non basta – precisai – attizzare la rabbia operaia per salvare processi produttivi che hanno sentito troppo presto il peso degli anni e delle insufficienze di progettazione; non è più sufficiente attivare "vertenze e scioperi generali" per correggere un processo di sviluppo che appare, nel contesto generale dell'economia, fuori schema; non vale più gridare slogan ritriti come "vogliamo un nuovo modello di sviluppo" senza saper dire come individuarlo e realizzarlo; non pagano più, ancora, gli atteggiamenti "conservatori" di un certo partito e di un certo sindacato che s'arroccano in difesa, incendiando la rabbia operaia, di situazioni divenute chiaramente indifendibili e dal default segnato.

«Per questo occorrerebbe mettersi insieme, eliminando divisioni e rivalità, per ridare sostanza e strumenti ad un processo di crescita e di sviluppo. Per questo bisognerebbe rielaborare una proposta politica che ci faccia riavvicinare alla nostra gente, ai molti che ci vogliono ancora bene, e che ci chiedono un domani migliore; che ci ridia ancora delle idealità e che ci liberi dalle strettoie delle alleanze difficili e dal tormento di scelte subite e travagliate. Che, infine, ponga termine ad un riflusso che rischia di far scomparire il nostro partito e di consegnare l'isola e la sua gente a chi, fino ad ora, ha remato contro il progresso, la libertà e l'autonomia.

«Furono anche queste parole al vento, inutili e lasciate cadere da un establishment politico che rifuggiva dai dibattiti nelle sedi ufficiali del partito e che prediligeva frequentare le hall dei grandi alberghi…».

La cronaca fattasi ormai storia dice che proprio all’indomani di quelle “prediche inutili” la DC perse per alcuni anni – neppure pochi – la guida della Regione: affidata, nella ottava legislatura, la presidenza del Consiglio regionale al repubblicano Armando Corona e poi al socialdemocratico Alessandro Ghinami, la presidenza della giunta passò per un biennio, dopo che a Ghinami, al socialista Franco Rais e dall’estate 1984 per un lustro intero (la nona legislatura regionale) al sardista Mario Melis, a capo di una giunta di sinistra; e al ritorno della formula di centro-sinistra la presidenza sarebbe andata in mano, per quasi altri tre anni, al socialista Antonello Cabras; e ancora dal 1994, nel quadro della nuova legge maggioritaria, al progressista Federico Palomba… I democristiani uscirono di scena umiliati e se tornarono, e quando tornarono, riciclati in partiti e partitini senza gloria, lo furono per il più nell’aggregato del centro-destra pagano, mischiati ai cosiddetti riformatori (patente datasi da sé) o addirittura intruppati nel nulla valoriale di Forza Italia. 

Ancora sulla DC e l’universo mondo, discutendone con Montanelli

Certamente in Paolo Fadda, che come detto meglio aveva rappresentato, con Pinuccio Serra e il giovane Gian Mario Selis, la linea morotea nel Cagliaritano, la questione democristiana continuava a presentarsi con tutte le suggestioni e le sofferenze della parabola, e tanto più, infine, con l’avvilimento per un declino che avrebbe potuto non esserci solo che la spinta ideale che era stata di chi andava a messa e pregava prima di sedersi alla scrivania della Regione o del Municipio, o del Parlamento, fosse migrata, per virtuoso contagio, nei nuovi protagonisti dei congressi e delle gare elettorali, preventivo e consuntivo del servizio della politica alla società.

Confida “Paolo” al suo io (o lui) narrante di un incontro con Indro Montanelli in un resort sulla costa di Santa Margherita di Pula: «Sarà stata l'estate del 2000 o del 2001… gli chiesi ex abrupto di quella sua celeberrima affermazione di “turarsi il naso” prima di votare per il partito di De Gasperi e di Moro… La DC, caro Fadda, era l'unica forza politica disponibile per far fronte al pericolo comunista che ancora nel '76 incombeva sul nostro Paese. Si temeva, e non poco, che una vittoria del PCI ci avrebbe cooptato, obtorto collo, nella dittatura sovietica, che non era certo quella di Gorbaciov, ma quella di Breznev, oppressiva, illiberale ed armata sino ai denti. E per noi sarebbe stato fare la fine della Polonia o della Cecoslovacchia. In quel momento, a mio giudizio, non c'era altro da fare, anche perché, anni dopo, sarebbe stato proprio Enrico Berlinguer, cioè il numero uno del PCI, a dichiarare che si sentiva più sicuro sotto la protezione della Nato che delle minacciose armate del patto di Varsavia».

L’io (o lui) narrante: «Montanelli, d'altra parte, lo si sapeva molto critico su una certa DC di cui non tollerava certi atteggiamenti e certe posizioni, ma nessuno aveva mai dubitato del suo anticomunismo, incarnato, a suo dire, nella rigida e spietata dittatura d'un regime oppressivo ed ingiusto. Certo, di alcuni leader democristiani aveva anche stima, ma – a suo dire – erano minoranza in un partito che aveva fatto del "doroteismo", purtroppo, la sua prassi dominante. Dove il potere (di gruppo, di corrente, di persona) veniva prima del servizio allo Stato, alla comunità degli italiani.

«Ma se dovesse trovare dei meriti alla DC – gli avrebbe chiesto Paolo – cosa direbbe? La risposta fu, per dirla tutta, rapida e tranchant: la ricostruzione postbellica ed aver rifatto dell'Italia una grande nazione europea. Ma non è questo il massimo degli elogi?, gli avrebbe aggiunto. Certamente, fu la risposta, ma i nipoti ed i pronipoti di Alcide De Gasperi si sarebbero scordati troppo presto di questa lezione, portando il Paese verso una deriva sempre più stato-centrica, con un potere statuale ingordo ed invadente, che avrebbe sfornato anche panettoni e gelati e costruito automobili, barche e accumulatori.

«Vede, gli avrebbe ancora aggiunto, ho votato anche l'Ulivo di Prodi e D'Alema, perché ritenevo che contenesse più libertà e liberalismo di quel Polo che pure si richiamava alla libertà. Anche allora, però, ho votato per il meno peggio, o almeno per quella parte che mi sembrava meno pericolosa per il futuro del Paese. Che sia stato il meglio, certo non direi, ma a parer mio occorreva mettere un freno alla sete di potere d'un uomo potente e, se vogliamo, anche spregiudicato. Se poi mi chiede se ho una certa nostalgia della DC, e del suo tempo, trovo difficile darle una risposta perché l'imbarazzo, osservando quel che è diventata oggi la politica, è assai grande. Ma è certo che, proprio per quel che si vede in giro, una certa nostalgia può essere di casa. Anche a chi, come me, che, tra i democristiani, ha avuto stima e rispetto soltanto per De Gasperi e pochi altri».

Eccoli confrontarsi, Montanelli e il coprotagonista/comprimario della scena democristiana sarda di lunghi anni, che ora sembra essersi allontanato dalle sue radici morotee: «A Montanelli, Paolo avrebbe obiettato come il meticciato dell'Ulivo, o di quel raggruppamento in cui si sarebbe trasformato, avesse creato molte incongruenze ed altrettante confusioni. Fra gli elettori, innanzitutto. Proprio perché le radici formative dei suoi dirigenti (ex PCI ed ex DC) erano disomogenee e, per certi versi, anche contrapposte. Perché, gli domando, cosa si trova di simile fra Mastella, Fioroni e C. e, poniamo, Fassino, D 'Alema e C.?».

La risposta dell’ex editorialista del Corriere e fondatore-direttore de Il Giornale nuovo (anteBerlusconi politico) e de La Voce: «pur con tanti dubbi, debbo riconoscere che sono oggi il meglio possibile, quel che di meglio ci passa il convento dell'odierna politica nazionale. Che possano andare d'accordo, almeno sui temi più importanti, è anche possibile o, almeno, augurabile; che poi trovino sintonia con gli umori così bizzarri del nostro elettorato e, soprattutto, dell'apparato corporativo degli interessi di casta, ho più d'un dubbio, tanto da rischiare molto andando alle elezioni, con il pericolo di ridare il bandolo del governo “alla destra televisiva”».

Conclusione montanelliana: «… sin dai tempi della DC, i governi del Paese debbono tenere a bada non l'opposizione ufficiale, ma quella interna: è certamente un'anomalia fastidiosa e dannosa, ma durerà finché dureranno in Italia non solo delle regole imperfette avvolte da una giungla di cavilli, ma un costume politico bizantino, allergico alla chiarezza. Tanto che non possiamo che registrare delle quasi maggioranze, delle quasi crisi, delle quasi riforme. Con buona pace di tutti noi (e dell'Italia)».

Pendant di “Paolo” e dell’io (o lui) narrante: «come nella madeleine proustiana, sarebbero stati in molti ad augurarsi un ritorno della DC, magari con i suoi Prandini, Gava e Bisaglia, ma anche, e soprattutto, con i suoi Moro, Fanfani e Cossiga)»… 

Ma la Democrazia Cristiana s’era soffocata da sola. Verrebbe qui da infilare un altro giudizio di “Paolo” o del suo alter ego, circa la «dissoluzione» della DC sul continente e in Sicilia così come in Sardegna: «Una scomparsa provocata non certo (come pure s'è scritto) per via dello shock provocato dalla tragica morte di Aldo Moro o per la caduta del muro di Berlino e la fine dell'URSS, e neppure per via dell'impianto accusatorio degli Ayatollah della procura milanese. Perché la DC non ha avuto né un “25 luglio” con la rivolta dei suoi pretoriani e neppure una cocente sconfitta elettorale. Si sarebbe infatti dissolta… per volontà propria (e per via dei troppi “nani, criceti e omineddus” che erano saliti sul suo ponte di comando)».

Da Moro a Cossiga il lib-lab

Certamente è Francesco Cossiga, dopo la morte di Aldo Moro, il riferimento politico di Paolo Fadda. E L’amico di uomini potenti (titolo e protagonista) dedica infatti molte pagine sì a ricostruire il rapporto personale, ma anche e non di meno a focalizzare le ragioni di un certo (non sempre comprensibile, all’apparenza anche ondivago) comportamento del presidente emerito che era stato ministro dell’Interno quando le Brigate Rosse rapirono e poi assassinarono il leader della DC nella cruciale stagione detta della unità nazionale. 

Esso inquadra la personalità politica (e intellettuale) di Cossiga, almeno allo sboccio, nell’ambito delle faticose ricerche di equilibrio fra i due capi territoriali dell’Isola, Cagliari e Sassari cioè, che era una cosa ereditata, da parte della DC, dalle sfide municipaliste che rimontano i secoli. Viene qui spontaneo lasciare per gran parte allo stesso io (o lui) narrante il racconto che è, per la verità, anche assai gradevole… 


«Nella gara delle preferenze per l'elezione al primo parlamento repubblicano del 1948 – ecco l’incipit –, si sfidarono alla grande, nella lista della DC, il sassarese Antonio Segni con il cagliaritano Antonio Maxia, quasi che a quel primato fosse legata la sorte dell'isola.

«Anche con la nascita della Regione, la contrapposizione non si attenuerà e Torri e Campanili sarebbe divenuto il refrain polemico d'una campagna elettorale, scontro non certo amichevole fra un DC cagliaritano, Luigi Crespellani, ed un collega di partito sassarese, Nino Campus.

«Non a caso, anni fa, un fine intellettuale come il caro Michelangelo Pira aveva catalogato la rivalità fra le due maggiori città sarde “come un contrasto fra uomini politici che si contendono (per sé e per le loro clientele) i privilegi della rappresentanza e degli incarichi pubblici”.

«D'altra parte, se Cagliari poteva vantare il suo primato nell'economia, con un prodotto interno lordo per il 60 per cento originato dal suo Capo di sotto, in politica con Sassari non ci sarà match, dato che saranno due i presidenti della Repubblica nati e vissuti nella città della cionfra, e sarà anche sassarese doc il capo del maggior partito dell'opposizione comunista negli anni della prima Repubblica.

«Certo è che le due città paiono molto diverse, non solo fisicamente: l'una infatti ha voltato le spalle al mare, tenendosi rispettosamente distante perché ritenuto portatore di guai e di ladronerie, preferendo immergersi nel verde di ubertose campagne, mentre l'altra ha fatto del mare la sua principale risorsa, prostrandosi umilmente alle sue sponde e dando invece le spalle, orgogliosamente, all'entroterra agreste. Se quindi Cagliari ha fatto del mare il suo padre-padrone, a Sassari è la campagna ad avere preso possesso della città, tant'è che la sua struttura civica e civile, con tutti i suoi successi, pare legata a doppio filo con la sua base agricola.

«Ma le diversità non paiono solo dettate dalla geografia: toccano anche la componente sociale. Tanto Cagliari rischia di apparire chiusa e riservata, per certi versi anche ostica al visitatore, Sassari, al contrario, è capace di mostrare verso l'ospite una socievolezza cordialissima, assai più che altrove festaiola e gaudente. Il suo carnevale, ad esempio, come le altre occasioni di pubbliche allegrie, paiono dei segnali, per chi vi sia giunto dalla città dell'altro capo dell'isola, di uno spirito aperto e di una giovialità senza limiti.

«Scrivere questi elogi da Cagliari può anche far meraviglia, ma non vi è dubbio alcuno che Sassari debba essere amata e rispettata, compresa ed ammirata per quel che ha saputo dare, nella politica come nella cultura, alla nostra terra.

«È con questa premessa che si apre il ricordo della fraterna amicizia nata, una cinquantina d'anni or sono, tra un cagliaritano verace ed a prova d'anagrafe, ed un sassarese d'alto lignaggio e con quattro quarti di "sassareseria". Paolo Fadda e Francesco Cossiga, i loro nomi.

«Fra loro sarebbe nata una sorta di affinità elettiva, fondata – certo – su comuni principi ideali e, ancora, su di una consanguineità virtuale originata da simili arterie culturali. Naturalmente – occorre precisarlo – con una differenza sostanziale nella scala di valori, tutta a favore di quel "grande" sassarese.

«Ed a proposito di quest'aspetto, c'è un piccolo ricordo che lo conferma. Capitò in una sera invernale del 1960, o giù di lì, allorché Francesco – divenuto deputato nelle elezioni di due anni prima e, da subito, inseritosi alla grande nell'establishment politico romano – avendo incontrato l'amico nei pressi della tipografia de “La Nuova” (allora in via Asproni) gli diede un suo biglietto da visita in cui era scritto su due righe in un bel corsivo inglese: “Francesco Cossiga / Amico di uomini potenti”, a conferma della familiarità che aveva con i big del tempo, da Enrico Mattei al generale De Lorenzo, al cardinal Ottaviani ed a quant'altri, allora, detenevano a Roma il “vero” potere…   

«Fu poi proprio l'amico, per rispondere allo scherzo provocatorio, a farsi stampare dai Gallizzi dei biglietti da visita con su scritto, sempre su due righe: “Paolo Fadda / Amico di Francesco Cossiga, uomo potente”. Così, incontrandolo qualche giorno dopo, gli volle regalare un libro (il titolo poteva essere “Storia del potere in Italia”; l'autore, forse, Giuseppe Maranini) con dentro, a mo' di segnalibro, quel biglietto da visita di risposta...; tutto finì in una cena da “Michi”, allora il più elegante e costoso restaurant sassarese.

«I due s'erano conosciuti in un tardo pomeriggio di qualche anno prima, nell'inverno 1954-55, all'ingresso d'un cinema: l'uno, in compagnia d'un giovane magistrato, Antonio Pioletti, e l'altro, il “grande”, insieme ad un amico fraterno, Nino Giagu, allora funzionario dell'ente per la riforma agraria. Sullo schermo davano, pare di ricordare, “Fronte del porto” con Marlon Brando, un film premiatissimo da critica e pubblico.

«Nel dopo cinema, ricorderà, mentre Pioletti e Giagu andarono per i fatti loro, “io e Cossiga decidemmo di mangiare qualcosa insieme, nella trattoria di Bagassedda, in via Canopolo. Ci trattenemmo fin quasi a mezzanotte, parlando di amicizie comuni ma, soprattutto, di politica”.

«S'era scherzato su di una vignetta apparsa su “Il Travaso” (allora il giornale satirico più irridente) in cui, alludendo ai criteri di selezione della classe politica (ed in particolare di quella democristiana), metteva in bocca ad un predicatore quaresimale la frase: qui in terra non è come nel regno dei cieli, perché quaggiù più sono reprobi, più vengono eletti! L'allusione era pertinente a quel che pareva essere, allora, la classe politica regionale, dove s'intravedeva l'esigenza di un profondo rinnovamento. Anche la stessa DC regionale, primo partito dell'isola, pareva essere in mezzo al guado, incapace di abbandonare la sponda dov'erano al comando i reduci di quel popolarismo prefascista, legato a schemi e ad idee passatisti, per andare oltre, affidandosi a quella new generation under thirty con cui avviare una trasformazione della società isolana sulla scia di quel "miracolo" che stava esaltando l'economia delle regioni continentali.

«Il suo pallino intellettuale stava proprio nell'abbracciare una scelta tutta paretiana sulla funzione delle élite dirigenti. Nella sua ipotesi, per far maturare un “miracolo” sardo occorreva cambiare, ringiovanendola, la sua classe dirigente. Ricordava il precedente del primo dopoguerra, dove erano stati i giovani ufficiali under 30 della “Sassari” a divenirne i leader politici, scalzando le passate consorterie e portando avanti le nuove idee dell'autonomismo e del federalismo. Oggi, aggiungeva, si dovrebbe mobilitare una giovane élite che si faccia autrice di un punto di svolta, di un giro di boa, di un vero e proprio new deal alla maniera rooseveltiana. Perché l'avere ottenuto un'autonomia speciale e non avere selezionato una classe dirigente che la sapesse ben utilizzare, risulterebbe colpa grave.

«Con Paolo, che proveniva da una famiglia d'ingegneri e d'industriali (dal nonno che aveva partecipato all'epopea ferroviaria, al padre a capo di uno dei più noti gruppi di costruzioni edili), avrebbe confrontato, in lunghe conversazioni, le sue idee su come promuovere un'industrializzazione che divenisse il volano necessario per avviare quell'atteso "miracolo" in chiave sarda. Era sempre più convinto che per realizzarlo occorresse sostituire l'attuale élite, fossilizzata sulla primazia di un'agricoltura tradizionale, con un gruppo di uomini nuovi, dotati di buoni talenti e di forte volontà.

«In effetti, il problema d'una classe dirigente che fosse attrezzata per il nuovo tempo della rinascita sembrava essere il number one del momento. Allora infatti – s'era a metà degli anni '50 – la governance politico-economica dell'isola era composta, in larghissima maggioranza, da overfifty, ultracinquantenni, persone, quindi, che avevano vissuto il ventennio fascista, in piena luce od in apparente ombra. Una élite che, per ragioni anagrafiche, era rimasta ancorata in politica ai vecchi format del prefascismo e in economia al mito d'una agricoltura padrona delle attività isolane.

«Non v'è dubbio, però, che dietro di loro incalzava una nuova leva di giovani trentenni che s'erano abbeverati alla fonte dei nuovi saperi europei, superando così l'autarchia culturale della loro formazione studentesca nella scuola fascista, per perseguire gli affascinanti miti delle libertà delle grandi nazioni democratiche. Francesco era uno di questi...

Sassari e Cagliari, l’Isola fra Casmez e Rinascita

«Con Paolo amava discutere soprattutto di questi argomenti, nell'intento di capire se e come lo sviluppo dell'isola potesse essere avviato perseguendo strade similari a quelle messe in campo in USA, in particolare per lo sviluppo del Tennessee, con la costituzione nell'isola di un'analoga "Works Progress Administration", che, nei suoi proponimenti, altro non doveva essere che una "Casmez" per la sola Sardegna. Quindi, un'Authority speciale, slegata dai canoni e dai vincoli della pubblica amministrazione statale e regionale, a cui affidare la regia e la gestione delle risorse del piano previsto dall'articolo 13 dello Statuto speciale. Perché la Sardegna, amava dire, è ben differente dal Mezzogiorno continentale ed anche dall'altra isola, la Sicilia.

«Di questo suo progetto s'era tanto appassionato da averne discusso a lungo anche con Antonio Segni e non s'era scoraggiato di fronte alle contrarietà di quest'ultimo che gli aveva fatto presente più i pericoli che i vantaggi d'una "cassa solo sarda". Era, e rimaneva, suo fermo convincimento che, anche attraverso la costituzione di un'authority regionale, si poteva reclutare e formare una "nuova" classe dirigente.

«Anche Paolo, per la verità, ne aveva condiviso i principi, proprio perché la condizione d'insularità in cui si trovava l'isola, ne incrementava l'isolamento, e questo sia in termini di trasporti che di accesso ai mercati. Se in Puglia in Calabria ed anche in Sicilia, infatti, era disponibile un vagone ferroviario su cui caricare i tuoi prodotti per inviarli, senza trasbordi, a Roma, a Milano ed anche a Parigi, e vi era una rete continua di elettrodotti che vi trasportava la forza motrice necessaria dalle centrali alpine, in Sardegna tutto questo finora non era possibile. Per vincere l'insularità-isolamento (era questo il refrain) occorreva, quindi, far sì che anche un produttore sardo fosse messo alla pari d'un suo collega pugliese o siciliano.

«Talvolta queste conversazioni duravano a lungo, ed ai due s'aggiungevano altri amici, dando quindi all'incontro le caratteristiche d'un seminario: per capire e decidere cosa fare nell'isola per "ottenere una vera rinascita".

«Ed è quell'amicizia che si intende qui fare ricordo, proprio per utilizzarla come un utile passepartout per provare ad entrare nel mondo segreto d'una personalità straordinaria nella sua complessità. Di Francesco Cossiga, d'altra parte, è stato detto e scritto tutto e di tutto, dai suoi pungenti aforismi alle sue studiate pazzie, per cui non pare facile poter aggiungere qualcosa di inedito… 

«Charles ed Anna Forte, autorevoli esponenti dell'establishment finanziario londinese e molto amici della famiglia di Paolo oltre che di Francesco, lo avrebbero definito come il più british dei politici italiani del dopoguerra (oltre che il meno provinciale), un affascinante e coinvolgente intellettuale lib-lab, dalle idee modernissime e dalla cultura straordinariamente europea». Analoghi i giudizi di uomini pur fra loro diversissimi come Montanelli («uno dei pochi, o dei pochissimi, politici italiani ad avere, oltre alle mani, anche la mente pulita») e Guido Carli («Gulliver nella Lilliput parlamentare»)…


Naturalmente non mancarono anche diffidenze ed invidie. «Quelle rivalità si sarebbero poi tramutate – ecco ancora la ricostruzione storica e biografica dell’io (o lui) narrante – in isolamento, allorché Francesco, dopo la tragica conclusione del sequestro di Aldo Moro e le sue dimissioni da ministro dell'interno, si prese, per così dire, un anno sabbatico, esiliandosi in un piccolo ufficio in via San Claudio, non lontano da piazza San Silvestro.

«Paolo andò a trovarlo più volte, passando con lui delle intere giornate. Ebbe allora la percezione della sua tristezza ed anche della sua solitudine... Anche per questo le loro furono delle lunghe e amichevoli conversazioni, quasi sempre sintonizzate sui toni della nostalgia e del rimpianto. Voleva che lo accompagnasse a Londra, per trovare i Forte e poi in Irlanda per fargli conoscere quel paese che tanto amava. Ma il tema ricorrente era quello della degenerazione della lotta politica, dello scadimento dell'etica, della mancanza, in tanti dei suoi colleghi parlamentari, del senso dello Stato. Ed anche di come la classe politica sarda avesse vanificato, nelle rivalità di campanile e di fazione, la grande occasione dell'autonomia.

«Ricorda ora che gli trasferì un'osservazione del suo amico Ugo La Malfa, che diceva pressappoco questo: quando l'autonomia regionale non raggiunge il suo scopo, il risultato è che ci si rifugia sul separatismo, come una sorta di esasperazione ribellistica al fallimento, quasi una fuga in avanti ed una definitiva rottura nei confronti di un'ordinata integrazione con lo Stato. Ed in Sardegna, aggiungeva, siamo giunti quasi a questo punto, perché la classe politica non è riuscita ad interpretare finora quel che la gente chiedeva, avendo privilegiato più i caroselli delle alleanze che la progettazione di un nuovo assetto socio-economico.

«Si sentiva anch'egli responsabile di questo fallimento, di quest'incapacità di tradurre in atti concreti di governo i tanti proponimenti di quei lontani anni '50. Si mostrava convinto della necessità di rielaborare in qualche modo lo stesso concetto d'autonomia regionale, correggendo quelli che gli parevano gli errori allora commessi.

«Paolo non ricorda le parole precise, ma cerca di ricostruirne il senso. Francesco infatti punterà forte il dito sull'insularità-isolamento della Sardegna come il principale problema non risolto. Un isolamento che avrebbe corroso, come ruggine impietosa, i principi ideali dell'autonomia. Credo che si sia sbagliato – sosterrà – non mettere in conto che quella distanza tra l'isola ed il continente non è determinata da un braccio di mare, ma è fatta soprattutto da profonde lontananze culturali ed ambientali.

«Perché le realtà della Sardegna, avrebbe aggiunto, non possono essere assolutamente confuse con quanto presentano, anche in tema di sottosviluppo, le altre regioni della penisola e la stessa Sicilia: le centinaia di miglia marine che ci separano da quelle terre (un fossato che risulta un po' una tara, più psichica che fisica, preciserà) hanno determinato nel corso dei secoli delle forti e resistenti diseconomie, reali e virtuali, che abbisognano, per superarle, di interventi particolari, mirati ad attenuare quella che chiamerà la deriva mentale e comportamentale dell'essere isolani.

«Avrebbe ripetuto più volte, quasi fosse un ritornello, che a noi sardi c'era stata sì concessa una carta statutaria per l'autonomia, ma ci sarebbe mancata la cultura dell'autonomia. Nel senso che si è rimasti dei sudditi dello Stato, trasformandoci soltanto da degli ubbidienti "senza potere alcuno" a dei replicanti nell'isola, nei comportamenti e nei fatti, di quegli stessi poteri esterni. Cos'era dunque per lui la cultura dell'autonomia? Per dirla in breve, il contrario della cultura dell'isolazionismo autarchico, cioè una chiusura assoluta verso il mondo esterno. Con l'autonomia e la sua cultura – un concentrato di libertà, di autoresponsabilizzazione e di indipendenza – c'era il dovere di aprirsi verso l'esterno, senza soggezioni né puerili imitazioni, ma nell'intento di arricchire l'identità sarda con nuovi ed importanti valori.

L’autonomia fra dogma e responsabilità (secondo Cossiga)

«Francesco riteneva che avesse proprio ragione l'ultimo Lussu, quello che aveva ritenuto di collegare il suo originario sardismo con i grandi movimenti politici europei, proprio per sfuggire a quelle "chiusure" che sono troppo spesso presenti nel Dna degli abitanti di un'isola. Per questo era convinto che il confronto con gli altri fosse portatore di progresso, superando quelle prevenzioni che, per troppo lungo tempo e per ragioni diverse, hanno reso difficile quel confronto, quelle integrazioni e quelle contaminazioni.

«Nel suo giudizio, la responsabilità andava attribuita alla fragilità della classe dirigente, per via di una maturazione culturale mancata o abortita, ed alla debolezza di un governo regionale più interessato a consolidare il proprio potere (molto spesso fine a se stesso) che a predispone interventi per un migliore e più diffuso progresso.

«Eppure non intendeva cedere in alcun modo al pessimismo. Era sicuro che in Sardegna ci fossero gli anticorpi giusti per uscir fuori dall'impasse e per ricuperare il tempo perduto. Meditava di tornare a far politica nell'isola, di mobilitare nuovamente energie e risorse per dare all'autonomia tutte le valenze necessarie perché divenisse strumento di progresso. Forse non era del tutto sincero, o forse aveva lasciato troppo spazio a quel pessimismo della ragione che era poi una specie di schermo per il suo carattere tra l'empatico e l'umbratile, o – ancora – poteva essere una sorta di alibi intellettuale, perché in cuor suo già meditava la grande rivincita, un ritorno fra i big della politica nazionale.

«D'altra parte, dopo la tragica fine di Aldo Moro i primi a rovesciargli addosso le più pesanti responsabilità erano stati non pochi dei suoi "amici" di partito, quasi che la scelta della "fermezza" (cioè il divieto a trattare con i rapitori) non fosse stata la linea dell'intero governo e dei due grandi partiti che lo sostenevano, la DC ed il PCI. Ed è di quest'argomento che in quei lunghi pomeriggi passati insieme in quell'ufficetto romano si sarebbe parlato a lungo, racconterà Paolo. Proprio perché s'andava affermando la voce, fatta circolare anche da uno stretto collaboratore dello statista di Maglie, Corrado Guerzoni, che "fu fatto di tutto perché non si giungesse alla liberazione di Moro". Nell'intento di "non farlo parlare", perché non svelasse molte malefatte di suoi presunti "amici di partito". Cossiga era molto amareggiato per queste "voci", quasi che fosse stato lui l'architetto di quest'imbroglio. Anche per questo, l'amarezza gli era divenuta ancor più pesante, così come molto gli pesava il "rancore" che sentiva provenire da casa Moro».

Al contrario! Importanti, qui, erano le confidenze del presidente emerito ed ex titolare del Viminale, circa i tentativi esperiti per salvare davvero Aldo Moro e circa anche le inframmettenze di chi, all’apparenza amico, quella salvezza non voleva… «Senza Moro, dirà, la DC non sarà più la stessa, perché le è venuto a mancare quel collante cultural-politico che aveva fin qui permesso al partito di De Gasperi di essere un fedele interprete dei tempi nuovi e di quel che il paese, uscito dalle difficoltà del dopoguerra e dagli scontri ideologico-politici, richiedeva».  

Il Quirinale e il dopoQuirinale, a discettare di capitalismo

Ecco poi l’insperata rimonta di Cossiga, dopo i tormenti del 1978: presidente del Consiglio di due governi, presidente del Senato, presidente della Repubblica. Il mestiere finale di “picconatore”… la ripresa di contatto con la Sardegna e gli amici… in parcheggio. Con “Paolo” un incontro a metà aprile del 1997, a Roma, nella hall del "de Russie" in via del Babuino e poi, a cena al "Toulà".

«Si parlò e si discusse a lungo sul testo di una lunga intervista che Francesco aveva concesso a Massimo De Angelis del mensile "Liberal". Ad animare il nostro discutere fu, in particolare, il confronto fra l'affermazione cossighiana, come ricavata dall'intervista, sull'incompatibilità (o qualcosa del genere) fra l'etica capitalistica e la visione cristiana e cattolica della società e, per converso, su quanto scritto dall'americano Michael Novak in un suo saggio ("L'etica cattolica e lo spirito del capitalismo"), pubblicato dalle edizioni di Comunità. Due opinioni che apparivano contrapposte, ma che la collaborazione che Novak aveva dato al Pontefice polacco per le sue encicliche sociali, metteva un po' in discussione.

«In effetti, se per etica del capitalismo s'intenda la ricerca del solo benessere materiale individuale e del primato dell'avere sull'essere…, il contrasto con la visione cristiana non può che essere profondo, inconciliabile. Ma la parte peculiare dello spirito del capitalismo – affermerà Novak – non è però l'individuo, ed il suo personale benessere, ma il convergere di più individui in iniziative creative come le società di capitali e finanche lo stesso mercato che obbliga ad interagire fra più individui. In modo da realizzare un benessere sociale.

«Per Cossiga, ricorda Paolo, la contrapposizione aveva una sua ragione, per dir così, geografica, in quanto c'era un forte differenza fra il capitalismo "nord-americano" e quello "sud-europeo". Perché il primo avrebbe primeggiato nella filantropia, nella difesa delle libertà, nello spirito civico e nella costruzione di un welfare sociale, mentre il secondo si sarebbe arroccato in difesa del profitto e del suo esclusivo godimento individuale (o, al massimo, interfamigliare).

«In effetti, nel giudizio sul capitalismo mediterraneo pesava enormemente quell'etichetta calvinista teorizzata da Max Weber, rendendolo così antagonista al pensiero del cattolicesimo romano. Era stato proprio Amintore Fanfani, allora giovane professore alla "Cattolica", a mettere insieme, in un suo saggio, quest'incompatibilità "religiosa" ed a ricercare quella che sarebbe stata quella "terza via" che avrebbe portato all'ideazione e alla diffusione, in Italia e per mano dei "professorini" della DC, della scelta premiante per il capitalismo "pubblico". La si era intesa come mediazione fra l'iniziativa privata e le esigenze sociali, o – meglio – fra liberalismo economico e statalismo sovietico.

«Per Cossiga non era poi questo il senso della sua affermazione, anche perché il testo dell'intervista aveva "bruciato" in parte il suo ragionamento. Di fronte a quel che era accaduto di negativo nell'economia italiana nell'ultimo trentennio – era questa la sua premessa - si imponeva un radicale cambiamento, con il passaggio da un'economia capitalistica (come da noi s'era manifestata) ad un'economia di libero mercato. Perché – aggiungeva – qui in Italia non siamo mai riusciti a liberarci dal protezionismo dell'ancien régime e dall'autarchia fascista, tanto da aver teorizzato il primato di un capitalismo assistito e protetto che è l'antitesi di quei principi ideologici da cui ha tratto origine.

«Per questo occorre far riferimento al mercato, alla competizione sui mercati, per liberarsi dalle scorie di un assistenzialismo che ha come freezerato il nostro sistema industriale, rendendolo immune da ogni insuccesso gestionale e, quindi, suddito del potere politico (ricorderà, come esempio, alcuni interventi pro Fiat e pro Olivetti). Si è riusciti così a creare un ibrido capitalistico con delle imprese che sono private per gli utili e pubbliche per le perdite.

«Francesco sosteneva che anche l'economia di mercato avrebbe potuto creare delle disfunzioni e delle ingiustizie ed era perciò necessario non solo imporre delle regole legislative, ma soprattutto diffondere quella che chiamava la cultura delle libertà. E fra queste, come prime, la libertà di coscienza e, quella "controllata dalla ragione". Per lui, quindi, era necessario rifondare il capitalismo italiano attraverso l'innesto di un'economia di mercato che riducesse gli spazi alle demagogie delle pubbliche assistenze e, insieme, agli straripamenti del laissez-faire. Solo agendo così gli si potrà dare, sosteneva, un volto cristiano e cattolico.

«Per Paolo quella serata romana rimarrà indimenticabile, proprio per l'acutezza intellettuale e la serenità storica con cui Cossiga aveva "riletto" le ultime vicende del Paese. Perché quel 1997 non era un anno felice per l'Italia, in cui – dopo il tornado di tangentopoli – la politica aveva perso definitivamente la sua iniziale maiuscola ed era andata in mano a degli yuppie, a dei carrieristi spesso senz'arte né parte. Era, il nostro, un Paese che destava molto sconforto ed altrettanta apprensione, ed a cui mancava quell'establishment virtuoso che era riuscita a risollevarla dai disastri della guerra perduta.

«Aveva molta ragione Elio a cantare così a San Remo: “Parcheggi abusivi, / applausi abusivi, / villette abusive, / abusi sessuali abusivi; / tanta voglia di ricominciare abusiva. / Appalti truccati, / trapianti truccati, / motorini truccati / che scippano donne truccate; / il visagista delle dive / è truccatissimo. / Italia sì! Italia no! Italia bum! / La strage impunita”».

1928-1930, quasi gemelli, fra affinità elettive

A leggere, o rileggere, la vita pubblica di Paolo Fadda oggi giunto, con fervore ancora eccellente di pensiero ed azione, di relazioni e studio, di scrittura e cuore buono, sempre nella riservatezza piena, al suo novantesimo compleanno, dico a rileggere la sua vita pubblica certamente questo rapporto con Francesco Cossiga «affabulatore straordinario» costituisce un elemento che spiega molto di lui per tratti di umanità (e moralità) prima ancora che per indirizzi intellettuali od opzioni politiche. Un sodalizio amicale di mezzo secolo nel quale, a recuperarne ogni parte, potresti trovare il meglio di quanto la classe dirigente nazionale e regionale, sassarese e cagliaritana, avrebbe riversato, anzi, potuto riversare, a pro della società governata. Nelle confidenze che Fadda ha voluto lasciarci, ovviamente schermando in assoluto i più riposti spazi del privato, si sono affacciate le infinite scene dei loro incontri nei momenti i più diversi – all’hotel di via Cavour, verso villa Borghese ed il Pincio, alla casina Valadier tra il cancello di villa Medici e l'obelisco di Pio VII, da Rosati in piazza del Popolo…, ma anche fuori Roma, e Cagliari e Sassari, a Londra e in Irlanda, a Bonn perfino, «quand'era Presidente della Repubblica, in visita ufficiale in Germania». 


Grandi discussioni, importanti discussioni, confronti di idee ed analisi… come quelli sulla magistratura, il suo ruolo entro i perimetri della Costituzione repubblicana. Un tema bruciante per molti aspetti, perché il “tema” era ed è anche contenitore di una responsabile vautazione dei possibili errori e di più, dei possibili abusi da parte di «ayatollah della Repubblica» o «unti del Signore», cui allude lo stesso Fadda – richiamando definizioni attribuite all’ex ambasciatore Romano e a qualche giornalista di grido – nel suo L’amico di uomini potenti. Sono alcune delle pagine più pregnanti del libro, quelle dedicate alle discussioni con Francesco Cossiga (occasionalmente allargate coinvolgendo anche Francesco Pintus, al tempo procuratore generale a Cagliari) sulla magistratura inquirente e le funzioni del CSM («M'aveva chiamato di prima mattina al cellulare: sono a Cagliari, al "Regina Margherita", a due passi da casa tua, mi disse; raggiungimi così facciamo colazione insieme. Lo raggiunsi dopo una quindicina di minuti, mentre era ancora intento a farsi la barba nella suite di quell'albergo. Cominciammo a parlare di qualcosa che l'aveva molto colpito, ed era il suicidio del povero giudice Luigi Lombardini, perché ingiustamente coinvolto dai magistrati palermitani nell'inquietante vicenda del sequestro d'una giovane donna ogliastrina…»). Convergenti alcune analisi: «Cossiga avrebbe ancora aggiunto che, nel ruolo assunto da certi PM, c'è un equivoco di fondo: perché essi si sentono e si atteggiano, non solo nominalmente, a giudici: “in qualunque altro paese del mondo a sentire che un attorney (cioè un pubblico accusatore) venga considerato un judge (cioè un elaboratore di sentenze), si griderebbe allo scandalo. Questo capita da noi in Italia perché non abbiamo mai inteso distinguere, come negli altri paesi d'alta cultura giuridica, fra pubblica accusa e collegio giudicante. Tanto che il parlare dell'esigenza di procedere alla divisione dei ruoli viene fortemente impedita da certa sinistra integralista, perché ritenuta opinione ... filoberlusconiana. Così come occorrerà capire che l'obbligatorietà dell'azione penale, di cui si fa forte molta cultura giustizialista, non è altro che una finzione: di fatto non esiste. Sarebbe meglio parlare, più onestamente, d'una… incontrollata ed incontrollabile arbitrarietà ad uso dei PM…”. Anche Pintus, d'altra parte, faceva parte di quei magistrati, come Falcone, che erano per la separazione dei ruoli…».

Dico qui una mia impressione. Credo che per comprendere il giudizio politico di Paolo Fadda in questa lunga stagione post-democristiana il tema “giustizia” abbia avuto la parte preponderante. Lo ripeto con qualche inciso. Credo che per comprendere il giudizio politico di Paolo Fadda in questa lunga stagione post-democristiana – la stagione del maggioritario e anche, per gran parte, del berlusconismo (e oggi, ahimè, della volgare demagogia leghista in confezione sovranista) – e per farsi una ragione del suo distacco dalle ragioni ideali morotee fino ad accostarsi, se non con simpatia almeno nella logica ipotetica del “male minore”, al fronte cosiddetto moderato (in realtà, secondo me, estremista nel rozzo populismo coltivato ormai da venti e più anni dai sudditi del Cavaliere ed assolutamente devastante la pedagogia civile) il tema “giustizia” abbia avuto la parte preponderante: più che la politica estera e del concerto nell’Unione Europea, più che la politica economica post-PP.SS., più che la politica scolastica e sanitaria e delle infrastrutture, più che la politica – diremmo oggi – dell’accoglienza ai disgraziati dell’Africa nera… Per questo la vicinanza a Francesco Cossiga («che fu dei pochi che seppe sempre guardar lontano, dando alla politica la dimensione d'essere una grande ed importante palestra»), così netto su questo specifico campo, avrà avuto la sua influenza… confermativa: «Per Cossiga la sinistra italiana (erede del PCI togliattiano) avrebbe mostrato anche in questo caso quel suo atteggiamento saccente, supponente ed anche imperativo che è nel Dna di chi è stato educato alle Frattocchie. Nel senso che, machiavellicamente, i suoi leader avrebbero cavalcato il giustizialismo di quegli ayatollah come strumento per sconfiggere o, meglio, per far fuori gli avversari politici, "mettendoli dentro". Perché avrebbe aggiunto Cossiga…, l'uso politico della giustizia è tipico dei regimi autoritari, ed ancor oggi da noi in Sardegna c'è una ricca raccolta di detti popolari che condannano la giustizia ingiusta come praticata dal dispotismo dei viceré spagnoli o sabaudi!». 

Aggiungendo altro, e dichiarando apertis verbis la sua opinione fattasi ormai lontana e perfino contraria alle sensibilità morotee di un tempo: «Certo, quegli atteggiamenti fuori del coro dell'ex presidente della Repubblica gli avrebbero alienato simpatie e consensi, soprattutto da parte di quell'establishment che oggi tiene le redini politiche del Paese. E che continua ad opporsi a qualsiasi cambiamento, difendendo a denti stretti anche l'indifendibile (come nel caso d'una magistratura inquirente amante più del palcoscenico dei media che della vera giustizia)…».

Nella biografia di un «grande amico di Francesco Cossiga, uomo buono e potente»

Il quasi mezzo secolo di militanza democristiana coincidente per gran parte anche con l’assunzione di uffici importanti in enti pubblici ed istituzioni così come in compagnie private, talvolta con espansioni nella pubblicistica militante, aveva fatto di Paolo Fadda senz’altro uno degli uomini più… VIP dell’intera Isola, un protagonista comunque, anche quando il suo nome o il suo volto non appariva nei riscontri giornalistici… Dal 1964 al 1970 era stato giovane ed abile capogruppo dc al Consiglio comunale di Cagliari: giusto in una stagione che conobbe il passaggio della sindacatura da Giuseppe Brotzu a Paolo De Magistris e, in quanto a formula politica, l’evoluzione dal centrismo dell’asse DC-PLI al centro-sinistra comprensivo di socialisti (e talvolta anche di sardisti). In quegli stessi anni e nei due decenni successivi aveva assunto incarichi negli organi di vertice del Banco di Sardegna, dell’Università degli studi di Cagliari, dell’Ente Minerario Sardo… e in società e/o holding di primo piano come Bastogi-SAIA, Brioschi Finanziaria, Alberghiera Costem…, talvolta appunto con faticosi (eppur graditi) allargamenti nella pubblicistica di settore, come fu la direzione di Agricoltura Informazioni, autentica anticipazione – per la qualità e varietà dei contenuti – di Sardegna Economica, diretta di fatto dal 1997 ed anche formalmente dal 2007, fino al 2012, per mandato della Camera di Commercio di Cagliari affidata allora alla diarchia Mambrini-Solinas…

D’altra parte, l’attività di pubblicista Paolo Fadda (iscritto all’albo dal 1963, ma collaboratore di redazione già da giovanissimo, a cominciare da L’Unione Sarda in quel di Sassari – al tempo di un suo incarico come responsabile della locale filiale della concessionaria Innocenti, nei titoli della società Fadda-Tonini, e nel contesto dei… successi di collocamento delle nuovissime Lambretta) l’ha sempre praticata, all’inizio anche come cronista sportivo (esperto in specie di calcio e pallacanestro) per L’Informatore del lunedì dei primi anni '50… In ciò, pensando agli esponenti più in vista della politica regionale e della Democrazia Cristiana in particolare, lo si potrebbe avvicinare a Paolo De Magistris, l’indimenticato sindaco di Cagliari che per lunghi anni resse anche, come direttore dei servizi, l’assessorato regionale all’Industria, ma non trascurò di collaborare a L'Unione Sarda, all’Almanacco di Cagliari ed a riviste del pari apprezzate per l’autorevolezza delle firme. Nel book di Paolo Fadda – del commendatore Paolo Fadda –, oltre all’Almanacco ed a Sardegna Fieristica (ed ovviamente a Sardegna Economica), ecco anche l’iglesiente Argentaria, anche i Quaderni bolotanesi, ecc. Per non dire ovviamente delle partecipazioni a pubblicazioni collettanee (ne ho fatto esplicito riferimento nell’articolo “Paolo Fadda, l’86° compleanno di un patriarca civico”, uscito il 29 marzo 2016 nel sito di Fondazione Sardinia) e della sua diretta e personale produzione libraria forte di volumi insieme di studio e di divulgazione, e gran successo di vendite. 


Credo di possedere tutti i lavori in edizione di Paolo Fadda – si tratta ormai di decine di titoli – ed una certa predilezione oso ancora manifestarla per quelli che egli diede alle stampe nel passaggio fra anni ’80 e anni ’90, anche perché autoprodotti, affidati cioè al genio e all’abilità di un’editrice voluta dal commendatore che volle mostrarsi… autosufficiente rispetto alle tirchierie di certa imprenditoria editoriale sarda di quel tempo lì: fu Sanderson Craig Editore in Cagliari, ragione evocante, per segrete suggestioni, il nome di un importante console inglese a Cagliari della metà del XIX secolo. Vennero allora Alla ricerca di capitali coraggiosi: vicende e personaggi delle intraprese industriali in Sardegna (con l’accompagnamento dei ritratti a matita di Angelo Liberati), nel 1990, e Sa Cittadi avolotara: Borghesi, Majolus, Poeti e Palazzinari nella Cagliari della fine del secolo scorso, l’anno successivo. A fine decennio venne anche Avanguardisti della modernità. Alle origini della trasformazione industriale della società agricola sarda (accompagnato, quest’ultimo volume, da una gustosissima sezione fotografica riveniente dalle collezioni Siotto e Zedda Piras).

I libri dopo le riviste e i giornali, sempre la scrittura

Si trattava di libri graficamente tutti molto eleganti, ma pure sobri, documentati ma – sfuggendo all’autore l’interesse dell’accademia, e dunque anche una stretta scientificità marcata da un apparato di note di inevitabile appesantimento – sostenuti da corpose bibliografie contenute in appositi indici donati in sovrappiù al lettore: 81 titoli in Alla ricerca, 138 in Avanguardisti).

Credo di non infrangere la riservatezza epistolare – certo non è nelle intenzioni – se oso qui adesso riportare qualche riga di una lettera che il commendatore Fadda ebbe la bontà di inviarmi, in risposta ai miei apprezzamenti (che erano vivissimi), e anche alle osservazioni critiche o integrative, di Sa cittadi avolotara, il 20 gennaio 1992. Sono tre fitte paginette manoscritte – il che mi riporta allo stile di un altro grande amico e stimata personalità pubblica quale fu, e mi piace richiamarlo nuovamente, Paolo De Magistris – che testimoniano di lui, del commendatore, della sua “ideologia” civica, del suo sentimento di borghese produttore maturato nella Sardegna del Novecento ma così intimamente coinvolto, per gli aviti lasciti morali, nelle fatiche anche intellettuali della preparazione ottocentesca, fra industrie e commerci, banche e spedizioni in capo, tanto spesso, a famiglie in progressione di generazioni.

Ecco alcune di quelle righe che mi giunsero carissime e illuminanti: «Quegli anni fecondi che ho inteso “rileggere” fanno parte indubbiamente, come anche lei conviene, di un periodo straordinario (per le creatività, le iniziative, i fatti) della storia cagliaritana. Nel mio libricino (di tono indubbiamente “leggero”) ho voluto introdurre, peraltro, un convincimento “pesante”, legato – a mio giudizio – sulla importanza che avrà, per l’affermazione moderna della città, la forte alleanza che in quegli anni s’andrà a formarsi ed a consolidarsi fra alcuni grandi borghesi continentali (qui immigrati per affari o per esilio politico) e la parte più sveglia ed intraprendente della “nuova” borghesia locale. Sarà, questo “mix” lo zoccolo duro di quel notabilato urbano che, sulla scia del processo risorgimentale ed unitario, porrà mano ad importanti iniziative per far di Cagliari città “nazionale ed europea” non più “citta coloniale”, sede della corte viceregia. Mi era sembrato necessario, infatti, riscoprire e rivalutare il ruolo di quella borghesia urbana che non fu, dopo tutto, la grande assente (colpevolizzata ed angariata), come tanta storiografia marxiana vuol sostenere.


«Figure come Enrico Serpieri, Antonio Viganigo, Luigi Merello e Josias Pernis e, dall’altra parte, Francesco Zedda Piras, Pietro Ghiani Mameli, Falqui Massidda e Cocco Ortu andrebbero sempre meglio inquadrate per comprendere ed apprezzare quello che fu il vero ruolo nella formazione d’una comunità cittadina moderna e civile. Gli stessi progetti del Todde Deplano (per la Nova Karalis) e le prediche di De Francesco (per la Resurrectio Karalis) andrebbero collocati (anche per quel che mi è pervenuto nei ricordi di famiglia: mio nonno era Stanislao Scano, protagonista anch’egli di quella stagione avolotara) in quella forte intesa stabilitasi, in un connubio fra politica ed affari, fra borghesi continentali e locali. Un collante ideale per questa alleanza sarà poi la solidarietà massonica ed a quella solidarietà (anche se non sempre unitaria) verrà addebitato, dalla coscienza popolare, lo strapotere della loggia (is frammassonis ci indi pappant totu Casteddu). Mi accorgo, ora, grazie alla sua osservazione, che il ruolo di Enrico R. Pernis non avrebbe collegato all’affermazione bacareddiana: la mia allusione era riferita alla forte sponsorizzazione che la loggia offrì ai programmi “edilizi” delle giunte di Bacaredda ed al ruolo che, nella massoneria cagliaritana, ebbero personaggi come Pernis, Dionigi Scano, Giuseppe [recte: Giovanni] Zamberletti ecc.

«Tra l’altro, nella mia citazione, non intendevo che rimarcare l’importanza che ebbe la milizia massonica nel processo di affermazione di una classe borghese, vero establishment di comando negli affari della città. Intendevo ancora sottolineare il fatto che l’appartenenza alla stessa loggia favorì quella forte alleanza e, soprattutto, l’integrazione fra intelligenze e risorse continentali e locali, non più ripetutasi.

«Sulla borghesia infine (ed è questo il mio convincimento pesante contenuto in un libricino leggero) andrebbe espresso un più articolato giudizio: certamente negativo per quella rurale ed agraria che si limitò a cooptare i costumi assenteisti della vecchia nobiltà feudale; meno drastico, e per certi versi positivo, per quella urbana che non esitò a porsi alla guida di una rivoluzione mercantile e di un avvicinamento alla più progredita società continentale (gli stessi moti operai del 1906 ne saranno la controprova, per opposta lettura). Tutto qui. Mi scuso per la lunga risposta, ma l’argomento mi interessa…».

L’argomento tornò, oltre che in qualche rapido scambio occasionale, nei primi mesi del 1998, dopo la distribuzione cioè dell’Almanacco di Cagliari che comprendeva un bell’articolo a firma di Paolo Fadda sulla famiglia Pernis inquadrata nella sequenza generazionale e dei “contratti” interfamiliari (Josias – Eugenio sposato con Mirra Serpieri – Romolo Enrico sposato con Lina Tronci, per limitarmi adesso a un solo filone e a tre sole generazioni nel processo temporale dalla vigilia dell’unità d’Italia alla età giolittiana e anche all’avvio della stagione fascista). Agli apprezzamenti, sempre critici e positivi, il commendatore rispondeva: «Il mio obiettivo era quello di poter raccontare la “saga” di una famiglia che ha iniziato e diffuso l’imprenditoria moderna (capitalistica, aggiungerei) a Cagliari. Una grande famiglia borghese quindi, come di Buddenbrook di Mann o le dinastie italiane degli Agnelli o dei Marzotto. Non quindi una biografia di un Pernis (come altri avevano fatto per Josias), ma il racconto di come anche le generazioni seguenti avessero sempre perpetuato quell’ideologia “da grande borghese” (del profitto individuale e della generosità sociale) con cui avevano conquistato meritatamente in città fama e rispetto.

«Ora i Pernis più d’ogni altra “casata” hanno rappresentato un qualcosa di unico nella storia della borghesia cagliaritana tra i due secoli che, per me, andrebbe meglio conosciuto, analizzato e compreso. Purtroppo le fonti e le testimonianze non sono molte, dato che il culto del passato ha, da noi, assai pochi praticanti ed è molto facile assistere al delittuoso disperdere degli archivi.

«Non le nascondo che quel che ho raccolto è stato frutto di una fatica improba e spesso dimostratasi anche poco utile, ma quel che ho appreso mi ha dato modo di ricostruire una saga familiare che, spero, abbia interessato il lettore…».

E qui, o anche qui – pur condividendo soltanto in parte (ma in gran parte!) il giudizio storico di Paolo Fadda – affaccio, con spirito positivo e sempre positivo s’intende! – che anche riserve, o meglio considerazioni che vanno nel senso, fra l’altro, di smitizzare una certa enfasi creatasi intorno alle cointeressenze affaristiche di personalità fra loro associate dalla militanza massonica, ideale e civile. Purtroppo la perdita di trentacinque anni di verbali, della corrispondenza in arrivo e del copialettere della loggia Sigismondo Arquer – quella cui parteciparono Eugenio e suo figlio Romolo Enrico (che fu anche, dopo che Venerabile, assessore della giunta Bacaredda fra il 1911 e il 1913, per assumere quindi la presidenza dell’Ospedale Civile) – ci ha privato di una fonte importante di notizie su possibili combinazioni societarie conclusesi (ipoteticamente) nelle sale dei conversari annesse al Tempio di palazzo Fulgher, proprietà della Congregazione del SS. Sacramento in via Barcellona. Non comunque la Massoneria in quanto tale, ma la caratura imprenditoriale di questo o quello può avere favorito eventuali accordi o composizioni ora nell’edilizia ora nel manifatturiero, nei commerci dell’import/export o in altro settore attivo della Cagliari en marche fra fine Ottocento e primissimo Novecento… Le dimensioni della piazza economica locale, a ridosso del porto commerciale, consentivano a tutti gli attori sulla scena – massoni liberali e guelfi di curia – di conoscersi e trovarsi, incontrarsi, affidarsi reciprocamente. Va poi detto che la parte prevalente e più significativa (per i risvolti pubblici delle loro attività) dell’organico della capitale loggia Sigismondo Arquer (1890-1925), ma anche delle consorelle, come la coeva Karales (1914-1925) o le precedenti – dalla Vittoria e dalla Fedeltà (1861-1877) alla Fede e Lavoro (1868-1878), dalla Gialeto (1869-1880) alla Libertà e Progresso (1869-1881) – o le foranee d’Iglesias od Oristano, in parte anche Carloforte, ma dovrebbe dirsi anche di Nuoro e Sassari, di Alghero e Tempio, ecc. guardava piuttosto all’insegnamento e/o docenza universitaria, all’impiego statale e privato, alla libera professione (e anche alla marina mercantile come a quella militare) che non all’impresa, se non a quella commerciale e agricolo-commerciale.

Certamente condivisibile è comunque l’opinione espressa da Paolo Fadda, a proposito di borghesia produttiva, circa la partecipazione dei massoni sardi, e cagliaritani in specie, a quella sensibilità che affidava la conquista del progresso civile al gradualismo riformatore (con Bacaredda si sarebbe detto “liberalismo organizzatore”, anticipazione o preparazione della democrazia, quella democrazia che il grande sindaco celebrò in un memorabile discorso del novembre 1911): il gradualismo riformatore che univa lo spirito laico e secolarizzato al “fare” per intraprese che sempre meglio si presentavano interne alle regole e ai bisogni del mercato nazionale e anche internazionale.

Di sicuro era una borghesia che associava all’interesse privato una sensibilità solidaristica e filantropica (... all'americana!) che tendeva a supplire, dopo o a lato del mutualismo, le ancora persistenti e vistose lacune dello stato sociale, quelle stesse che il giolittismo – valga qui la categoria particolare per dar riflesso all’intera stagione prebellica – cercava di colmare con una legislazione progressista… Di qui infatti tutta una serie di iniziative assunte per sovvenire alle necessità rappresentate dalle fasce deboli della società, sostenendo – in concorrenza virtuosa con gli aiuti provenienti dalla parte guelfa, dalla Cagliari della rete conventuale o parrocchiale di monsignor Berchialla, o monsignor Serci-Serra, o monsignor Balestra, o monsignor Rossi cioè… – istituti ed ospizi o asili, promuovendo il dormitorio pubblico (girato poi alla Croce Rossa Italiana per farne un ospedale chirurgico al tempo della grande guerra), o la Croce Verde d’assistenza, o magari la Casa delle madri, ecc.

Allievo salesiano

L’argomento – i Pernis capifila della borghesia industriosa, della borghesia commerciale che lanciava e prendeva “ponti” dai mercati continentali ed esteri – porta la mente ai generosi sussidi della famiglia Pernis in particolare (e dei propri sodali) a pro delle opere pie e delle istituzioni sociali a conduzione religiosa, l’oratorio e la scuola salesiana in primis. E fra gli scritti più recenti di Paolo Fadda merita un richiamo speciale, credo, proprio quello dedicato al centenario della presenza dei figli di don Bosco in Sardegna, fra Lanusei e Cagliari e Sanlussurgiu ecc. Non tanto per la diligentissima ricostruzione di un complesso percorso storico evidentemente caratterizzato, nelle diverse stagioni del Novecento, dal mix fra lo stretto ecclesiale ed il più lato sociale, fortunatamente ben documentato dagli archivi della Famiglia religiosa ed in specie dell’Istituto di viale fra Ignazio, ma anche per i cenni – non più che cenni in verità – alla esperienza dello stesso autore nei suoi anni ginnasiali (cf. “Il centenario dei salesiani a Cagliari” in Un secolo con don Bosco a Cagliari. Cento anni di cammino insieme, Cagliari 2014). 


Ricordava, Fadda, le provenienze non soltanto cagliaritane dei suoi compagni, così come degli alunni di prima e di dopo: «sui primi cinquanta allievi del collegio di Cagliari, solo undici erano della città, mentre la maggior parte proveniva dalla provincia, soprattutto da centri lontani e disagiati logisticamente come Carloforte, Tonara, Santadi e Ballao. Così, laddove non era arrivato lo Stato, sarebbero stati i salesiani a diffondervi l'istruzione, a far in modo che tanti giovani maurreddini, trexentini o seddoresi sapessero dilatino e di algebra, di geografia e di greco. Saranno poi proprio questi ex allievi ad alimentare una classe dirigente isolana divenuta sempre meno urbana.

«Sarebbe stato proprio il lievito proveniente da questi ex allievi a tenere sempre viva nell'isola la fiammella di quella che piace chiamare la formazione salesiana. Che non ha riguardato soltanto la qualità dell'insegnamento e della didattica (che è stata peraltro sempre molto alta), ma che ha inciso profondamente nell'etica civile di quanti hanno avuto modo di studiare negli istituti tenuti dai figli di don Bosco. Essere ex allievo salesiano è infatti un plus che non scompare, che non si dimentica e che accompagnerà per tutta la vita… il ricordo degli anni trascorsi in collegio, la fraternità rispettosa maturata con i superiori, la lietezza dei giorni trascorsi in un ambiente sereno, avrebbero fatto sì che anche l'ostico greco di Senofonte, il ginepraio di certe costruzioni sintattiche del latino od i teoremi di Talete fossero stati amati alla stessa stregua delle belle gite scoutistiche, delle accese partite di calcio o delle esperienze filodrammatiche con cui si consumavano giornate indimenticabili.

«Per chi scrive, che ha poi proseguito i suoi studi al liceo classico "Dettori", - ecco qui Paolo Fadda che si ripensa adolescente – i cinque anni ginnasiali trascorsi nell'Istituto di viale Fra Ignazio, sono rimasti sempre, nella sua memoria, i più cari, proprio perché ad essi deve tanto della sua formazione di cittadino e di buon cristiano».

Evocando le larghe plaghe di povertà presenti nella Cagliari d’inizio Novecento, fra il sovraffollamento di sottani e tuguri e la diffusione di malattie come la scabbia, il tracoma, la tubercolosi, ecc. sarebbe stato scontato richiamare l’azione di soccorso e accoglienza delle sante vincenziane, di suor Giuseppina Nicoli prima, di suor Teresa Tambelli dopo, e naturalmente delle loro sorelle religiose, nel quartiere della Marina, e con loro (e molti altri del mondo cattolico) naturalmente dei salesiani. L’educazione come strumento preventivo delle… tentazioni. L’Oratorio guidato da don Giulio Reali, l’Istituto sostenuto da molti benefattori e premiato dalla raggiunta parificazione delle cinque classi ginnasiali… Poveri e ricchi insieme, e siamo già negli anni ’30, negli anni che finiscono nell’imbuto drammatico della seconda guerra mondiale per merito di dittatura.

Scrive Fadda: «Forse è importante comprendere il perché, nelle scelte di quelle classi sociali che, nella selezione del tempo, si indicavano di "benestanti", avesse prevalso, per i propri ragazzi, la frequentazione dell'istruzione nel collegio dei salesiani. Non è facile dire se questa fosse, in qualche modo, una sorta di voluto allontanamento dall'insegnamento dei ginnasi e licei pubblici dove, per tanti aspetti, prevaleva una sorta di indottrinamento laicista; o se, al contrario, ci fosse una convinta preferenza a quell'insegnamento cristiano (dei sani principi etici e dei virtuosi valori civili) che il collegio di don Bosco assicurava come dei validi plus per la migliore maturazione civica dei giovani.

«Proprio chi scrive, avendo frequentato in quel collegio le classi ginnasiali negli anni fascisti – per una precisa scelta voluta dai propri genitori – può testimoniare come proprio quell'educazione cristiana, come impartitagli dai sacerdoti dell'ordine di San Francesco di Sales, avrebbe prevalso, nella sua maturazione intellettuale ed etica, a quell'infusione di cultura fascista che aveva conosciuto nell'obbligatoria frequentazione delle organizzazioni paramilitari della Gioventù del Littorio».

I tuoni della guerra

Certo deve aver maturato lo spirito del ragazzo la sua presa di coscienza della caduta del fascismo, del regime di dittatura tronfio, razzista e guerrafondaio in essere già da otto anni prima che egli nascesse e che s’era detto immarcescibile, eterno. Eterno come il nazionalsocialismo dell’alleato tedesco. In L’amico di uomini potenti questo annota Paolo Fadda:  

«Proprio per quel tormentone imposto dalla gerarchia del fascismo, avrebbe avuto ragione quell'ignoto cittadino cagliaritano che, nei grandi manifesti affissi nella via Roma a metà del '41 ed in piena guerra, aveva corretto il punto esclamativo posto dopo quel perentorio VINCERE! con un bel punto interrogativo, ed all'altrettanto autorevole "M", firma del duce del fascismo, aveva voluto aggiungere una timida "a" seguita da tre puntini. Con quei suoi dubbi era stato di certo un buon indovino, perché alle vittorie promesse sarebbe invece giunto un rosario di insuccessi e di sconfitte militari e, insieme, una pioggia di bombe e di terribili distruzioni in tante città, compresa proprio Cagliari.

«Nella sua memoria quei ricordi rifioriranno assai spesso, perché quei cumuli di macerie polverose e quell'odore acre di morte gli erano rimasti impressi indelebilmente. Proprio perché da quei segni distintivi della sua città distrutta, avrebbe tratto il convincimento che quel fascismo non sarebbe stato eterno, come il sole o la luna, come sosteneva il suo capo manipolo della GIL. Non era certo un sentimento compiuto, ma quei dubbi gli erano sorti osservando quei giornaletti del regime che continuavano ad irridere Re Giorgetto d'Inghilterra e il ministro Ciurcillone, nonostante ce le avessero suonate di santa ragione a capo Matapan ed a Tobruk. Le mie preferenze andarono allora a quei vecchi album d'avventure, made in USA ma italianizzati dall'editore Nerbini, quelli di Cino e Franco, di Gordon e di Mandrake.

«Anche a Cagliari, per la verità, era cominciato ad emergere, in quei giorni, un certo malumore, un distacco dalla compattezza predicata e richiesta da gerarchi e gerarchetti del PNF. Aveva fatto specie l'arresto del giovane universitario Giampiero Besson che, rivolto ad un ritratto di Mussolini esposto nella sede del GUF nell'ex collegio di Santa Teresa in Marina, aveva pronunciato delle frasi oscene, mandando al diavolo il "duce di merda". Era stata la guerra, con quegli andamenti negativi che avevano messo in luce l'impreparazione delle nostre forze armate (sul nostro cielo volavano i nostri caccia CR 42 a doppia ala a fronteggiare gli "spitfire" dell'aviazione inglese, e sui mari si subivano le drammatiche intercettazioni con i conseguenti affondamenti per via di quei "radar" a cui i nostri generali non avevano voluto credere), ad aprire delle ampie brecce sul consenso al fascismo e sul morale patriottico.

«Che la gente avesse perso ogni fiducia nel fascismo, lo avrebbe avvertito nei discorsi di famiglia, in cui l'inevitabile disfatta militare andava ormai a braccetto con il crollo del "mito Mussolini": ne aveva parlato uno zio, alto dirigente in un ministero romano, affermando che ormai tutto era allo sbando e che nella capitale correvano ormai insistenti voci d'armistizio e di rimpasti nei vertici del partito fascista.

«Anche a scuola, nella sua scuola dei salesiani, un giovane prete che insegnava latino, leggendo quel che riportavano i bollettini di guerra, già da tempo aveva trasmesso ai suoi allievi le preoccupazioni per una sconfitta sempre più vicina e, insieme, il malumore per un "governo" che pareva insensibile di fronte a tanti disastri.

«Che quel "vincere" che campeggiava ancora nei manifesti fosse ormai divenuto un qualcosa di irreale era nella convinzione generale; e che di quella sconfitta il fascismo ne fosse il maggiore responsabile ne era divenuta la conseguenza logica.

«Non gli avrebbe quindi destato sorpresa alcuna quanto avrebbe appreso dalla piccola "radio Balilla" nella tarda serata del 25 luglio del 1943; era un annuncio che diceva: Sua Maestà il Re Imperatore ha accettato le dimissioni del cavalier Benito Mussolini ed ha nominato Capo del Governo il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio.

«Era la fine del fascismo, d'un regime, e per quel che aveva fino ad allora capito, una inattesa scissione di quella simbiosi "Patria-fascismo" su cui era cresciuto e su cui, con la scuola, gli avevano fatto costruire le sue certezze. Ora, come si fosse giunti a quel passo rivoluzionario, non gli era stato facile saperlo. Le poche notizie diffuse dall'EIAR, parlavano solo d'una decisione autonoma del sovrano…».

Dalle personali memorie salesiane risale, chiarissimo, il riconoscimento di debiti verso educatori e maestri frequentati ancora nel 1944-45 (dopo la devastazione dei bombardamenti e lo sfollamento cioè) «nelle piccole aule di fortuna di fianco alla vecchia cappella del collegio»: «furono anni decisivi». Testimonianza diretta quella consegnata al volume per il centenario salesiano: «L'insegnamento di don Giulio, che era il docente d'italiano, aiuterà proprio chi scrive a depurarsi – questo è il termine più appropriato – dai residui fumi della retorica del regime fascista ed a capire – questo sì che sarà per lui decisivo – il significato autentico del termine "democrazia". Inoltre, lo porterà ad amare un poeta come Rainer Maria Rilke, proprio per l'esser stato chiamato a commentare, con un tema in classe, dei versi di una sua poesia che poi l'avrebbero accompagnato per sempre, come straordinaria lezione di vita: Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e... cerca di amare le domande, che sono simili a stanze chiuse... Non cercare ora le risposte che non possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse... Di quell'insegnamento avrebbe avuto poi modo di verificare, nei diversi incroci della vita, la grande verità».

Arriva la democrazia

Per Cagliari come per la Sardegna e l’Italia tutta, la fine della guerra avrebbe presto significato l’incontro e lo scontro politico, quello elettorale, quello delle assemblee rappresentative: le comunali nel marzo 1946, le politiche e il referendum nel giugno di quello stesso anno, le prime parlamentari nel 1948… Furono «giorni in cui la politica – le scelte politiche – erano divenute, come si diceva, "un tutto". Nel senso che quelle elezioni avrebbero rappresentato un turningpoint decisivo per il nostro Paese: se rimanere nell'Ovest del mondo, fra le democrazie occidentali, o se trasmigrare nell'Est delle repubbliche sovietiche, non diversamente da Ungheria e Cecoslovacchia, cadendo nelle spire del totalitarismo marxista. Essere buoni cittadini e bravi cristiani, ci aveva detto don Brugo, uno dei nostri docenti più ispirati politicamente, significava dover effettuare delle scelte in difesa dei valori imprescindibili della propria formazione cristiana: così salvaguardare il proprio Paese dai pericoli dell'ateismo staliniano era quindi un imprescindibile dovere».

Sono, siamo alla conclusione. Il dodici-quindicenne ginnasiale iscritto ai corsi tenuti dai figli di don Bosco propone a se stesso, oggi signore anziano che s’avvicina ai novanta, e a tutti quanti gli fanno corona una riflessione sui tempi e sui modi della trasformazione sociale compiutasi a Cagliari (e di Cagliari) decennio dopo decennio, a partire da quel certo anno antivigilia di guerra patriottica e ancora risorgimentale, in quel di Palabanda: «Cagliari è molto cambiata. E sono cambiati, e non di poco e non sempre in meglio, i cagliaritani. È divenuta una città multiforme e multietnica, non più compatta come in quel lontano 1913, forse sformata e disordinata socialmente, non solo urbanisticamente, ma indubbiamente cresciuta sul piano del welfare sociale. Ha perso certamente qualcosa da allora, soprattutto nella coesione sociale dei suoi cittadini, ma è cresciuta nella consapevolezza delle proprie responsabilità e del proprio ruolo di città capitale dell'isola. Purtroppo ha ceduto molto all'egoismo, tanto da non avere più, come allora, molta attenzione ai valori della sussidiarietà e della solidarietà verso i meno fortunati, sostituiti purtroppo dal prevalere, in molti, del solo proprio tornaconto.

«Verrebbe quasi da dire che oggi, un secolo dopo, ha quasi più bisogno d'allora d'una forte infusione salesiana, perché i suoi giovani non scantonino dalla retta via e non s'abbandonino più ai vizi anziché divenire portatori di virtù civiche. Certo, la società di oggi non è più quella d'allora, né la famiglia ha la stessa solidità e la stessa compattezza morale. Ma i principi pedagogici di don Bosco sono sempre attuali, perché fondati sull'universalità della morale cristiana.

«Per essere chiari, occorre infatti riconoscere che proprio questa scuola salesiana abbia sostenuto e favorito la formazione culturale di generazioni di bravi cittadini e di buoni cristiani. Ma non solo. Ha fatto sì che si potesse contare su delle élites di uomini preparati ad assumere importanti responsabilità nella vita sociale, politica ed economica del Paese. Anche la Sardegna ha potuto godere dei benefici di questa scuola di vita, prima ancora che dispensatrice di saperi e di cultura…». 

Come Bobbio, diversamente da Bobbio

Chiesero una volta al filosofo Norberto Bobbio, allora al compimento anch’egli dei 90 anni – al Bobbio che giusto alla vigilia di quel gran compleanno aveva licenziato, per gli editori Laterza ed a cura di Alberto Papuzzi, un bellissimo libro autobiografico, Autobiografia il titolo –, quale fosse la qualità maggiore ch’egli, intellettuale di rango ma pure prestigioso esponente delle istituzioni dopo che dell’accademia, riteneva dovesse avere l’uomo: «la bontà», rispose, non l’intelligenza o la cultura o le esperienze, ma «la bontà». La bontà come categoria non autonoma, come una collina solitaria in una vasta pianura ricca di altre alture, una dote fra altre doti: no, la bontà come senso e sentimento della vita e della socialità, e dunque ispirazione ed accompagnamento, azione mentale e modalità ordinaria dell’essere e del fare, modalità di relazione e di pensiero.

Anche lui ora ai 90, e gli auguriamo – in buona salute e la perfetta lucidità di oggi – i 100, Paolo Fadda, per come lo conosco, è un uomo «buono» oltre che colto, dotto e d’infinita esperienza, è buono e partecipativo, umile come sanno esserlo i migliori: che si presta, di sua iniziativa, a servire la messa celebrata da don Mario Cugusi, a Sant’Eulalia o al Santo Sepolcro, in suffragio di chi pure non ha conosciuto personalmente e se ne è andata silente…, che si presta nell’assistenza quotidiana e continuativa dei malati, e quanti malati! nella sua strada…

Mi vien facile affermare pubblicamente (ma anche pudicamente) questo giudizio che poi non è nient’altro che un riconoscimento, una presa di conoscenza e nient’altro. Egli – sarà forse per l’educazione ricevuta dai salesiani settanta e ottant’anni fa – nutre il suo presente di “gran borghese” (ma lo ha sempre fatto!) della pratica quotidiana di un’arte che non è da tutti: della semplicità materiale, della pratica austera (e serena) che ha distinto la vita dei popolani suoi conrionali, generazione dopo generazione, nel trapezio inclinato di Lapola, passaggio necessario fra la città-dominario d’un intero millennio… dopo l’esaurimento del giudicato, e il mare che fu il perimetro della sua prima natura (e storia) fenicio-punica e romana, e altomedioevale. Il mare che egli gode, e interroga, e culla dalle grandi finestre di palazzo Zedda Piras. Per quanti decenni, anche nel Novecento, i pescatori della Marina soci della società parrocchiale di San Pietro, seduti a terra nel piazzale della darsena, riparavano e rassettavano le loro reti… e ricevevano la visita del commendatore, e anche la mia, allora bambino o ragazzino del giro di monsignor Sini, o già di dottor Floris… 

Zibaldone, in amicizia: per Sant’Eulalia, per don Mario Cugusi

Mi accorgo di aver sviluppato questo articolo di “festa” per il compleanno nuovo e bello del commendatore Paolo Fadda “patriarca civico cagliaritano” – lui come poteva esserlo stato, anni addietro il professore Antonio Romagnino –, con i ritmi scombinati, o rapsodici, dello zibaldone. Ma forse è questo il pedaggio che deve pagare il biografo, o l’osservatore chiamato a mettere nero su bianco, quando è egli stesso compromesso con il suo personaggio: così in uno stretto rapporto, fra consuetudine ed amicizia, per condivisione non soltanto di talune idealità ma anche di numerose (direi qualificanti ma anche defatiganti) esperienze. E quale esperienza fu la difesa dell’opera di pedagogia religiosa e sociale di don Mario Cugusi nella parrocchia interetnica di Sant’Eulalia, a Cagliari; quale esperienza fu la difesa di Davide contro la forza di Golia, negli stretti percorsi che ci erano dati dai potentati fragili eppure prepotenti ed autoreferenziali della curia romana, nel “caso” Cugusi ma anche quando a un diacono – pur lontano per certa sua visione ecclesiologica dai suoi stessi difensori – l’ordinario canonico incapace di dialogo e anche rispetto impedì per anni l’ordinazione presbiterale cui invece era ritenuto idoneo dal rettore del Regionale… Fino a dover noi rappresentare al papa stesso, in rapporti chiusi in doppia busta, tutta una serie di elementi critici da meglio indagare da parte di un visitatore apostolico, e giudicare e possibilmente sanare o superare, del costume della Chiesa metropolitana locale… Sarebbe venuta, nel febbraio 2012, la prima positiva decisione di papa Benedetto, sarebbe venuta poi, il 10 marzo 2015, la “dichiarazione” formale di papa Francesco, clamorosa per tanti aspetti, e dunque ancora una volta, seppur con quanto ritardo! le fatiche argomentative di chi aveva portato notizie e ragioni oltreTevere trovarono attenzione.


Verrà il momento in cui tutto quanto fu recato, da Cagliari, all’esame dei capi delle congregazioni vaticane e dello stesso pontefice potrà essere reso integralmente pubblico. Saranno forse carteggi che i loro estensori lasceranno agli storici avvenire, oggi bisogna soltanto dire essersi trattato di una testimonianza comunitaria obiettivamente non da poco, impegnativa anzi, e gravosa, dolorosa perfino, ma necessaria.

Cagliari e la Marina hanno perduto, nel 2010, giusto dieci anni fa, l’opera collaudata e ancora in progress e l’intelligenza realizzativa di don Mario Cugusi. E’ stato un male il modo, più che la cosa. Perché comunque la parrocchia di Sant’Eulalia è stata affidata, in subentro, a buone, ottime mani, ad un presbitero di infinite risorse spirituali, ecclesiali e sociali: a don Marco Lai, anima vigorosa ed abile, progettuale, provvida e generosa oltre ogni limite, della Caritas diocesana. E anche perché il talento di un presbitero di tanta dottrina e non minore carisma quale è don Cugusi è stato donato, virtuosamente negli aggiustamenti successivi (che non han dato però gloria a nessuno nelle stanze dell’episcopio), ad una comunità pari, per dignità, a quella urbana invedovata: alla parrocchia di Serdiana, segnata nel presente dalla risvegliata vivacità associazionistica tanto più dei ragazzi e nella storia segnata dal passo pastorale di due grandi arcivescovi che riposano il loro “sempre” in quella antica e dolce parrocchiale del SS. Salvatore: monsignor Agostino Saba – uno dei massimi storici della Chiesa nello scorso secolo – e monsignor Paolo Carta, cui di recente mi è stato dato di stendere, insieme con il prof. Tonino Cabizzosu, una biografia a quadri tematici. 

Don Cugusi, oggi prossimo al suo cinquantesimo di messa, ha costituito in questo periodo un ponte fra la città e il suo hinterland che può vantare una storia religiosa singolarmente interessante anche per gli uomini che l’hanno sostenuta addirittura nei secoli. Come già proposi tempo fa alla parrocchia pirrese di San Giuseppe che celebrava la memoria del suo fondatore don Salvatore Casu – quello stesso don Casu che da parroco di Sant’Eulalia avrebbe avuto a lungo per suo collaboratore e vicario l’allora giovane don Cugusi esordiente alla Marina – credo sarebbe utile e bello che a Serdiana, in onore degli arcivescovi di nascita locale Agostino Saba e Paolo Carta, sorgesse un centro studi e documentazione sulla Chiesa della cinta cagliaritana, di quell’area cioè che oggi chiamiamo “città metropolitana”. 

Questa è però, me ne accorgo, materia che (in parte) esula dal tratteggio biografico di Paolo Fadda che mi ero riproposto, di lui intendendo piuttosto presentare il profilo civile e politico e, ad esso connessa, la statura intellettuale di studioso e autore di saggi che rimarranno.

Con Carlo Delfino editore    

Il filone del quale egli s’è fatto caposcuola, e che metterei di fianco alle produzioni storiografiche promosse negli ultimi due decenni da Cecilia Dau Novelli (dapprincipio con Sandro Ruju) – mi riferisco in particolare al Dizionario storico degli imprenditori in Sardegna, Cagliari, AIPSA edizioni, 2012 e 2015, voll. I e II, e La società emergente: élite e classi dirigenti in Sardegna tra otto e novecento, Cagliari, AMD edizioni 2003, nonché Alle origini della Rinascita. Classi dirigenti e bonifiche nella Sardegna contemporanea, Cagliari, AMD edizioni, 2007 – è quello delle biografie dei capitani d’industria della Sardegna degli ultimi due secoli.

L’incontro con l’editore Carlo Delfino è stato felicissimo, ed il catalogo della casa editrice sassarese, già di alta qualità, si è di molto arricchito proprio per l’apporto dei saggi firmati da Paolo Fadda o da altri (come Bruno Addis, Alessandro Ponzeletti, Marisa Mura, Giuseppe Zichi) che hanno conferito le loro opere alla collana “I grandi dell’imprenditoria in Sardegna” curata dallo stesso Fadda. Tutte opere in cui alla densità delle informazioni si somma la scioltezza della prosa, che rende facile e gradevole la lettura, quasi si tratti di romanzi di vita. Opere anche che gli inserti fotografici (con il tanto di didascalie descrittive) integrano perfettamente, marcando con le evidenze fisiognomiche le sagome caratteriali dei protagonisti rappresentate nel testo.

Dopo L’uomo di Montevecchio – Giovanni Antonio Sanna cioè – ecco così Il Cavaliere del Nasco, biografia di Francesco Zedda-Piras, Il barone delle industrie nuoresi, alias Franceschino Guiso-Gallisai, Fratelli Pinna. Una storia di successi, riferito alla famiglia di Thiesi primattori eccellenti dell’industria casearia sarda, Montevecchio. L’ingegnere che la fece più grande, compendio biografico di Alberto Castoldi (sul conto del quale – direttore generale delle miniere e parlamentare cocchiano - l’autore aveva già dato alle stampe, e sempre da Carlo Delfino editore, La Montevecchio di Alberto Castoldi. La vita, i successi, i luoghi di un grande imprenditore, testo della conferenza da lui tenuta nel 2013, proprio nel villaggio minerario, all’inaugurazione della mostra degli oggetti d’uso comune e degli strumenti di lavoro e di studio appartenuti all’ingegnere che fu anche genero di Giovanni Antonio Sanna). E con loro, nella collana editoriale, Il patriarca del molino di Santa Maria (cioè Salvatore Azzena Mossa, saggio a firma di Bruno Addis), Il Commendatore delle corriere sarde (Sebastiano Pani cioè, di Alessandro Ponzeletti), Gavino Clemente. Il cavaliere intraprendente (di Marisa Mura), Sisini. Imprenditori di Sardegna (direi Francesco in primo luogo, ma l’albero genealogico compromesso nelle attività economiche è abbondante, di Giuseppe Zichi).  

Mi premeva segnalare queste più recenti fatiche che la mente e la mano instancabili di Paolo Fadda autore e curatore di collana ha offerto alla platea larga dei “consumatori” del genere biografico calato nella realtà socio-economica dell’Isola fra contraddizioni e avanzamenti. E ancora aspettiamo il resto, già annunciato (e magari… uscito nel frattempo): I signori di Turriga. Gli Argiolas di Serdiana, la storia dei Capra e perciò della Vinalcool, quella di Salvatore Dau, titolare di importanti concerie sassaresi.

 

         


Il manifesto della lettura storica, e della speranza ottimista

Come concludere questa galoppata intorno alla figura, ma preferirei dire la personalità, o soltanto la persona di Paolo Fadda? Penserei di farlo dando a lui stesso la parola, raccogliendo dalle conclusioni del più volte richiamato L’amico di uomini potenti un brevissimo brano che pare sintetizzare bene il suo giudizio sulla condizione presente e passata della sua e mia, nostra terra sarda, di noi sardi e volgere poi alla benevolenza della sorte, costruita però mattone su mattone dalla volontà e spirito comunitario e di sacrificio, il futuro che ci attende o sarà il presente di chi ci succederà…

Eccole le parole di Paolo Fadda (esse risalgono a una decina d’anni fa, o poco meno, e se assumono, in specie per le conclusioni, un certo senso se inquadrate nello sprofondo della recessione post-2008, paiono trovare una nuova significatività nell’attuale crisi pandemica):

«Un amico di grande saggezza sostiene che gli unici momenti di sostanziale e convinta unità del nostro popolo li si devono alla "Brigata Sassari", cioè a quell'esercito di fantaccini sardi dalle mostrine bianco-rosse, che si batté eroicamente nella guerra del '15-'18 in nome di una patria comune e in indipendenza di campanile.

«C'è ancora un altro aspetto, che sarebbe poi una penalizzazione, da cui l'isola non è riuscita a liberarsi completamente. Ed è quella maledizione di a “su connottu”, che ha condizionato, e continua a condizionarne il progresso. Ed è per questo che vorrei raccontare tre storie, che sono assolutamente vere, anche se potrebbero apparire come delle favole.

«La prima: un secolo e mezzo fa, allorché i deputati isolani di fede progressista si batterono perché anche la Sardegna ottenesse dal governo la sua rete ferroviaria, un movimento d'estrazione ruralista mise in piedi una decisa opposizione popolare, sostenendo che lo sferragliare dei convogli avrebbe spaventato e fatto abortire le pecore gravide, provocando così un forte danno alla pastorizia (meno agnelli e meno latte).

«La seconda: nei primi anni del '900, allorché un missionario della meccanizzazione agricola come l'ingegner Francesco Sisini, in sintonia con i tecnici delle Cattedre ambulanti, volle introdurre l'aratro con il vomero in ferro , in modo da meglio dissodare il terreno per la semina, furono assai numerosi i contadini che non ne vollero sapere, sostenendo a spada tratta che niente era meglio del tradizionale chiodo ligneo, perché così avevano sempre arato i loro padri, i loro nonni ed i padri dei loro nonni (aggiungendo che quel ferro avrebbe danneggiato la fertilità della terra).

«La terza, infine, riguarda la contemporaneità, ed attiene all'energia, cioè al caro-bolletta elettrica, che qui in Sardegna ha raggiunto dei record europei. Perché la si vorrebbe indipendente da ogni padre o madre che si trovi in natura. Così, dalle ribellioni popolari di anni or sono contro gli sbarramenti idraulici sui nostri maggiori fiumi (colpevoli di sottrarre spazi ai pascoli comunitari), si è giunti all'ostilità contro tutte le energie rinnovabili – vento, sole e acqua – colpevoli di violentare la naturalità dei luoghi e di danneggiare l'immagine bucolica delle nostre campagne deserte e selvagge (così da noi si continua a produrre elettricità da quel petrolio degli sceicchi che ogni anno aumenta i suoi costi).

«Questo perché gli ambientalisti di casa nostra (o, almeno, gran parte di essi), alimentati da una cultura talebanicamente conservatrice, continuano a mitizzare una passata civiltà contadina che sarebbe fiorita, a detta loro, in una immaginaria Sardegna felice (dimentichi peraltro di avere alle nostre spalle, purtroppo, solo un passato, neppure molto remoto, fatto di miserie, di lacrime e di infelicità collettive). Confondendo così – come sostiene un amico – la sostenibilità con l'immutabilità ambientale, tanto da negare che il paesaggio possa essere accompagnato da un aggettivo (vitato o agrumicolo, ma anche industriale o urbano) che ne specifichi la destinazione antropica impressa alla natura originaria.

«Ora, proprio da quel che si è appena detto, si può meglio comprendere come le vicende storiche di quest'isola ne abbiano segnato la difficoltà, e – non secondariamente – anche l'inettitudine ad affrontare le sfide dettate dal progresso. Perché siamo stati sempre più conservatori che innovatori e, ancora, perché abbiamo fatto dell'essere degli isolani degli isolati. Non paia questo un gioco di parole, ma un tentativo d'autocritica, d'esame di coscienza.

«Ora, se la storia – come ci hanno insegnato – è, o deve essere maestra di vita, al passato si deve saper guardare per trovare insegnamenti od ammonimenti, ed anche per capire come e perché sia necessario cambiarne le storture. Per noi sardi, poi, soprattutto la geografia dovrebbe esserci maestra, perché sarà proprio lei ad avere condizionato la nostra storia di isolani-isolati.

«Non vi può essere dubbio, peraltro, che sarà pur sempre la condizione d'essere un'isola ad impregnare la nostra cultura, sia quella sul versante del progresso economico che su quello dello sviluppo sociale. Tanto da far pensare che sarebbe necessario, e forse indispensabile, riuscire ad estirpare dal nostro gene l'impronta d'essere e di sentirci isolani. Cioè di dover rimanere dei "diversi" da quanti vivono in quella che un tempo veniva chiamatala "terraferma", cioè i territori continentali. Con l'aggravante che quella diversità la si sarebbe associata ad una sorta di neo-misoneismo, cioè un'avversione per tutto quel che di nuovo proviene dal di fuori.

«Potremmo quindi, un giorno o l'altro, divenire una "non-isola", nel senso d'avere acquisito, innanzitutto nella cultura reale, un patto di contiguità con quel che avviene altrove, ai di là del Tirreno? E’ una domanda che pongo ed a cui mi è difficile rispondere, perché m'accorgo che si mantiene sempre più esuberante, dalle nostre parti, quelle chiusure da isolamento, con quelle punte avanzate che non ci vorrebbero più italiani (e forse neppure europei).

«Per quel che ho potuto assistere in questi decenni, sarebbero state molte di più le sconfitte che i successi per quanti cercarono, con l'economia e con la politica, di patrocinare una proiezione extra-isolana, un andare verso stabili ed efficaci legami con l'esterno. E ad ogni sconfitta – vorrei aggiungere – avrebbe purtroppo corrisposto una chiusura, a sempre più mandate, del chiavistello con le terre continentali (andrebbero letti in questa luce, a mio parere anche i ciclici revival indipendentisti).

«Non ci si è neppure fatti convincere da quel che andava avvenendo attorno a noi, con un'economia mondiale che andava trasformandosi in arcipelago, secondo la fortunata metafora di alcuni studiosi americani. Un "arcipelago", dunque, dove anche isole come la nostra possano avere ragion d'essere, se interessate e capaci nell'utilizzare quei links che oggi rendono vicine anche le realtà più remote.

«Dalle nostre parti è rimasto purtroppo molto "romanticismo economico", di cui la metafora del "pecorino romano" e del pionierismo newyorkese degli Albano e dei Centola ne esprime tutte le valenze negative. Quasi che da quel 1900 il mondo si fosse fermato e che ai formaggi piccanti da grattugia potesse arridere la stessa fortuna di allora.

«Ma "torraus a cuili", come si dice dalle nostre parti. Domandiamoci quindi: quale domani si potrebbe prevedere od auspicare per la nostra Sardegna? Non è facile, in questo caso, far mestiere di profeta, dato che quel futuro sta tutto nelle nostre mani (e non certo in quelle di Giove).

«Cerchiamo di capirci meglio. C'è innanzitutto da prendere atto che si è entrati, ormai da qualche anno, in una fase fortemente recessiva dell'economia mondiale, ancor più grave, per quel che si può arguire, di quella esistente alla fine dell'ultimo conflitto mondiale. Sarà molto difficile, quindi, che una mano d'aiuto possa pervenire dall'esterno come allora; né si può pensare né ad un nuovo piano Marshall, né ad una nuova Cassa per il Mezzogiorno o ad una replica del piano di Rinascita. Dobbiamo farcela da soli, con le nostre forze e con le nostre capacità. Non ci sono più risorse esterne da richiedere ed occorre quindi pretendere la gestione più oculata possibile di quel che ci resta.

«Forse si è giunti all'antivigilia di un nuovo drammatico show-down, che imponga una mobilitazione generale perché ciascuno di noi, giovane o vecchio, uomo o donna, si rimbocchi le maniche e remi forte perché si eviti il naufragio e si possa raggiungere la sponda d'un rilassante benessere.

«Si dovrebbe essere convinti che il ritrovare una strada che ci riporti alla crescita comporta un metamorfosi che sia spirituale e culturale insieme; occorre ritrovare, ridando loro il primato, valori come il gusto per l'eccellenza, l'impegno per la creatività, la valorizzazione dei meriti, lo spirito della solidarietà e, ancora ma non ultimo, il senso della giustizia. Perché, come ci ha insegnato Weber, lo sviluppo nel progresso si fonda sempre su quei valori che definirei di natura spirituale: senza di essi fallirebbero anche le più valide iniziative, i più razionali progetti imprenditoriali. Sta quindi a noi – e soprattutto alle nostre giovani generazioni – riscoprirli e ricollocarli fra le priorità dell'impegno.

«Per questo, sono dell'avviso che debba scriversi a lettere cubitali in ogni cantonata dei nostri paesi e delle nostre città, come in ogni cavalcavia delle nostre strade (e ancor più nella coscienza di ogni sardo), quella "meravigliosa" frase del primo Kennedy: «Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country» (non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese).

«Ecco: mi pare questa la "chiusa" più giusta ed opportuna come morale di quest'antologia di ricordi. Perché in quegli anni difficili del dopoguerra, come in quelli euforici della riscossa, ogni sardo seppe dare il meglio di sé per far sì che la sua terra rinascesse e diventasse, a pieno titolo, una regione d'Europa. Ed è questo l'augurio (che è poi una forte speranza) che ci rivolgiamo in chiusura, perché quel miracolo d'allora si rinnovi e che ritorni fra di noi il progresso e il benessere. Così sia».



Redazionale:

A questo lungo articolo biografico di Gianfranco Murtas farà seguito, domani, una riflessione di Andrea Giulio Pirastu (fondatore dell'innovativa piattaforma giornalistica e di "self-publishing" Giornalia.com, per la promozione della scrittura e della partecipazione culturale), sulla produzione storiografica di Paolo Fadda e la sua presenza sulla scena civica cagliaritana di lunghi anni, titolo: "Tanti auguri a Paolo Fadda, conoscitore e rivelatore di Cagliari e dei Cagliaritani d’un tempo. I bellissimi novant’anni di un ragazzo innamorato della sua città"


Fonte: Gianfranco Murtas
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